REVISIONE LIBERALE

VON HUMANITÄT DURCH NATIONALITÄT

    Nel 1914-18, per l'ultima volta forse, si è combattuto in Europa e in Italia per la nazione.

    Chiunque abbia vissuto quei giorni ne porta in sé una tristezza che a tratti si colora quasi di nostalgia. Realmente, partendo per la guerra, noi sentimmo i confini della nostra esistenza individuale allargarsi sino a contenere la vita di una intera generazione, anzi la vita delle generazioni passate, la speranza delle future, per la cui eredità e pel cui avvenire andavamo a combattere "considerando così la morte un battere del ciglio, che non interrompe il vedere".

    Ciascuno di noi poteva mutuare quella consolatrice parola dal pensatore di terra nemica e sentirla viva ed attuale al pari del combattente dell'altra parte, del nostro fratello-nemico, cui pensavamo senz'odio, anzi con profonda umana simpatia, come a colui che con noi collaborava, combattendo, ad un'opera che trascendeva le nostre persone, le nostre patrie stesse.

    Non negli ingenui sogni di pace universale e di gioiose accolades dopo il massacro, erano vive le cosidette idealità democratiche della guerra, ma in quella comune coscienza che ci affratellava da una parte e dall'altra delle trincee.

    Su di essa si poteva contare, senza offendere, anzi nobilitando il sacrificio dei combattenti, per stabilire una pace, che assicurasse tranquillità è prosperità economica a due o tre generazioni.

    Se ciò si fosse avverato - ed é inutile ormai chiedersi se era possibile - la patria-nazione, quale si era venuta formando nella storia degli ultimi secoli avrebbe sopravvissuto pura come idea-forza, all'immane massacro.

    Invece, nell'impotenza degli scatenati nazionalismi a darci una pace, nella loro ostinata opposizione ai bisogni elementari della nostra civiltà, nella loro sorda congiura che tesse fila e trova punti di contatto, non soltanto ideali, tra gli stessi opposti nazionalismi nel comune accordo contro le basi della nostra vita materiale e spirituale; nel loro farsi strumento di interessi e di vendette di parte o di classe; gli uomini stanno imparando questa verità dolorosa: che la nazione fino ad ieri strumento di civiltà, organo di cultura, oggi è ostacolo tanto alla comune prosperità economica, quanto a beni più alti dello spirito.





    Dappertutto, meno che in Inghilterra, dove ancor vivono lo stato e lo spirito liberale, così nei paesi vincitori come nel paesi vinti, tanto negli stati di antica formazione quanto in quelli recentissimi, appaiono i medesimi fenomeni: lo spirito nazionale o pseudo-nazionale fatto vessillo o di rivolta o di estrema resistenza, o di riscossa per la piccola borghesia socialmente sconfitta, o quasi: questa idea, sino ad ieri così ricca di contenuto umano, sinonimo di amore e di devozione illimitata, divenuta la bandiera intorno alla quale si raccolgono per la vendetta tutti gli odi ed i risentimenti; questo sentimento per il quale nessun sacrificio fu richiesto invano, abilmente messo in moto da una plutocrazia senza scrupoli ed anazionale per eccellenza, al servizio dei propri interessi, taciuti o confessati, per i quali tornerà domani a muovere gli opposti sentimenti, facendosi beffa, con olimpico ed ammirevole cinismo, di chi creda negli uni o negli altri.

    E in questa vasta tragedia si inserisce il nostro episodio: dopo i combattenti umili e disinteressati, dei quali i migliori - sia che si chiamassero Slataper, Vaina o Serra, o che portassero un oscuro nome valligiano piemontese, di pastore calabrese o sardo -lasciammo nelle trincee e presso ai reticolati; sono venuti gli altri: gli speculatori ed i profittatori, i vanitosi e i rodomonti, che hanno formato a loro immagine e somiglianza la generazione degli adolescenti, volontari della guerra civile, che da spettatori comodi si erano innamorati del gioco e volevano ripeterlo per loro conto.

    "Chi ha sentito la guerra-dovere non può amare la guerriglia-sport", mi diceva un saggio amico, antico fante.

    Nella guerriglia-sport la patria, questa che credevamo madre di tutti, si é trasformata, ce l'hanno trasfigurata.

    Abbiamo saputo di nostri valorosi compagni d'armi ingiuriati, perseguitati, feriti, banditi, di contadini-fanti uccisi, solo perché socialisti o popolari o comunque dissidenti od ostili al nuovo verbo.

    Abbiamo assistito al rinnovarsi, sotto la dominazione militare presa a prestito dal nemico, della "Strafe-expedition", aiutata dai novissimi mezzi della meccanica, e drappeggiata in quel tricolore, che in tempi non lontani era stato simbolo di fraterna unità, la vecchia usanza medioevale delle faide e delle fazioni d'armi; e tutto questo abbiamo visto sanzionato in un decreto d'amnistia, che, introducendo l'elemento subiettivo del fine, segnava nel campo giuridico, la morte di quel momento obiettivamente formale, che abbiamo dimostrato essere la base dello stato liberale e nazionale.





    Ed abbiamo assistito infine all'ironia inconsapevole dei "Philosophieprofessoren", i quali giustificavano tutto colle stesse formule - stereotipamente ripetute - con cui si affermò la dottrina dello stato liberale, in sul suo sorgere, di quello stato liberale appunto, di cui tutti quei fenomeni segnavano la fine non solo nella realtà politica, ma negli animi stessi. Perché, lo sappiano o no, i pallidi teorici che, forse in buona fede, riecheggiano in accenti professorali - da cui esulò ogni passione, ogni interesse attuale - le dottrine, un giorno così ricche di vita nei loro primi autori; proprio quell'idea e quello stato si sono uccisi che essi, poveri uomini libreschi, ignari anche della cronaca, credono di rianimare, mentre soltanto ne imbalsamano il cadavere.

    Anche da un esame stilistico appariranno insospettati motivi psicologici. Prendete ad esempio il Gentile: sia che egli parli dell'atto puro o dello stato in astratto, conserva sotto le ceneri della rigorosa dialettica i fuochi, a tratti sfavillanti, di un pathos sincero. Ma quando cerca di giustificare i suoi concreti atteggiamenti politici (V. ad es. l'articolo "Il mio liberalismo" nella "Nuova Politica Liberale", n. 1) é pallido, sbiadito, arbitrario, privo di ogni concreto riferimento alla vita attuale.

    Walther Rathenau parlerebbe di "professora le Istinktslogiskeit".

    Accanto alle meccaniche ripetizioni dei filosofi, la meccanica del pari, e la vuota retorica dei politici e dei giornalastri, da cui sono ancor più lontani quegli accenti ricchi di umanità, quelle verità profonde ed elementari, che ci resero adorati un giorno l'idea ed il nome di Patria.

    Assistiamo così ad una naturale degenerazione ed imbestiamento di una passione nobilissima un tempo. Confrontando le parole che il sentimento di patria ispirò nel secolo scorso una pagina di Mazzini o di Fichte, col linguaggio arido e monotono - quando non sia addirittura bestiale - degli odierni nazionalismi, si ha l'impressione di passare bruscamente da una vallata verdeggiante, varia e ricca di vita, in un sitibondo deserto affocato.

    A quello svuotamento dell'idea di nazione che vedemmo avvenire nella realtà politica, corrisponde un analogo mutamento nel linguaggio, divenuto artificioso, meccanico, privo di ogni interesse umano.





    Questa realtà spirituale, questo clima ci offre la piccola borghesia, colà ove ha raggiunto un effimero trionfo. E in questo deserto si soffoca.

    Rinnegando la tradizione liberale - ciò la riforma ed i motivi più profondi dell'illuminismo che erano confluiti nello stato nazionale - essa produce intorno e dentro alla nazione il vuoto, e ne é in qualche maniera consapevole, perché per lo stato così mutilato chiede il sostegno più valido della tradizione cattolica. Ma di fronte al cattolicesimo, che pretenderebbe di abbassare così ad un meschino ripiego politico, essa si trova in una duplice contraddizione.

    Alla tradizione cattolico-legittimista non può validamente appoggiare i suoi sogni patriarcali di gerarchia, ordine, paternalismo politico, perché quella tradizione é da troppo lungo tempo spenta.

    D'altra parte lo spengersi di quella tradizione - nonostante, gli infelici tentativi di richiamarla in vita dei vari Cornaggia di tutti i paesi - ha consentito alla Chiesa libertà di movimento e suscitato la speranza - per ora timida - di un ritorno medioevale.

    Qui veramente in una ben più integrale "restaurazione" le visioni patriarcali di ordinate gerarchie, il pacifismo sociale delle corporazioni miste di patroni e di artigiani assumerebbero un valore ed una realtà: nella rinuncia e nella pace fraterna di un mondo cattolico, in cui il Pontefice Romano consacrasse nella basilica del Principe degli Apostoli, l'apostolico e pacifico imperatore non degli italiani, dei francesi o dei tedeschi, ma di tutto il popolo cristiano. E' pensabile una negazione più radicale della nazione, della lotta e della volontà di potenza; di tutte le malcomprese idee moderne, che il nazionalfascismo confusamente riecheggia.

    Parrebbe rimanere allo stato fascista ed alle confuse e contradditorie ideologie reazionarie della piccola borghesia europea la giustificazione nietschiana di un ritorno barbaro e dionisiaco, la morale eroica dell'élite guerriera. Bisognerebbe aver perduto ogni senso del ridicolo per non chiedere a chi enuncia una siffatta proposizione se non voglia fare della mordace ironia. Ciò che fa quasi disperare delle sorti nostre, si è che in Italia lo si pensa sul serio.





    Vi é bisogno di ripetere che nulla é così irriproducibile come la freschezza della barbarie, che nessuno tra i fenomeni sociali - di loro natura incoercibili - é inimitabile al pari della formazione di una autentica casta guerriera? Chi non muove al riso il paragone mentale tra un centurione della milizia, azzimato come un figurino di Caramba, che accoppia alle pose spavalde del bravo le equivoche eleganze dei macro di Montmartre, ed un cavaliere crociato od un Varego predatore di regni?... E qual fonte di allegria nel pensiero che tal console politicante possa venir strappato al campo quotidiano delle sue manovre, al caffè della pettegola cittadina di provincia, per venir lanciato alla conquista di lontane colonie! La guerriglia civile alimenta i pretoriani, non ferma i guerrieri. Che cosa dunque rimane a questo tessuto di contraddizioni, che forma il mito della riscossa piccolo-borghese?

    Non il sentimento e l'idea di nazione, che, nella nostra civiltà, sono inseparabili dalla libertà e della dignità del cittadino, non il grande imperialismo moderno che si alimenta di libere iniziative, che vive nella lotta politica ed economica, che richiede i finanzieri e gli industriali, l'élite plutocratica contro la quale si scaglia la retorica piccolo-borghese ed antisemita; non la restaurazione cattolica e paternalistica che fa a pugni colle aspirazioni nazionaliste e colla pratica dello squadrismo rompiscatole, non l'illusione nietschiana di un ritorno barbaro, ché Dionisio non infiamma di sé i frequentatori dei caffè provinciali.

    Eppure questa meschina realtà, questa decadenza farisaica di un sentimento che ebbe forza ed aspetti di religione, ci viene gabellata per il nuovo contenuto dello stato etico e nazionale!

    In tal clima spirituale, da cui é assente ogni passione nobile e generosa, in questo regime intellettuale, da cui ogni grande idea é rigorosamente bandita, in questa baraonda di idee confuse e di gesti violenti, di male parole e di odi e fobie meschine, viene educata un'intera generazione di europei. Fortunati ancora i paesi, dove qualche idea universale astratta ed assurda finché volete, fa da contrappeso a questa realtà assurda!

    L'accusa di Grillparzer, ingiusta or sono cento anni, quando il moto delle nazionalità era affermazione concreta di umanità, anticipazione di un secolo di civiltà europea, é divenuta oggi, nella degenerazione e nella decadenza delle società nazionali, tristamente esatta:

    "Von Humanität, durch Nationalität, zur Bestialität".

PIERO BURRESI.