L'INGEGNERE ROSSETTI

    Devo dire che andai a trovarlo, la prima volta, per dovere professionale. Un giornalista mi aveva raccontato una storiella impressionante su di lui. Figurati, che nella campagna elettorale del'19, lo prendemmo su in auto da Paraggi fin non so dove: e Rossetti non disse altro che questo: In fondo, cosa sono io? Sono una effimera. Rifletteva un po', e poi ripigliava più convinto: Si, sono una effimera! Che candidato, caro mio!". A me, queste riflessioni sulla caducità umana non interessano. Ho troppa pratica delle melense confessioni di umiltà e di incultura, fatte dagli organizzatori e dagli apostoli, per crederci. Esse rappresentano, di solito, il nono grado della ribellione satanica, come la descrive San Bernardo nel suo trattato. Il decimo grado, ai tempi di San Bernardo, era la disobbedienza aperta alle leggi della chiesa: ai tempi nostri, è la candidatura al parlamento.

Il sigillo dell'orgoglio

    Con mia grande soddisfazione, trovai un Rossetti orgoglioso. Modesto nel tratto, nel discorso, nel ragionamento. Ma mentre si saliva traverso gli ulivi della sua terricciola, io finalmente scopersi il sigillo del suo intimo orgoglio. È un modo repentino di voltar la testa sulla spalla, una guardatura veramente aquilina: tutta la testa gira sulle vertebre del collo; l'occhiata di sbieco, l'occhiata di triglia, l'occhiata che per la lunga pratica del servir messa gli italiani chiamano anche "occhiata del Prefazio", sono completamente abolite. È una guardatura in cui non c'è né ostentata dilatazione dell'arco cigliare, né esposizione feroce del bianco dell'occhio, né roteamento della pupilla, né fissità ammaestrata. È semplice: solo, che è una guardatura sempre di faccia. E basta. Non ci sono deviazioni, distrazioni, sfumature. È il contrario del cipiglio, ma é anche il contrario della guardatura pretina. Rossetti "fa fronte" all'interlocutore.





    La sua casa è come lui: fa fronte al mare. Se la è ricostruita a sua immagine: e lo spiega. "Vede, guai se io avessi aperto delle finestre laterali, o a tramontana. Non ci si viveva più. Le case di Riviera sono tutte così incomode, per la smania dei proprietari di voler dare una occhiata da tutte le parti. E' inutile: il vento di mare, bisogna prenderlo così, come l'ho preso io. Allora non c'è corrente, e anche se c'è scirocco forte, io posso aprire le porte sul terrazzo, non vola via niente". E' così, ne convengo, caro ingegnere. Ma io sono sicuro che la trovata di aprire tutte le finestre e tutte le porte della propria casa solo fronte al mare, non poteva venir in mente che ad un uomo, che ha la vostra guardatura.

Il patriottismo tigullio

    Il golfo Tigullo, che di qui si vede in tutta la sua apertura, è bello come un presepio. E i suoi rivieraschi hanno ormai nel sangue il genio delle arti decorative adattate all'industria dei forestieri. Quando il 19 Febbraio dell'anno passato, i giovani squadristi di Rapallo vollero compiere una impresa, smurarono una targa dedicata a Rossetti, sulla strada tra Rapallo e Paraggi: e mutarono l'indicazione di "Strada Raffaele Rossetti" con quella di "Strada Milite Ignoto". Fin qui, il loro gesto fu "squisitamente" nazionale: ma però essi lo accentuarono con un perfezionamento "squisitamente regionale", anzi "squisitamente" da Golfo Tigullio. Frantumarono la targa disvelta, ma non ne dispersero i frammenti: anzi, in aiuola vicina, li composero per benino a mosaico, in modo da formare l'iscrizione ornamentale di: "Viva il Fascio". Un vero patriottismo da soci del Touring Club, preoccupati giustamente della pulizia stradale. Tutto il patriottismo di questa bella regione è così, lindo e locandiero. Ma attorno alla casa di Rossetti, dalla strada al terrazzo, sale l'ordinato coro degli ulivi, e la socievolezza dei rami composti; si è già distaccati dal presepio e dal giardino pubblico, si è già isolati. Seduti nella sala, poi, la terra e gli alberi scompaiono, e resta solo, oltre la finestra, la linea dell'orizzonte fra cielo e mare.

    Rossetti è aperto e chiaro e forte, sopratutto in questa sua casa dei venti e dell'orgoglio contenuto e virile.





Rossetti come mistico

    Questo ingegnere, questo tecnico, questo intenditore di apparecchi meccanici e di impianti elettrici, è un mistico. Cerca il sito dio a tentoni e a sbalzelloni, affronta i problemi della vita e della morte con la sancta simplicitas dell'uomo non gravato da una cultura letteraria, non inaridito dalle troppe letture; lo cerca come lo cercano milioni di uomini "tecnici" e ingenui, nei paesi più progrediti, nelle città americane, nelle colonie industriali di Germania di Inghilterra. Rossetti è uno dei pochissimi italiani non letterati che io conosca. È perfettamente il contrario dell'eroe cortigiano. In lui, l'equilibrio spirituale della vita moderna si è ristabilito: questo qualificato "pazzo" od "esaltato" è un uomo perfettamente assestato in mezzo a un popolo di "bei pirati", di spostati, di umanisti senza impiego, di gente pronta per la impresa d'oltremare. Si interessa fortemente degli studii e degli esperimenti tecnici, e si è conservato aperto il rifugio mistico: non trova più tetra la fabbrica e non più schiacciante e opprimente la macchina, perché egli si preoccupa di Dio.

    Quando egli narra delle sue poche letture filosofiche, saltano fuori pochi nomi eterocliti e perfettamente sconosciuti: ma si sente che su quei libercoli egli ci ha rimuginato e ruminato sopra, li ha spremuti, li ha assorbiti: sono povere compilazioni francesi o inglesi, ma cosa importa? Chi conosce un po' i cibi di cui si alimenta tutta la pietà e tutto il misticismo americano, sa perfettamente che in certi librettucciacci che a noi sembrano mediocri, milioni di uomini più sani e più buoni di noi trovano tutte le delizie.





    Sono le letture dell'uomo d'affari, dell'uomo di fabbrica, fatte a caso e a ritagli, ma con una intensità di cui noi, che leggiamo per professione, non siamo più capaci. Egli ha ancora, a quarant'anni, tutta la freschezza giovanile necessaria per entusiasmarsi di Carlyle, incontrato a caso sulle scansie di una biblioteca da signora: oppure gli capita fra le mani il codice d'onore dei Samurai giapponesi, e ne resterà tutto ammirato, e ve lo leggerà con una adorabile ingenuità, meravigliato di non trovarvi anche voi così disposti a commuovervi come egli si commuove per la storia di non so quale stoica esecuzione capitale. Ma non è punto libresco. I libri, o lo entusiasmano, o li butta via. Non c'è la sopportazione di colui che legge "per farsi una cultura", o "per tenersi al corrente": non c'è neppure la sapiente dilettazione dell'uomo colto, del raffinato. C'è un po' l'ansia del barbaro, che cerca sulle aride pagine la verità e la vita, e non le trova, e tratta tutti i librai e tutti gli autori come una combriccola di truffaldini. Allora s'infila il suo pastrano, e discende il sentiero tagliato nell'uliveto, e fa delle lunghe tempestose passeggiate, e cerca di esprimere tutto ciò che dentro lo affanna e lo urge; libero da ogni sensaleria libraiola, libero da ogni rogna culturale, asceta moderno, non accademico, non arcade. Allora è un italiano che non si ricorda di Roma imperiale, ma lavora per l'unico impero che oggi è possibile, quello in cui ogni cittadino conquista il suo Dio per conto proprio con un attacco frontale, da bravo.

Le sue preoccupazioni

    Si capisce che non si occupasse di politica. Non se ne occupò mai. Prima della guerra, egli avrà letto, si e no, il Corriere. Durante la guerra, fu preso in pieno dall'ondata del wilsonismo e del bissolatismo. E poi aveva il suo progetto, al quale si dedicava con tutta l'intensità del tecnico specializzato. Il modo con cui distribuì il premio cospicuo ricevuto per l'affondamento del "bastimento" - come egli chiama la Viribus Unitis - restò un suo affare strettamente personale e intimo. Egli dovette molto riflettere sul diritto, o no, che aveva avuto, di uccidere: un problema, questo, che non gli consentí di fare molta attenzione al massimalismo, agli scioperi, e agli urli.





    Mentre fuori, lontano, milioni e milioni di italiani letterati - e letterati anche se analfabeti - volevano disfare o salvare la patria e le leggi e la vittoria senza però uscire dal cerchio magico della letteratura e della esteriorità sovversiva o patriottica, Raffaele Rossetti, cittadino di uno stato moderno, uscito fuor dalla guerra con le mani macchiate di sangue, inquisiva contro se stesso con la inesorabile crudeltà del puritano, scrutava le sue azioni di guerra e le pesava con il ribrezzo del quacchero verso la violenza. E solo tardi si assolse, più lieto di essersi salvato da questo naufragio, che non dall'altro, in Pola: e rifondò la patria e le leggi e la Vittoria, non sulle piazze e nelle sagre, ma nell'anima sua.

    Di fronte a questa sua lotta, cosa erano mai i tumulti delle piazze? E cosa potevano volere questi uomini, la cui vita si esauriva nell'urlo; quale importanza potevano avere, per lui, i mutevoli umori delle folle? Egli fu, nel'19, candidato costituzionale con Orazio Raimondo, ma per compiacenza; prestò servizio come macchinista durante gli scioperi ferroviari del'20, ma senza ira contro il volgo che scioperava e gridava. Il massimalismo lo riempiva di disgusto e di pietà, non riusciva ad indignarlo. Una folla che urla non può indignare un signore. La terribile volgarità della reazione italiana consistette precisamente in questo: che molti uomini appartenenti alle classi ricche rimasero indignati contro le folle, presero ad odiare l'uomo del lavoro manuale, vollero difendere la patria col gusto del cane che si avventa al ladro solo se e perché è vestito male. Una classe dirigente di signori può fare mitragliare la folla per ragione di Stato o di ordine pubblico: ma l'Italia è, forse, il solo paese dove ci sia tale cafonismo da rendere possibile che gli studenti delle Università partano in camions per andare a bastonare i contadini.





L'orrore per la piazza

    Signore di nascita e di abitudini, raffinato da un continuo ripiegamento su se stesso, da una pratica costante di ascetismo laico, Rossetti non fece attenzione alle folle de lazzari e dei michelacci finché le udì gridare abbasso. Ma quando gridarono "Evviva l'Italia", cioè evviva la sua conquista, evviva la sua patria così faticosamente raggiunta, egli si guardò attorno. L'orrore della piazza, il ribrezzo della folla lo presero, quando udì che la piazza e la folla volevano essere d'accordo con lui, gli correvano dietro per applaudirlo, gli rinfacciavano il suo eroismo non per percuoterlo, ma per costringerlo a figurare nelle sagre e nei quadri plastici del regime. Nel 1919, l'idea che a Rapallo ci fossero venti gaglioffi pronti a fischiarlo, s'egli avesse voluto comparire in pubblico coi segni del suo valore, lo lasciava freddo. L'idea che a Rapallo, nel 1922, ci fossero venti gaglioffi pronti ad applaudirlo, s'egli avesse acconsentito a far da comparsa, lo offendeva. L'applauso delle folle è molto più offensivo della fischiata: l'applauso crea un vincolo di solidarietà nella cagnara, l'applauso è il lazzaro che mette la mano sulle spalle del signore, l'applauso è la marchetta con cui le folle comprano la prostituzione degli eroi: l'eroe applaudito deve essere sempre pronto a scendere in piazza, come la prostituta a scendere in sala.

    Queste cose il Rossetti le sentì profondamente. In tutta la nazione, nei paesi rivieraschi da lui conosciuti, nel suo stesso ambiente famigliare, la Patria, così faticosa e pudica conquista per lui, era invece addomesticata e infiocchettata come un barboncino da signora. Certi suoi parenti, forse, avrebbero visto volentieri che egli valorizzasse una medaglia "ch'era stata data per qualche cosa". I suoi colleghi nella gerarchia delle onorificenze conoscevano il suo indirizzo di cittadino, accaparravano la sua adesione ad iniziative "realizzatrici", entravano nella sua vita - nella sua intima e ricca vita - non in nome di un travaglio morale comune, ma in nome di una distinzione esteriore, di una segnalazione burocratica, di una indicazione da annuario.





    L'indignazione lo prese, come una schioppettata. Le sue idee politiche erano confuse e malcerte: ma la sua conversione all'opposizione attiva fu subita, totale, definitiva, come cosa di visceri e non di cervello. Non aveva mai pensato molto ai partiti politici, e meno ancora agli uomini che v'avrebbe incontrati: e perciò si gettò a capofitto in mezzo ai socialisti unitari, perché gli parve che fossero i più "duri a morire". Voglio qui riprodurre la lettera con cui Rossetti si "presentava" come collaboratore. E il primo passo che Rossetti fece nella vita politica, egli è fresco e semplice come un ragazzo che manda il suo primo articolo ad una redazione.

    "Rapallo, 21 novembre '22.

    "Signor Direttore, offro al "Lavoro" la mia collaborazione, senza condizioni d'alcun genere. Nel far ciò non ho altro scopo che quello di portare il mio contributo alla rivolta spirituale che deve immancabilmente rafforzarsi contro il governo attuale che si è imposto al nostro Paese. Ritengo che il mio nome non sia ancora completamente dimenticato dai mici concittadini, e per questo penso che la propaganda reattiva che mi proporrei di svolgere - e alla quale m'induco rompendo un silenzio che mi è caro e che si confà meglio al mio carattere - potrebbe avere qualche efficacia tra coloro che mi conoscono. La stessa offerta di collaborazione ho rivolta alla "Giustizia", e ne attendo la risposta, subordinata al ritorno a Milano dell'on. Treves. Accludo un articolo come saggio del tono e del pensiero - che non è precisamente politico - che vorrei sviluppare. Se Ella crede, pubblichi pure; solo chiedo che il mio scritto non abbia a subire mutazione alcuna, ma venga, in caso di obbiezione a qualche sua parte, respinto per intero.

    Con ringraziamenti e saluti

    Ing. Raffaele Rossetti".

    I due giornali si videro arrivare questo franco tiratore così, come un pellegrino: e questa fu tutta la macchinosa preparazione del "caso" Rossetti.





L'iniziazione politica

    I suoi primi scritti valevano poco. Il frasario mazziniano gli pigliava di mano: ci si scorgeva il rovello di un novizio, non dico della vita politica, ma addirittura della lettura dei giornali. Ma nelle lettere, negli sfoghi, nelle risposte al Ministro che lo invitava alle sagre, dovunque egli poteva entrare lui, in persona prima, fu subito preciso ed esauriente. Sentì poi la lettura dei giornali come un dovere, piccolo ma indispensabile: e vi si sottopose proprio per amor della causa. Ma ancor oggi, credo, é una cosa che gli deve pesare. Egli legge soltanto i giornali che gli sono mandati in omaggio: cioè tre. Quest'uomo, svillanneggiato e ingiuriato su tutta la stampa patriottica della penisola, non sente neppure la curiosità elementare del politicante, quella del ritaglio di giornale.

    Dopo il mancato comizio di Gonzales, non lesse addirittura nessun giornale per non trovarsi ridescritta una scena che lo aveva disgustato. Nonostante queste repulsioni, un anno di ripensamenti su quanto succede, di viaggi, di conoscenze più subite che ricercate, lo sveltì molto. Egli ascoltò le conversazioni di molti esperti, che lo andarono a trovare nella sua casa di Rapallo: e le ascoltò com'egli solo sa ascoltare, con una buona volontà di scolaro diligente e con una ammirazione confidente. Partecipò a dei convegni e a delle riunioni, dove credette di scoprire a mezze dozzine gli uomini puri, gli ingegni eletti. In questo anno, la sua capacità inesauribile di ammirare fu intensamente esercitata. Ma poi succede, felicemente, che il rumore di tanti discorsi di avvocati e di onorevoli cade appena egli si rifugia nella sua casa solitaria. Questo "pazzo" ammira tutti, ma non è diretto e non è influenzato da nessuno. La sua ricca vita intima e religiosa, lo ha addestrato ad affrontare da solo a solo anche le decisioni politiche: e quando egli chiude la porta, i socialisti unitarii, l'Italia Libera, tutta la opposizione militante resta di fuori.





Il "provocatore"

    Da solo a solo, comprende perfettamente la inutilità di tutte le propagande, la vanità di tutto quell'affaccendamento stampaiolo dei professionisti della politica. Ha un senso preciso dei suoi limiti e delle sue responsabilità, si riconferma nel proposito di non aderire assolutamente mai, a nessuna manovra di astuzia. In mezzo ad una folla di machiavellici, egli conosce il valore del gesto: e in mezzo a parecchia gente che lo vuol compromettere, capisce ch'egli ha da essere una bandiera, e null'altro, per gli umili che conoscono ormai il suo nome. Riceve lettere di poveri diavoli, da ogni parte d'Italia: espressioni come questa: "Voi dovete compiere per l'Italia questo sacrificio: di mantenervi puro"; e riflette su questo singolare paese, e su questi tempi, in cui il conservarsi galantuomini è considerato come un "sacrificio" che solo gli eroi possono affrontare.

    Si è molto parlato, e si sono canzonate, talune sue frasi: "Voglio morire", "Ammazzatemi qui, se lo volete". Sono state dette nel calore degli incidenti. In realtà Rossetti conosce benissimo il valore della sua vita: è deliberato freddamente a darla, ma ne vuole spremere tutto il danno possibile per il regime che egli combatte. Non é una smania di martirio, una esaltazione di giovinetto. È un calcolo. Un uomo che calcola i vantaggi derivanti ad una causa dalla propria morte, è più che un martire, è un uomo di stato, che fa paura. Rossetti, infatti, fa paura: il suo nome e i suoi gesti hanno, presso tutta una categoria di sostenitori del regime, la caustica mordacità del rimorso. Egli lo sa. Il fascismo e la stampa mussoliniana, trattando Rossetti come uno scioccone tolstoiano, come un mazziniano ripieno di formule ventose, commettono uno sbaglio grossolano. Rossetti specula su questo sbaglio. È un avversario temibile.





    Molti non si sono spiegati gli incidenti che Rossetti è andato cercandosi in questi ultimi tempi. Rossetti aspetta che De Vecchi visiti Genova, per gridare al passaggio del corteo fascista: "viva la libertà": e senza distintivo nessuno, per prendere tutte le botte. Rossetti, in treno, si rifiuta pazientemente di esibire il suo biglietto al milite della Milizia ferroviaria: intervento dei carabinieri, richiesta di generalità, denuncia. Rossetti partecipa ai comizi dove sa che gli squadristi meneranno legnate, precisamente per pigliarle. Rossetti scende in piazza, il 20 Settembre, e legge i manifesti affissi dal Commissario prefettizio, dove si parla di "libertà di respiro": e sente subito la necessità di esprimere al Commissario i suoi ringraziamenti ironici per l'ultima libertà lasciata agli italiani. Perché tutto questo? Il "tradizionale buon senso italiano" si ribella a questi episodii. Prende Rossetti per una specie di filatelico o di numismatico: un collezionista di brighe e di proteste.

    Proprio tutto il contrario. Ognuno di questi incidenti costa moltissimo sforzo al loro suscitatore. Rossetti è un timido. Egli affronta l'incidente come un esercizio per temprare, e provare la propria volontà.

"Metodista" e "Precisista" della opposizione

    Quando spiega perché reputi suo preciso "dovere" di non rispondere alle richieste del milite ferroviario, è chiaro ch'egli considera questi piccoli incontri e scontri come specie di esercitazioni necessarie per vincere la propria timidità. Attua e sperimenta la disobbedienza ragionata: è un metodista della opposizione. Pare uno squilibrato che prorompa in inutili dispetti al regime, ed è un sistematico senza pietà e senza transigenze per nessuno, e meno che mai per se stesso.

    Rossetti fa questa piccola opposizione, sapendo perfettamente che essa è minuta e spicciola, e che sarà derisa: la fa per se stesso, come un affare di coscienza. È ridicola per tutti, ma per lui è una occasione di controllarsi. Io credo che, da qualche parte, egli ne tenga il diario, proprio come Beniamino Franklin teneva il suo bilancio morale delle buone e delle cattive azioni. Rossetti non considera i suoi atti di opposizione come "opere buone" campate per aria, sfoghi di umori momentanei; no, no. Le inquadra in tutto un sistema, introduce la premeditazione in tutte le manifestazioni pubbliche della vita corrente e quotidiana. E' un "precisista" dell'opposizione. Altro che impulsivo! Rossetti è un "impulsivo" che inganna: sotto a quello che pare un "dispetto", c'è progresso nell'arte di sfidare gli urli e le percosse, condotto innanzi secondo un sistema prestabilito.





    Io non conosco, nel nostro paese, niente di paragonabile a questa volontà precisa di protestatario. Per trovare i termini di confronto, bisogna che rincorra alla storia delle sette religiose degli altri paesi. L'Italia ha finora dato gli "imbronciati" col regime; i mazziniani che avevano un fatto personale con la monarchia, facevano delle insinuazioni sulla purezza di taluni talami regali, vestivano sempre di nero, pubblicavano un manifesto commemorativo per il X Marzo, commemoravano con un'agape l'abbruciamento di Giordano Bruno, e erano tanto acidi che se tiravano uno scaracco in un vetro, lo foravano netto. Un "protestatario" fervoroso e fermo come Rossetti è nato da altro terreno, affonda le sue radici altrove: è frutta nuova.

Il suo saluto: "Evviva!"

    Non vorrei che mi fosse uscito dalle mani un Rossetti inaridito, un Rossetti rinsecchito dagli esami di coscienza e dai bilanci spirituali. Sarebbe un tradimento. In realtà, questo "protestatario" non ha affatto la riservatezza crudele del settario, di colui che è davvero in pari col suo Dio. In questo, egli è davvero maestro a tutti gli oppositori del regime, che in certi momenti hanno un po' l'aria di coloro che Dio ha prescelti, salvandoli dalla corruzione dei costumi, e chiamandoli al Covenant e alla grazia.

    Rossetti ha negli italiani una fiducia incrollabile. Egli "aspetta" gli italiani. Gli altri decorati, gli altri combattenti, i ministri, sono lontani, si agitano, si contendono la precedenza nelle sagre e i posti nel listone. Rossetti aspetta. Chi, fra loro, agisce di più? Non si può sapere. Il suo silenzio è come il silenzio dei santi, grandi aspettatori: e per lui la ribellione degli italiani al regime è sicura e sacra come una incarnazione. L'ordine, la democrazia, la eliminazione della violenza, tutte queste cose fioriranno allora per il popolo italiano, che se le sarà guadagnate col dolore.





    In questa sua irremovibile aspettazione, egli non transige. Un piccolo particolare basta. Accompagnando Rossetti giù dalla sua casina rossa verso Rapallo, incontrammo più volte della povera gente, dei ragazzotti, delle donnette, che lo salutavano. Rossetti risponde: ma egli non conosce il saluto democraticone, il saluto militaresco, il saluto protettore, nessuno dei tanti saluti usati dagli uomini noti verso la povera gente. Saluta così: "Evviva!". Dice quell'evviva in un modo divino. Chi, viva? Viva noi! C'è dentro tutto lui.

La collera dell'amore

    Ma ha poi un altro dono popolare. Egli possiede fortemente il dono della "collera dell'amore", la passione ardente e forte, la passione che piaceva a De Maistre, la passione dei santi che bastonavano il Maligno, insterilivano le terre lavorate di domenica e facevano cadere lingua ai bestemmiatori. "Mettetevi in collera, ma non peccate": è anche un suggerimento dello Spirito Santo. Non è vero che la giustizia e la misericordia siano due nemici. Rossetti é misericordioso quando saluta col suo evviva ma è anche giusto. La domenica in cui egli ebbe l'incidente con gli squadristi genovesi per la conferenza Gonzales, la collera dell'amore lo prese, e gli fece pronunciare le parole giuste: "Gli italiani sono vili". Egli le diceva ben forte, iroso e selvatico, in mezzo alla borghesiuccia festaiola di Via Roma. La gente si fermava trasognata, e le solite persone ragionevoli che lo accompagnavano, avrebbero voluto, per le prime, tappargli la bocca che puniva tutti, bastonatori e bastonati.

    Ma in queste parole terribili la sua attesa non può trovare il coronamento. Egli aspettò tanto, non per lanciare una profezia di disastri, ma per cantare un cantico. La sua fede è così ferma, che anche se potesse constatare la viltà di tutti gli italiani, numerati ad un per uno, e se da ognuno fosse respinto, egli non desisterebbe dall'attesa: e come il monaco Patrizio, crederebbe di udire il passo delle generazioni venture, e il grido dei bambini che lo chiamano dal seno delle loro madri.





    Ed è per questo ch'egli, lentissimamente, vince. Tutte le qualità sagraiole e teatrali e plebiscitarie gli sono negate: non è un eroe cortigiano, non è un eroe pittoresco. In questo paese, "fatto" dalle camicie rosse, "salvato" dalle camicie nere, e popolato di scamiciati, egli è un eroe che porta la camicia bianca, molto modesta e sempre di bucato. La medaglia d'oro non gli funzionò da piombo appeso ai piedi: il cittadino si salvò, al di là dell'eroe. Non è vero che la gente abbia fiducia in lui "perché" ha la medaglia d'oro. La medaglia d'oro lo mise in vista: ma ormai, di dietro alla medaglia, il gran pubblico intravede già un uomo. I mestieranti dei partiti, nella loro routine, crederanno di sfruttarlo come decorato, tale e quale fa Mussolini con i decorati del listone: tra egli si salverà, scavalcherà i mestieranti, sorpasserà la svalutazione generale e tacita dei segni bellici, che si delinea fin d'ora.

Un taumaturgo che si ribellerà

    Più ancora. Io credo Rossetti capace di rompere la unanimità degli applausi che si vanno facendo attorno al suo nome. Leggete questo episodio, narrato banalmente da un cronista:

    "A Pammatone, ricevute le prime cure, Rossetti e Gonzales visitarono il Rossi, a cui rivolsero amorevole conforto. Mentre i due stavano per abbandonare l'aula, Rossi fu avvertito che colui che gli aveva steso la mano era il comandante Rossetti. Gli occhi del sofferente mandarono un lampo di gioia: egli chiamò Rossetti a gran voce.

    L'affondatore della Viribus Unitis gli si appressò di nuovo, chiedendogli che cosa desiderasse.

    "Voglio un bacio, ingegnere, un bacio da lei e sarò contento". Rossetti lo abbracciò e baciò. Rossi disse: "Ora mi pare di non sentir più dolore. Anch'io ho combattuto per quattro anni. Sono un modesto ex-ufficiale. Ho fatto sempre il mio dovere. Ho combattuto per la libertà dei popoli, con questi meravigliosi risultati. Pazienza! Non mi dolgo di quanto è accaduto se non per quanto ha riflesso ai miei due bambini".

    Voi lo vedete: siamo già avanti nel processo taumaturgico. Si reclama già il bacio di Rossetti come balsamo delle legnate fasciste. Questo stato d'animo può riempire di letizia una opposizione tipo Bonomi o tipo Italia Libera, non noi. Ma tutta la preparazione intima di Rossetti mi consola. Mi pare di trovarci la garanzia ch'egli si libererà anche di questa crosta taumaturgica, che la debolezza morale italiana va appiccicando attorno alla sua figura. Se il regime cade, egli non bacierà più nessuno. E se gli correranno dietro a reclamarlo come un patrono miracolista e come un precursore, egli riserba al volgo che oggi lo ammira delle sorprese.

    Rossetti è un uomo che non darà mai confidenza a Michelaccio.

GIOVANNI ANSALDO.