I COLLOQUI DI METTERNICH

    Un italiano vivente, sostenitore assai autorevole dell'attuale regime, ebbe recentemente occasione di pentrar nel puro concilio dei numi indigeti della patria: ritrovo, di cui sempre gli italiani patrioti ebbero grande dimestichezza, fino a conoscere appuntino, e i tipi che ci bazzicano, e i discorsi che ci si fanno. Si parla, com’é doveroso, anche lassù, della grande opera di restaurazione nazionale che è in corso. Ma vari sono i pareri: anche perché le informazioni sono incerte e contradditorie. Tra i numi indigeti più inquieti e più curiosi di conoscere qualche cosa di preciso, l'italiano vivente trovò il principe Clemente di Metternich, già Cancelliere dell'Impero Austriaco, ornamento preclaro del concilio supremo per la sua fine arte di conversatore e per la sua competenza nei problemi tecnici e amministrativi del Lombardo-Veneto. Per avviare l'intervista, l'italiano vivente aveva creduto bene di dire al Principe:

    - Certamente, Eccellenza, vi sentirete soddisfatto di conoscere che la lotta contro il liberalismo, in cui voi soccombeste per colpa del secolo stupidissimo, sia ora stata vinta, e proprio nel paese che vi amareggiò di più il governo, da un movimento, mezzo impiegalistro e mezzo goliardico, per usare le parole proprie del nostro Gran Cancelliere.

    Metternich - Goliardico? Gli studenti sono dunque dalla parte della nuova Restaurazione?

    L'Italiano vivente - Ma tutta l'opera di sana reazione del nostro Gran Cancelliere ha avuto per sé fin dal principio tutto l'impeto dinamico della gioventù generosa degli studi.

Della vita goliardica

    M. - La "gioventù generosa" è una invenzione dei professori universitari, che, per salvarsi dalla taccia di pedanti, hanno enormemente gonfiato il valore e la capacità educativa di quelle disadorne e polverose stamberghe, in cui essi tengono delle dissertazioni, e che tutte insieme costituiscono una università. Un ministro sanamente reazionario, come io fui, non può amare né le università, né gli studenti. Finché le cosidette università sono modeste, e si contentano di rilasciare un diploma al figlio dello speziale che vuole esercitare il mestiere del medico, non c'è niente da ridire. Ma quando le università pretendono di costituire, di formare l'aristocrazia, o, come ho udito anche dire, la classe dirigente di uno stato, vi assicuro che noi, uomini d'ordine, dobbiamo ben ridere. Io ho osservato bene quanto succedeva in Germania, dal governo scolastico del signore di Humboldt alla rivoluzione. Quello che mi offese sempre, anche come studente, a Strasburgo, è la necessaria volgarità dei costumi goliardici, l'esaltazione della vita gaudente che si contenta di una sbornia, l'esaltazione della vita amorosa che si sta paga del postribolo: meschine illusioni di essere dongiovanni e libertini che si permettono tutti questi figli di filistei e futuri filistei, condannati a vivere senza neppure sentir l'odore della corruzione delle grandi corti e dell'alta società. Restai sempre offeso della schiavitù di caserma che è in fondo alle cosidette "libertà accademiche", del gusto da sottufficiali che è in fondo a tutte le vanità goliardiche: i professori di università, che si pretendono maestri di vita, non s'accorgono neppure di aver a che fare con degli stormi di giovani pedanti in calore, e credono davvero d'insegnar loro il tatto, il dominio della forma, la leggerezza disinvolta nel muoversi dentro i limiti di un cerimoniale, tutto ciò insomma che costituisce un allevamento aristocratico. Io conobbi il corpo dei Paggi alla Corte imperiale di Vienna – cosa erano mai le Università di Humboldt al confronto! Una paggeria a una grande corte fu e sarà sempre il miglior vivaio di uomini di stato, che non hanno affatto bisogno di ingoffirsi nella carriera accademica, né di perdere il loro tempo nel bonansismo universitario.





Della educazione sentimentale

    I. - Ma in Italia abbiamo avuto la rivolta di una generazione contro un'altra...

    M. - Giusto. Tu hai pronunciato una formola che rivela bene l'intima natura di tutti i cambiamenti nei gabinetti e nei ministeri, in tutti i regimi. Ma che cosa è la rivolta di una generazione? E' un ratto delle Sabine, compiuto con meno strepito d’armi dell'antico. Tientelo per detto: la conquista amorosa è l'inevitabile propedeutica alla conquista politica. Gli uomini nuovi che aspirano al governo dello stato e al servizio del principe, non si arrischieranno di sbalzare di seggio i detentori del potere, finché non hanno l'intima convinzione, e non godono della pubblica opinione che – purché essi volessero – potrebbero farli cornuti. Ogni rinnovamento, in ogni governo, è preannunciato da una serie di inconvenienti maritali e di duelli ridicoli per i genpopi che sono al potere. Di qui l'enorme importanza sociale dell'adulterio, che è la vera laurea, il genuino addottoramento, il titolo più probante che un ambizioso giovanotto possa produrre per dimostrare la sua idoneità a trattare i grandi affari. La conquista di una gran dama è l'ingresso al foro, e alle altre sedi olimpiche adorne di colonnati e di cupole. Questo è tanto vero per l'antico come per il nuovo regime, per la rivoluzione come per la restaurazione, per gli alunni delle paggerie imperiali come per i giovani pedanti della "generosa gioventù" universitaria. Ma solo una grande società, una grande corte assicurano al neofita la possibilità di una educazione sentimentale elegante, che non sporca. Quanto più si procede verso la democrazia, verso il sovversivismo, tanto più questo esame di laurea più vero e maggiore diventa una scrocconeria, uno scamottaggio. Chi è nato ancora a Corte, e fu educato in una paggeria imperiale, compie il suo bravo adulterio in punta di spada, disinteressatamente. Ecco il tipo del principe di Ligne. Chi è nato lungi dalla Corte, ma ha abbandonato per tempo il lerciume pedantesco delle università, perpetua un adulterio già più appesantito di sottintesi, di progetti lungimiranti: ecco il tipo di Rastignac. Chi è nato lungi dalla Corte, ed ha appreso la vita nelle università, non commette più adulterio: "fa carriera". Fra Gil Blas e il capo di gabinetto del regime costituzionale e democratico, non v'ha differenza di nobiltà e di rispettabilità: l'uno viene dalle stalle di Oviedo, l'altro giunge da una qualsiasi Università ben provveduto di bolli e di diplomi: tutti e due scalzacani delle conquiste amorose, come lo saranno domani della conquista politica: scrocconi oggi del letto di un'amante, scrocconi domani del seggio di un ministro: vili quest'oggi dinanzi al marito tradito senza grazia, vili domani dinanzi al popolo guidato senza abilità. Dalla "cultura universitaria", dalla "vita universitaria", mio caro, escono dei Gil Blas pedanti e dei capi di gabinetto insatiriti di promozione: ecco perché io sono nemico delle università, e detesto tutto ciò che sa di accademico, di goliardico, di universitario. Ed ora continui pure.





Della esaltazione patriottica dei pedanti

    I. - Ma in fondo io non vedo ancora perché l'entusiasmo e l'adesione dei giovani studenti dovrebbe essere disdicevole a un governo restauratore dell'ordine.

    M. - Ma perché la restaurazione è finezza di costumi e di educazione! E poi, perché la restaurazione è la pace, è il rinunciatarismo, come voi dite. Ora, la pedanteria libresca del patriottismo professionale, del razionalismo, dell'imperialismo, è sempre stata covata nelle università, istituti sovversivi anche quando sono in mano dei preti. Tutti questi morbosi furori sono la controparte del goliardismo, costituiscono un elemento integrante di quel modello ideale dello studente gozzovigliatore, beone, libertino e patriota, che si osa contrapporre al giovine diplomatico del gran mondo, accusato di fatua galanteria e di scetticismo. Guai allo stato che tiene in gran conto i pedanti delle università! Esso si incammina alla politica dei letterati, pretenderà di comandare al mondo senza possedere una aristocrazia, una moda, un bon ton, una classe che diffonde intorno a sé il gusto delle belle maniere: vorrà comandare il mondo senza avere un popolo di signori: il mondo non si lascia comandare dai parvenus, anche se sono coronati dal genio, o inzuppati di dottrina. La Germania dei nostri giorni lo ha ben dimostrato, quella Germania di cui voi tutti dicevate che vinceva le guerre per merito dei maestri di scuola... e dei professori universitari. Quante bubbole! E che rovinoso pedantismo patriottico! I miei amici di Prussia, Hardenberg, Ancillon, Beyme, lo hanno ben conosciuto, con occhi chiari. Io imparai da loro. Ancillon mi scriveva: "I giovani tedeschi prima desiderano e volevano il santo onore della patria, poi la forza come condizione della indipendenza, ora una forza preponderante in Europa: se io considero il loro orgoglio, il disprezzo sempre più vivace per gli altri popoli, la loro presunzione, i loro piani sempre più vasti, sono afferrato da un oscuro presagio: che noi tedeschi potremo diventare un giorno quello che sono stati i francesi: oggetto, prima, della ammirazione, poi dell'orrore, più tardi dell'odio, e finalmente della vendetta, di una secolare vendetta". Tocco sicuro nella diagnosi, non ti pare? Il mio Ancillon, vecchio arnese di Potsdam, frusto pedagogo dei figli del Re di Prussia, aveva a cuore la pace di Europa un po' più che non l'avessero, cento anni dopo di lui, gli uomini di stato democratici: e non si peritava di fare inchiavardare qualche centinaio di mattacchioni a Spandau. Un disfattista purissimo, come tutti noi della Restaurazione, che riuscimmo a dare all'Europa trent'anni di comoda pace. La gioventù generosa... quella era infelice. Censuravamo i giornali: tu non te ne scandalizzi, tu che li sopprimi. Aprivamo le lettere: come se una perspicace censura in tempo di pace, diretta ad impedire che i popoli liberi si scannino, non sia cento volte più lodevole di una censura improvvisata in tempo di guerra, destinata a sorvegliare che tra il gregge non ci sia manco un po' di malumore per lo scannamento!

Il compianto per i condannati allo Spleiberg

    Tu comprendi, mio signore, il terrore di noi, aristocrazia di uomini di stato, noi che in cinque o sei – non di più in tutto il mondo – avevamo disinteressatamente odiato Napoleone, noi che avevamo vinto tutti i fanatismi, sbaragliato tutti i modelli di società definitive e perfette, tirata la valvola di sicurezza a tutti i dogmi, di fronte alla infezione del patriottismo nazionale della "gioventù generosa". Avevamo fatto il processo ed eseguita la sentenza sulla eguaglianza giacobina, sul genio napoleonico, avevamo sbarazzato l'Europa da chi pretendeva di sistemarla definitivamente coi diritti dell'uomo, e da chi minacciava di accasermarla secondo il regolamento di coscrizione per le armate imperiali: vent'anni di fatiche e di ansie per indurre i popoli a non credere nelle verità rivelate dalle Assemblee costituenti, né a quelle bandite da un conquistatore fra i fuochi di bivacco, dopo una battaglia vinta: a ritornare a quelle verità più modeste, meno esasperanti, che la Chiesa enuncia – dopo aver ottenuto l’exequatur delle nostre Cancellerie... E dopo aver trionfato in una lotta così ardua, dopo avere, noi nobili, noi ancien régime, noi reazionari della Restaurazione e della Santa Alleanza, liberato i popoli dagli ottimismi rovinosi della Repubblica giacobina e dell'Impero, vedevamo i giovani, i "liberali", fabbricarsi un altro Moloch, l'idea nazionale, la patria, la redenzione dei popoli oppressi. Von Humanität, durch Nationalität, zum Bestialität: il motto, che Grillparzer lanciò, è mio. Come compiansi gli stolti che mandavo allo Spielberg, come disprezzai i popoli che cercavo di salvare!





Dell'eccellente Carlo Felice e di altri sovrani

    I - Anche i miei Cancellieri, non credo che abbiano molta stima del popolo di cui si sono costituiti salvatori.

    M. - Ottimo requisito, e necessario: ma non basta a darmi un reazionario di merito. Quali maestri, quali aiuti, avevamo tuttavia noi, uomini della Restaurazione, nei nostri sovrani! L'Europa non vedrà mai più una pleiade di monarchi, così saggi e amorosi dispregiatori dei loro popoli, così ponderatamente disfattisti, così diffidenti contro tutti gli applausi, così insensibili ai vaneggiamenti sentimentali di chi voleva offrir loro imperi e corone, così sordi per chi li chiamava a pazzesche liberazioni di popoli, così regalmente dimentichi di chi era caduto per loro. Il nostro vecchio Franz, Federico Guglielmo di Prussia, tormentato, oltre che da un popolo vaneggiante di patriottismo, anche da una moglie esaltata, Luigi XVIII, sapiente come un antico filosofo, Ferdinando di Napoli, Carlo Felice rex Theatrorum, quali sovrani degni della nostra Restaurazione! Dopo costoro, le cose mutarono: vennero i mistici, le spemi tant’anni cresciute dei liberali, i re borghesi, i re magnanimi, e peggio ancora, i re padri della patria. Re padri della patria: cioè padri, a corta o lunga scadenza, della rivoluzione, della cacciata dei re, del regicidio. Ma costoro io non vidi: li fiutai da lungi, dal fondo del mio gabinetto di Cancelliere imperiale: e cercai invano di diseredarli.

    I. - Ecco perché tu hai fatto morire l’Aiglon. Di baci sazio, di austriache piume, piegò come pallido giacinto.

Dell'importanza dell'almanacco di Gotha

    M. - Lasciamo andare queste chitarrate. Sarebbe forse vero quel che mi fu sussurrato, che avete imparato la lex imperorum da un professore gran dignitario massonico, e vi siete incapricciti di un po' di impero alla vista dei figurini di Caramba, nella rappresentazione di quel pasticcio di Rostand? Sarebbero gran brutti cominciamenti per chi vuol essere reazionario. Spero che i tuoi cancellieri studieranno piuttosto l'Almanacco di Gotha. Io fui fortissimo in genealogie principesche. Un grande uomo di stato, prima di essere Cancelliere dell'Impero, o ministro degli Esteri, o quel che tu vuoi, è notaio della Corona, idest, guardiano del talamo regale. L'almanacco di Gotha era il mio livre de chevet. I ministri della democrazia tengono invece sul comodino l'elenco delle votazioni nominali della Legislatura in corso.

    I. - Ma tu non vuoi che i re amino il loro popolo?

    M. - Un re, un gran re, ama la sua dinastia. Questo amore non è istintivo nei re, come l'amor materno non è istintivo nelle madri: è una lenta affermazione pessimista contro il volgo che vede dappertutto corrispondenza d'amorosi sensi, è una faticosa conquista del dolore delle generazioni. Arrivare a questa affermazione e a questa conquista, amare la dinastia e portarla coscientemente in sé nello splendore della maestà, ecco il compito di un gran re. Se poi ha reni robuste, abbia pure il suo parco dei cervi. I cancellieri, guardiani del talamo legittimo, non alzeranno la cortina dell'alcova della favorita... Permettimi, a me che fui un servitore fedele degli Absburgo, di testimoniare ancora una volta tutta la mia ammirazione per il ramo primogenito dei Borboni, rigermogliato a Napoli e in Ispagna, tutta gente generata per il trono, e che sapeva molto bene distinguere tra talamo e alcova, tra le virtù di un droghiere e quelle di un re.





Dei bellissimi nomi dei Borboni di Napoli

    I. - Ma costoro procedevano troppo spesso da un macchiato letto a un addobbato altar: e poi avevano il vizio di dormire poggiati a un bianco seno, col pugno all'elsa, e sulle teste il pié.

    M. - Questo è un figurino di monarchia come la può immaginare un sovversivo, che nei momenti di noia sognacchia di Nana Sahib. I Borboni di Napoli, in particolar modo, così maltrattati dai liberali, dimostrano tuttora di essere sempre una speranza della causa dell'ordine: e sai come? Nell'unico modo che a principi in esilio sia concesso: nella scelta dei nomi per gli ultimi nati. Il nome di un principe: avete mai riflettuto voi, uomini della nuova restaurazione, a tutta la sua enorme importanza? I Borboni di Napoli, nella loro residenza di Cannes, continuano ad imporre ai nuovi nati i nomi lazzaroneschi che un tempo furono imposti, nei battesimi regali di Caserta. Prima della usurpazione, i principi si chiamavano Vincenzo, Pasquale, Gaetano e Francesco di Paola e Gennaro, le principesse si chiamavano Annunciata e Immacolata. Come i cafoni e le cafone del Reame. Adesso, l'ultima generazione, cacciata dalla rivoluzione, porta ancora in giro per la Costa Azzurra proprio quei paesani nomi onorati di Gennaro e di Gaetano, di Lucia e di Maria Addolorata. Come i cafoni e le cafone del reame cacciati dalla miseria, li portano in giro per le Americhe. Qualunque altra famiglia italiana se ne vergognerebbe: e tutte cercano difatti di rinnegare i morti pigliando a prestito i nomi dai libretti d’opera. Per mio conto, chi al suo primogenito non impone il nome di suo padre, e foss'anche il più zelante partigiano del governo, lo farei tener d'occhio dai miei emissari, come testa balzana e curiosa di pericolose novità. Tutto si combina, "tout se tient": un governo restauratore dell'ordine, nel vostro paese, non può non sentire molta considerazione per i Borboni di Cannes, gli unici principi che nell'alta società internazionale portano i nomi del popolino napoletano.

Dei matrimoni principeschi

    I. - Ma dopo aver pensato al battesimo, un governo di restaurazione dovrà pensare anche a tutti gli altri sacramenti, matrimonio compreso?

    M. - Mio caro, mi hanno voluto dire che regnano oggi dei re che si proclamano pronti a lasciare il trono pur di risparmiare un dolore alla "patria", re che carezzando la testa del loro erede in presenza di ministri malfidi, dicono. "Questo qui, beato lui, non conoscerà le seccature delle crisi ministeriali", dei re che quindi non sanno neppure imporre alle loro figlie un matrimonio di alta convenienza politica. Nessun dubbio che re di questo conio vanno dolcemente sorretti verso una più esatta concezione degli interessi della dinastia.

    Il matrimonio dei principi e cosa di gabinetto. Quando una principessa fa "un matrimonio d’amore", come volgarmente si dice, vuol dire che sono vicini i progettisti di brefotrofi che vogliono sbarazzare le madri dall'onere dell'allevamento, vuol dire che sono in marcia i sovversivi che vogliono fondare la republica dei cani. Una donna nata sui gradini del trono, dev'essere prima di tutto madre di re: per l'amante, in essa, non c'è posto degno. Te lo ripeto: l'amore per la dinastia è conquista faticosa del dolore di tutti giorni e di tutte le ore: impone rinuncie e sacrifici; un principe che vi si sottrae, vuol vivere gratis. Neppure i principi vivono gratis. Quando Sua Altezza la duchessa di Parma andò a nozze con Napoleone, v'era chi volle accusare me di cinismo, perché, nel solito cerchio di intimi, avevo detto che l’orco chiedeva una vergine, e che la vergine doveva essere consegnata per il bene della dinastia. Ma lasciai dire. Erano le solite consorterie di corte liberaleggianti, patriottiche, giacobine: véntole della politica. Il popolo – il popolo in nome del quale costoro parlano – comprende molto bene gli interessi, le combinazioni, le nozze della politica dinastica: le parole del vecchio Goethe sono sempre l'unico riassunto delle variazioni nelle opinioni politiche popolari: "Un giovane principe rinfranca le speranze dei sudditi, fa germogliare nuova vita: un vecchio le prostra". L'unica forma di femminismo che il popolo apprezza, è quella della figlia del re, che, vergine e sola, lascia la patria piangendo per andare a regnare su paese lontano ed ignoto: tutti sentono allora che vi sono sacrifici riservati, che vi sono privilegi anche nel dolore, che vi sono disegni lungimiranti, combinazioni elevate, arcani di stato, alla cui consacrazione occorre una figlia di re. Ifigenia e la leggenda del suo sacrificio - ecco qualche cosa che respinge davvero – dall'alto, le turpi ciarle sovversive della republica dei cani.





Dell'aristocrazia dei fabbri di villaggio

    I. - Ma un uomo di stato moderno, uno dei giorni nostri...

    M. - Un uomo di stato dei giorni tuoi, può essere che non possegga le arti di ragno che io ebbi ai giorni miei: ma si occuperà anche lui, di dinastia e di tavole genealogiche. Egli si vanterà dei suoi nobili antenati, che sono, a parere mio e di Giuseppe De Maistre, assolutamente indispensabili per poter governare...

    I. - Ma no, Eccellenza: il mio più gran Cancelliere, che si proclama fortissimo uomo, è nato di plebe: ed egli stesso lo dice, gloriandosi di essere figlio di un fabbro.

    M. - Figlio di un fabbro... Comprendo assai bene ch'egli lo dica forte: scaltro uomo dev’esser costui. Non lo direbbe, no sta pur certo, se fosse figlio di un cuoco. Su un plebe di ragionat, di piazzisti, e di tornitori di officina, il fabbro di villaggio è una figura distinta ricca di tradizioni, grata al ricordo dei figli arrivati. Il fabbro del villaggio non è plebe: perciò il tuo gran Cancelliere lo ricorda. E’ visiterà anche la casa paterna, no? Vedi! Ne ero sicuro. Una piccola casa di artigiano rurale non è plebea: un cancelliere può compiacersene, di fronte alle coppie che si congiungono, una sopra l'altra, nelle caserme operaie, come conigli accoppiati ai vari ripiani di una razionale conigliera! Da questi accoppiamenti coniglieschi, sarà ben difficile che un qualunque arrivato tragga motivo di compiacimento: e il tuo gran cancelliere non avrebbe condotto i suoi fedeli ad ammirare il luogo dov’ei nacque, se invece d'esser nato nella casa del fabbro di villaggio, fosse nato in un qualunque volgarissimo casermone d’affitto, in un polveroso sobborgo delle nostre città. Anch'egli, vedo, e amatore di genealogie, secondo che può. E’ con la grande nobiltà italiana, in che rapporti è il tuo gran cancelliere, nato di plebe?

Di certi ricevimenti al Circolo della Caccia

    I. -Eccellenti. La nobiltà lombarda, riunita al Cora, è uno dei saldi appoggi del suo cancellierato: la nobiltà romana, riunita al Circolo della Caccia, lo proclama solennemente suo socio onorario. Il sovrano Ordine di Malta lo adula, offrendogli, come a un Cardinale, le insegne di Bali. Egli le accetta.

    M. - Dei principi romani non mi stupisco. Sangue di preti: non è possibile aspettarsi da loro quegli aristocratici bronci, quelle esclusioni provvidenziali per far comprendere all'uomo di governo ch'egli può, si, far muovere i poliziotti e i reggimenti, ma che non può, non potrà essere mai accolto da pari i pari in un grande salotto. Mi stupisco di lui. Un figlio di fabbro, un plebeo, può essere, se non nobile, di sangue aristocratico: a patto che si tenga ben cara la sua schietta plebeicità, e non la contamini. Un uomo d'ordine, un "restauratore", deve avere il gusto, il piacere di queste distinzioni: la disciplina sociale più rara è quella che arresta il plebeo potente dinanzi alle soglie dei gran mondo, lieto di aver ritrovato nella distanza delle abitudini la distanza della nascita, timoroso di offendere Dio, col troppo chiedere al successo politico. Lo spirito, il profumo di qualunque restaurazione è tutto in queste rinuncie. Difendere il capitalismo senza avere un soldo di capitale, la proprietà senza possedere un pollice di terreno, l'aristocrazia, quando si è circondato da principi romani, la monarchia, quando si vive in un suolo senza re: ecco qualche cosa di degno, di aristocratico, per un plebeo che comanda, per un figlio di fabbro che ha l'orgoglio di avere un solido cervello di uomo d'ordine. Ma se costui va a prendere l'assoluzione al Circolo della Caccia, è un sintomo di intimo sovvertimento. Che mi rende pensoso.

Della dolcezza dei modi necessaria all'uomo di stato

    I. - Eccellenza, per favorire l'avvento di una nuova mentalità influenzata dalla modernità meccanica veloce e imperialmente costruttiva e conquistatrice, ci vogliono dei giovani capi, duri e inesorabili. Per affermare la reazione sul liberalismo putrefatto, bisogna schiacciare, con durezza ed energia giovanile...

    M. - Questi avverbi mi danno alla testa.

    I. - Eppure, eccovi l’ultimo discorso pronunciato da uno dei nostri cancellieri, a Padova.





    M. - Vedo, vedo. Cosa vuoi che ti dica? Io assunsi il potere giovanissimo, ma mi guardai bene dall'accennare venti volte in un discorso alla mia "anima giovanile adusata più all'entusiasmo, ai cimenti che non alle regole precise del protocollo e del governo", alla mia "esuberanza giovanile", agli "anni felici della vicina gioventù che solo si bea di tranquillità". Io nascondevo la mia gioventù come una involontaria offesa ai principi dell'ordine: età terribili, età di sovvertimento sono quelle in cui i figli pretendono di convertire i padri! Costui invece mette in mostra la sua gioventù, come un giocoliere esibisce i suoi muscoli. Sarà. Non parliamo poi della esaltazione della durezza. So che nei libri di testo dell'Italia democratica si dipingeva anche me come un Cancelliere imperiale duro e inesorabile. Per via degli equivoci occorsi nell'amministrazione del Lombardo-Veneto. Che dei partigiani del "régime de la gueule" amino rappresentare i loro caporioni in pose titaniche di ferreo imperio, l'ho sempre veduto. Ma che dei pubblicisti ufficiali di un governo reazionario facciano ogni giorno l'esaltazione della durezza e della inesorabilità dei loro cancellieri, è inaudito. I miei pubblicisti, il mio carissimo Gentz – qualche cosa come il capo dell'Ufficio Stampa – vantavano sempre, al contrario, la mia benignità e la mia piacevolezza. Se mi avessero spacciato per duro e inesorabile, li avrei licenziati. La reazione è nelle labbra sottili, non nel gioco dei muscoli facciali. Di giochi di muscoli facciali ne eravamo stufi, dopo venti anni di rivoluzione e di impero! Nel sovversivismo, io odiai sempre la posa. Detestai sempre i Prometei con la puzza di piedi. No, no: io fui un assolutista nell'arte di governo: ma appena un sollecitatore, poniamo un borgomastro, veniva introdotto alla mia presenza, nascondevo il mio assolutismo sotto le belle maniere. Quando il mio buon amico Capefigue voleva difendermi dalle accuse dei liberali italiani, io gli suggerivo di scrivere così: "Si potrebbe paragonare il governo Austriaco a un padre di famiglia amorevole, inquieto, un po’ difficile per tutti i suoi figli, con dei primogeniti pacifici, dei cadetti un po' turbolenti, ch'egli tiene con amabile severità, per risparmiarsi il dolore di doverli castigare". Non è forse ben delicato, per fare comprendere che qualche liberale lombardo lo avevamo mandato allo Spielberg? Un tono più alto, c'era l'ostentazione della faccia feroce. Orribile. Così invece va bene.

    I. - Ma questo è lo stile del Mondo!

Della faccia feroce, e della sua volgarità

    M. - E’ tu compra gli scrittori del Mondo. Vuol dire che sono i soli commentatori decorosi di un governo reazionario. Non dico che poi, in ristrettissimo circolo, i tuoi Cancellieri non possano argutamente motteggiare sulle stoltezze dei liberali. A' tempi miei, il Pellico, il Mazzini si prestavano bene a qualche osservazione garbata. Nel Pellico, per esempio, tanti lamenti per una camera al quarto piano, nel Palazzo dei Dogi: una camera che Lord Byron avrebbe pagato qualche centinaio di zecchini, solo per la vista splendida sul Canal Grande! Ma queste cose spassose, un uomo di stato le tiene per le sue geniali conversazioni... Oh, ma nei documenti ufficiali, solo lo stile di Capefigue! L'arte della conversazione, la concordia di una società elegante, aborrono dalla simulazione della faccia feroce... Quella che nei miei viaggi alla Corte di Napoli udivo denominare volgarmente "incassatura a freddo" è uno spediente di governo desolatamente democratico, "gueulard". La mia civetteria si compiaceva di altri artifizi, era più raffinata.

Della civetteria dell'abito nero

    I. - E come?

    M. - Caro mio, la dolcezza di certe mie serate di cerimonia alla Hofburg era inesprimibile. In mezzo alle divise candide dei Feldmarescialli, ai mantelli rossi dei Maltesi e alle porpore dei Cardinali, in mezzo ai principi polacchi e ai conti dell'Impero, che avean studiato per tutta la giornata il modo di gettarsi sulle spalle il dollman o la pelliccia... tante chincaglierie che per protocollo erano più vicine di me alla persona dell'Imperatore, e io comparivo fra tutti gli altri, fra gli Exzellenzherren, con il mio abito nero e il mio collare del Toson d'oro, semplicemente. "Semplicemente", comprendi tu ancora tutta la vanità squisita di questa semplicità? I tuoi cancellieri, non ne dubito, se sono reazionari, vorranno gustarla nelle cerimonie della vostra Hofburg. No?... Non sono stati sedotti dalla squisita civetteria degli innamorati del potere, dei virtuosi dell'arte di comandare: i quali si compiacciono di nascondersi sotto le apparenze innocue, e dinanzi alle folle brillanti e docili, si godono pensando: tu, tu solo, piccolo uomo vestito di nero, possiedi l'orecchio del sovrano? Non hanno mai gustato il diletto di comparire un po' come pipistrelli in mezzo alle feste volgari della Corte, e di sbattere per un minuto sul volto di tutti i servi dorati e incordonati l'ala fredda della ragion di stato?... No, mio caro, io fui sempre di lieto aspetto, e adorno del più gentile sorriso: ma che solletico, quando passavo, alle Tuileries, a Fontainebleu, a Compiègne, fra i marescialli dell'Impero e tutta l'altra barabberia corsa... Veramente, mio caro: non avevo neppur trent'anni, la principessa Lieven mi distraeva dalla soverchia applicazione agli affari di stato, ero un uomo à bonnes fortunes... Ma quelli, erano des hommes à femmes. Apprezzi tu la distinzione? Eppure, ero per loro già un pipistrello: ed eravamo freschi di Austerlitz. Io lo leggevo nei loro occhi di sovversivi divenuti duchi e ministri, baroni dell'Impero: la mia sola presenza, la presenza di me, distinto e sorridente ambasciatore dei vinti, uomo senza pennacchi e senza scimitarra, uomo di gabinetto, diplomatico di alcova, nascosto suggeritor di sovrani, era una offesa per loro... Un frack nero è sempre una offesa per chi ama le sciarpe e le coccarde.





Di alcune persone viventi

    I. - Strana cosa! Le stesse ragioni suol dire talvolta, nelle cene notturne al Cova, un giornalista di Milano, discepolo di San Domenico e di Proudhon

    M. - Che fa costui a Milano?

    I. - Un nemico, è un nemico dell'Italia rinnovata. Dirige un giornale di fama e di tradizioni democratiche.

    M. - E tu compralo, anche lui. Non badare se sostiene il suffragio universale o la proporzionale: questi son ritrovati meccanici che anch'io avrei messo in opra, se a’ tempi miei fossero stati di moda. Ma se veramente colui ha così parlato, compralo: egli è nelle mie tradizioni, e sulla mia linea. I filosofi incutono soggezione soltanto ai sovversivi: più d'un imbonitore di folle, accaldato dal sole e dal successo, io l'ho veduto imbarazzato dinanzi a chi gli regala delle idee e dei sistemi. Chi è il filosofo di professione fra i nemici del tuo governo?

    I. - Adelchi Baratono.

    M. - Spero bene che nessuno dei tuoi Cancellieri lodabilmente reazionari, ascolterà le sue parlate con intente mascelle: bensì con la sorridente disinvoltura del salottiere. O è diverso?

    I. - E' diverso.

Delle pure gioie ascose dell'uomo di stato

    M. - Non comprendo, in fede mia, la vostra restaurazione, il vostro reazionarismo, i vostri Cancellieri. Temo che essi non posseggano il signorile riserbo di lasciarsi credere beoti, gaudenti, curialeschi o cinici, insensibili alle nuove, come si dice, "correnti spirituali", noncuranti delle nuove come si dice, "forme di arte dinamica". Io mi ricordo di Mazzini, e di tutte le strampalerie ch'egli scrisse sull'arte individuale e sull'arte sociale a proposito del mio poeta prediletto, Byron: e di tutte le insinuazioni contro chi non apprezzava l'intenso grido della greca libertà risorta: che sarei stato poi io. Pover'uomo… Essere a Portici, in una comitiva di magnati ungheresi, mia figlia, Karoly, Esterbary, Grillparzer: essere a Portici, in visita presso un Borbone e un Borbone spergiuro e perciò più piccante: essere a Portici, dopo Lubiana, dopo Verona, mentre cominciava proprio tutta la cagnara liberale contro di me, beota, gaudente, curialesco e cinico: e divertirmi io, io Cancelliere dell'Impero d'Austria, a recitare dopo il caffè il quarto canto del Childe Harold... Lo sapevo a memoria, mio caro: era uscito allora, e fu per Grillparzer una novità. Fu mai Byron recitato da un byroniano par mio? Cosa capiva Mazzini di Byron in confronto a me? Non trovi tu il tiro assai fine? Lasciar credere ai liberali di tutta Europa di essere un baston da pollaio, in fatto di arte e di poesia, e poi dilettarmi di Byron e delle sue invettive in uno dei viaggi che mi fruttarono il nomignolo di Prevôt de l'Europe? I tuoi cancellieri si procurano di queste rivincite squisite e segrete? Noi, della prima Restaurazione antiliberale, noi Metternich, Talleyrand, Pasquier, Hardemberg, Nesselrode, Castlereagh, assai le amavamo. Gli uomini della seconda Restaurazione antiliberale hanno certo anch'essi questa discrezione pudica... O non l'hanno?

    I. - Non l'hanno... Non l'hanno sempre.

    M. - Comincio a credere che io abbia poco da spartire con voi. Il profumo della reazione è in questo disdegno degli uomini di stato di spiegarsi e di giustificarsi dinanzi a qualche assemblea di pagliette e di causidici. Se qualcheduno ha detto: "C'est beau, le coup d'état, cette grande main noire qui descend dans la nuit", io ti dico che fu bella anche più la Restaurazione, questa grande mano inguantata, ma sotto al guanto talvolta sporca di sangue; la mano lunga e bianca di un gran signore: come la mia, guarda. La vostra, vuole essere una mano inguantata... o una mano nera?

    I. - I miei avversari dicono che è una mano nera.





Del rispetto dovuto agli adulteri nei colpi di stato

    M. - Morny, Morny, mio caro: il duca di Morny è allora il consultore politico che ti conviene. Il bel tenebroso del Secondo Impero ti insegnerà a calcare la mano nera nella notte con distinzione e precisione. Per gusto sovversivo, il duca cercò di farsi uno stile: e ricordo con quale compiacenza conobbi, nel mio buon ritiro, i primi particolari del 2 dicembre. Il colpo di stato è sempre una facchineria: se è possibile sbrigare una facchineria con modi urbani e cavalieri, il duca solo può indicartelo. Io, vecchio e impenitente vert-galant, gli perdono di cuore i massacri di faubourg Saint-Antoine, per le sue istruzioni sui riguardi da usarsi nell'arresto di quei fierissimi ufficiali repubblicani, ch'erano a letto, nella notte del 2 dicembre, con le mogli degli altri "i1 faut toujours sauver l’honneur des femmes, e qu'il n'y soit ni bruit, ni esclandre". Noi, della Restaurazione, apprezzavamo queste delicatezze perché eravamo signori, lui forse arrivava ad imitarle perché era un fils de bonheur. Cerca almeno, mio caro, di arrivare, nei vostri colpi di stato, alla galanteria dei bastardi, se non potete arrivare, nella repressione silenziosa, alla eleganza della gente bennata.

Delle camicie nere e delle camicie bianche

    I. - Il vostro Morny è un antidinamico, un passatista, un disfattista, uno svalorizzatore della vittoria.

    M. - Non comprendo.

    I. - E' un impertinente

    M. - Alla buonora.

    I. - Mentre mi avvicinavo a lui, per chiedergli quei tali consigli sul modo di far ingerire il colpo di stato "tuto, cito, iucunde", come l'acqua purgativa romanamente promette, ho veduto che ridacchiava. E non ebbe neppur ritegno, questo incorreggibile nemico d'Italia, di far notare, in mia presenza, a un giornalista de l’Echo de Paris, essere veramente di poco buon gusto che io mi sia fatto scortare nell'Olimpo dei Numi Indigeti da manipoli di Camicie Nere. Ora questa è sfacciata menzogna: e invece di prenderne nota per una smentita ufficiosa diramata da qualche agenzia tardigrada, volli subito – futuristicamente! – rigettargliela in gola. Gli dissi "Eh bien, sachiez, Monsieur, que je ne suis pas venu ici aver des chemises noires. J'y suis venu au contraire, aver un grand nombre de chemises blanches, et bien blanches!". Questo, capite, per fargli vedere che anche noi sappiamo portare gli abiti di società.

    M.. - Difatti.

    I. - E Morny, il vostro Morny, il vostro bastardo Morny: "Eh bien, Excellence, je n'ai qu'un souhait a Vous-faire: et c'est que vous puissiez toujours les conserver telles!". Ah, boia d'un Dio leder!

    M. - Morny è parigino... Quel briccone è più fresco sempre, e più alert di me: con una battuta ti ha sbrigato, e io dopo tante ciacole mi sono accorto adesso solamente, che tu vieni di Romagna. E tanto basta. Addio, addio.

GIOVANNI ANSALDO.