POLITICA E STORIA
(Polemica sul "Manifesto")I.Caro Gobetti, il programma de La Rivoluzione Liberale mi sembra organico, e bene inquadrato nella realtà, se l'esigenza, alla cui soddisfazione si propone di contribuire, si riassuma nella formazione di una coscienza politica in Italia. Riferirsi, per la comprensione dei problemi attuali, al Risorgimento, e promuovere la revisione dei suoi valori, è impostazione fondamentale. Il "Manifesto" fa più che enunciare una intenzione: propone senz'altro uno schema d'interpretazione del Risorgimento, al quale in parte aderisco. Lo sforzo sintetico per cui problemi ed eventi disparati sono organizzati in una unità, è fecondo ed illuminante, anche quando, per avventura, sembri che la forza logica violenti un poco il reale. Così qualche riserva mi pare di dover fare circa la svalutazione che la tendenza cavouriano-giolittiana, o monarchico-piemontese, subisce nel suo schema di fronte alla ideologia della Destra hegeliana. Ciò non solo per l'impotenza realizzatrice di questa rispetto a quella, sul che siamo d'accordo, ma proprio per ragioni teoretiche. Mi sembra, cioè, che lo sforzo dell'idealismo, di esaurire nella concezione etica dello Stato tutte le esigenze, anche quella cui Religione e Chiesa rispondono; a modo loro, sia più eroica volontà sistematica che concretezza: dovrà, se mai, operare come, in Francia (oltre a peculiarità. di razza), una secolare tradizione unitaria. È ciò che mi fa pure esprimere qualche dubbio, non sulla desiderabilità, sulla imminente possibilità di una vasta partecipazione del popolo alla vita ideale dello Stato: quanto alle forze nuove che starebbero operando in tal senso, partito comunista e partito sardo di azione, sarà il caso di sopravvalutarle? Così, finalmente, la conciliazione affermata, nel concetto "liberale" dell'idealismo con l'empirio-individualismo economico all'inglese, mi sembra richieda maggiori sviluppi dimostrativi. Sono punti che nello schema di un Manifesto potevano solo essere accennati: seguirò gli ulteriori svolgimenti del suo pensiero con la più cordiale attenzione. Suo aff.mo F. Burzio
IIADERIRE ALLA STORIA?Ho letto con l'attenzione che gli è dovuta il Manifesto de La Rivoluzione Liberale e non mi dispiace dire che cosa ne penso, o meglio che cosa mi ha fatto pensare. Premetto subito che sono, in tesi, diffidentissimo di questi sunti storici introducenti a una dichiarazione di politica militante, perciò mi occorre premettere un breve ragionamento su codesto precetto dell'"aderire alla storia". Carlo Marx, osservando i casi di vari popoli e di vari periodi, trovò che sotto molteplici e mutevoli forme, si svolge in realtà continuamente una lotta fra capitalisti e lavoratori. Mi si passi questa traduzione semplicista e volgare della teoria storica marxista. È per chiarezza. Ora uno che nei panni di Marx, avesse voluto "aderire alla storia" partendo da uguali premesse, avrebbe potuto dire e predicare, per esempio, che la storicità e l'immanenza del dissidio delle classi erano accettabili come verità formatrici di una coscienza generale eliminante i danni, le sciagure, le dispersioni di forza e di volontà causate dall'inutile contrasto umano a una legge eterna, e cosi via, organizzando una pratica di rassegnazione. Invece Marx ha ideato al contrario di seppellire la Storia, generando un'attività soprafattrice della dialettica delle classi. Ora quale è la giusta conseguenza pratica di quella veduta storica, quella di Marx, o l'altra del supposto antagonista? La conclusione è che l'antistoria di Marx é diventata storia con questo frutto, sempre stando a quella visione: - che, frammezzo alla lotta bruta delle classi in sé, oggi ci occorre considerare, in più, una nuova forza, la cui direzione è appunto quella di negare le classi. Di fronte al problema di questo più, di esercitare cioè un'azione politica positiva in sequenza a certi fatti storici osservati, siamo e saremo sempre a quel punto: la Storia giustifica ugualmente soluzioni discordi e opposte, perché è essa sempre una contraddizione insoluta, o meglio, non giustifica nulla. Così è, venendo al caso nostro, che tutta la questione sta nel tratto fra il primo comma e gli altri due dell'epigrafe del "Manifesto". In che modo e perché, "una visione integrale e vigorosa del nostro Risorgimento" ci porta a "lottare contro l'astrattismo dei demagoghi e dei falsi realisti", e fin qui passi, ma poi a "inverare le formule empirico-individualiste del liberismo classico all'inglese e affermare una coscienza moderna dello Stato"? O non potrebbe la Storia, visto che il nostro processo politico non è stato che lo svolgersi di un riformismo tendente al socialismo di Stato, consigliarci di perfezionare l'esperimento di questo socialismo di Stato, e educarci a divenir coscienti dei suoi mezzi, dei suoi fini e delle sue possibilità? Per esempio, proprio in relazione al compito così limpidamente proposto nel "Manifesto" di creare l'unità nazionale, non c'è nessuna ragione di giudicare inefficace un procedimento socialistico (nazionalizzazione). Non è questo, per caso, uno degli aspetti dell'attuale esperienza russa? Ma quando ci si decide per una condotta liberale o socialista, fra la speculazione storica e la speculazione pratica, sempre, sensibilmente o no, si introduce un altro giudizio: questo è bene, questo è male. Un giudizio etico, il quale, il più delle volte, ha già dominato e sottomesso al suo talento anche il giudizio storico che lo precede. Detto questo non si crederà che io dica per complimento che la dimostrazione storica della "incapacità dell'Italia a costituirsi in organismo unitario" letta sul "Manifesto" mi piace, voglio dire, mi persuade. Possiamo andar giù, d'accordo, salvo particolari sui quali per mio conto non ho alla mano elementi soggettivi di giudizio, fino al punto in cui dalla rappresentazione storica si passa a far previsioni per l'avvenire. Che la storia serva oltre che ad appagare un'esigenza assoluta del conoscere, anche a far previsioni, è giusto: solo e proprio per questo aspetto, essa è una scienza. Ora si dice nel "Manifesto", che questo socialismo di Stato che il liberalismo ha ereditato dal Piemonte e ha svolto, uccidendo se stesso, nel nuovo regno, è un movimento effimero: rappresenta una transazione che bisogna superare. Che significa bisogna? Un imperativo etico, o vale come dire che a una data temperatura, bisogna che un dato metallo fonda? Tengo il secondo significato e dico che le forze di libertà scoperte dall'autore del "Manifesto", anche a giudicare dai bruchi le farfalle non mi sembrano concludenti per affermare una contraddizione immediata al prevalere del socialismo di Stato. lo non stimo (materialisticamente) del movimento operaio altra forza che quella delle organizzazioni. Ora, osserviamo. L'esperimento socialistico si è svolto fin qui attraverso una serie di compromessi fra gli istituti di diritto pubblico e privato esistenti e i fini che lo Stato, più o meno consapevolmente, si proponeva. Ha proceduto attraverso il dissidio intimo fra una morale politica essenzialmente individualistica e la morale propria delle organizzazioni di classe. La fase iniziatasi dopo la guerra, non ancora in pieno svolgimento, è quella appunto in cui bisogna demolire i vecchi istituti giuridici per fondarne altri, propri della rivoluzione che si sta compiendo, e insieme bisogna sostituire alla vecchia morale politica una nuova morale. Se si fa una stima approssimativa del tempo occorrente a questo lavoro, nulla ci persuade della sua brevità, cosicché la previsione piú sicura è che il prossimo periodo storico della vita italiana sia ancora occupato da un processo socialista-burocratico rappresentante la concertazione giuridico-politica del movimento rivoluzionario di classe. Certamente questo moto, che noi giudichiamo svolgentesi in linea retta verso le realizzazioni di un socialismo burocratico, genera incessantemente anche dei processi contrari. Cioè svolge intimamente un processo dialettico. E nello stesso tempo altri elementi fuori dell'organizzazione di classe e contro di essa, producono a loro volta altre soluzioni antitetiche. Da questa dialettica interna e esterna del movimento sindacale nasce quella che il Gobetti ha definito la Rivoluzione Liberale. Perciò, io credo di essere preciso nell'interpretare questo novissimo dittico, quando considero quelle tali forze "di libertà", come forze che, in un primo momento imprecisabile nella sua durata, devono comportarsi rivoluzionariamente in senso proprio o negativo e non in senso positivo e costruttore. In sostanza esse attendono l'esperimento compiuto dal socialismo di Stato per superarlo, e non lo favoriscono se non per scavargli la fossa. Per rendermi chiaro, piglierò un esempio della storia stessa del socialismo, ricordando il momento quando il socialismo in paesi a costituzione borghese arretrata (come per esempio il nostro), comprese la necessità di affrettare il processo formativo della borghesia, e vi cooperò, più o meno in coscienza, solo per affrettarne la catastrofe. Che questa rivoluzione liberale, la quale si svolge, secondo il già detto, per moti diversi e nemici, possa trovare una guida pratica che ne determini più o meno chiaramente l'azione immediata, non mi sembra possibile ora; solo è possibile alla scienza scoprire i lontani rapporti di moto e la composizione di quei fattori. Dico dunque che il momento pratico della "Rivoluzione liberale" è, secondo le mie previsioni, ancora lontano e lascio a questo aggettivo tutta la sua indeterminatezza. Cercando invece di determinare speculativamente la fisionomia probabile di questa rivoluzione, credo che essa finirà per riprendere gli stessi motivi del liberalismo classico, nell'economia e nel diritto. E ciò sarà quando le nostre scuole liberali, sentiranno di non poter più operare come elementi conservatori dell'economia e dello Stato attuale, ma di dover agire come elementi rivoluzionari (questo, mi pare, é il punto del nostro dissenso coi nostri grandi maestri liberali); allora, l'evoluzione ideologica dei nuovi istituti liberali procederà rapidissima e sorgeranno chiari gli schemi della nuova società, che la rivoluzione porterà al trionfo. Certamente l'esperimento socialistico non sarà avvenuto invano, nessuno vorrà cancellarlo come uno sgorbio dalla storia; la rivoluzione avrà, come il "Manifesto" dice, una "coscienza moderna dello Stato" o meglio la sua coscienza dello Stato, cioè semplicemente diventerà, da negativa, positiva. Dopo aver fatte le mie previsioni eccomi al punto di decidermi per un'azione pratica. Il passaggio è stretto e difficile. La maggior parte degli uomini fortunatamente arriva all'azione per vie del tutto diverse da quella che noi abbiamo qui battuta, ed è inutile tentare una classificazione anche sommaria di questi motivi. Per uno che viene di biblioteca, supposto che egli possa dominare tutte le determinazioni subiettive che lo influiscono, è indifferente scegliere una qualsiasi delle pratiche di cui ha conosciuto l'esistenza e l'andamento. Questi sarebbe, dal punto di vista della preparazione spirituale alla politica attiva, il politico perfetto (machiavellico). Egli sa che tanto operando in A, come in B, lavorerà sempre per il risultato C. Sceglierà la sua via con lo stesso criterio con cui un attore sceglie la sua parte in un dramma di cui conosce lo svolgimento e la fine. Soltanto, come appunto sarebbe cattivo commediante, quegli che sulla scena si inspirasse alla logica finale del dramma anziché alla logica della sua parte, il politico che ha scelto A, parlerà e agirà secondo A, non secondo C. In pratica gli converrà nascondere questo C: oppure attribuirlo solo ad A, o anche, fingendolo un risultato nefasto, attribuirlo all'azione B, per persuadere il maggior numero ad agire in A. E in questi e in simili schemi si potrebbero tradurre moltissime discussioni che si fanno nei congressi dei partiti. Dunque io (soggetto astratto) potrei, senza frode, decidermi tanto ad operare per la rivoluzione prossima probabile del socialismo di Stato, diciamo per il collaborazionismo, quanto dar mano ad anticipare quella rivoluzione di cui abbiamo discorso e che ora dorme con la prima nella medesima culla. Il soggetto concreto confessa che i suoi sentimenti e le sue simpatie spirituali lo inclinano fortemente alla seconda decisione, mentre il suo intelletto realistico lo richiamerebbe alla prima. In fine conclude per rimanersene nella sua specola; per ritornare cioè a quella pura e semplice problemistica dei primordi dell'"Unità", inutilmente abbandonata che aspetta senza fretta la sua sintesi. Generosa è 1'impazienza dei giovani che pretende sintesi affrettate e provvisorie; generosa non solo, ma tal volta anche fecondamente creatrice come dimostra il brano pressoché autobiografico messo dall'autore in capo al "Manifesto". Credo però che anche un certo ascetismo politico, se è secondo genio, giovi a formare, in un Paese dove non c'è, una classe dirigente. E sotto questo aspetto, mi pare, rientriamo, con l'autore medesimo, a braccetto, nella praxis. Ubaldo Formentini.
III.Caro Gobetti, Eccoti qualche osservazione sul tuo tormentato e tormentatore "Manifesto". Tu poni perfettamente come compito della Rivoluzione Liberale la spiegazione di questi tre fenomeni della vita italiana: "1) mancanza di una classe dirigente come classe politica; 2) mancanza di una vita economica moderna ossia di una classe tecnica progredita (lavoro qualificato, intraprenditori, risparmiatori) 3) mancanza di una coscienza e di un diretto esercizio della libertà" Mio caro amico, ti dirò subito che non credo sia possibile arrivare a tanto, seguendo il tenue filo delle avventure hegeliane e delle peripezie antisensiste dei signori Luigi Ornato, Giovanni Maria Bertini e Santorre di Santarosa. Permetti che, in queste mie osservazioni, mi valga dei risultati degli studi di autori che qui convien nominare per vendicarli delle spogliazioni che essi soffrono da una ristretta cerchia di iniziati, che non li nomina mai per paura che anche gli altri se li facciano venire dal libraio. Mi baso sopratutto su: Sombart, Der Bourgeois, Monaco e Lipsia 1913; Max Weber, Gesammelte Aufsätze zur Religions soziologie, Tufinga 1921; Troeltsch, Soziallehren der chrislichen Kirchen, Berlino 1917. La vostra posizione di protesta contro l'Italia giolittiana o nittiana, contro il socialismo di Serrati e le cooperative di Vergnanini somiglia molto alla passionale opposizione puritana contro il sistema sociale che si era formato in Inghilterra sotto gli Stuardi: lega di malaffare fra Stato, Chiesa anglicana e monopolisti, per far prosperare le imprese di un capitalismo mercantile coloniale statalmente privilegiato. Il puritanesimo vi contrapponeva le tendenze ad un profitto capitalistico razionale e legale, raggiunto in forza della propria energia e iniziativa. I puritani (Prynne, Parker) rigettavano ogni contatto "con i cortigiani e i facitori di progetti", fautori di monopolii parassitarii, come con una classe di persone eticamente sospette; il nostro amico E. Corbino tratta precisamente su questo tono i socialisti, che "facitori di progetti" sono già fin d'ora, e "cortigiani" diventeranno ben presto. Questa analogia di posizioni fa capire che, in fondo, iI compito di Rivoluzione Liberale mira alla spiegazione della mancanza prima e profonda nel nostro paese: quella dello "spirito capitalistico". Definizioni dello spirito capitalistico non ce ne sono. Raccomandabilissimo, per mia esperienza personale, lo studio di due libri: La Vita di Beniamino Franklin e Robison Crusoè: né dirai che questa volta faccio delle citazioni peregrine. Lo spirito capitalista è facilmente percepibile quando l'ascesi protestante si è impadronita del vecchio concetto (- che il lavoro, anche per misera mercede, è meritorio agli occhi di Dio -) e lo ha approfondito, anzi trasformato, fino a creare l'impulso al lavoro come vocazione (ingl.: state; ted. beruf ), fino a far considerare il lavoro come l'eccellente, anzi l'unico mezzo, per diventare sicuri dello stato di grazia: quando l'ascesi protestante - divenuta vera ascesi laica - legalizzò d'altra parte lo sfruttamento della specifica volonterosità al lavoro, chiarificando come "vocazione", l'ansia di guadagno dell'imprenditore. È evidente poi, quanto l'esclusivo sforzo di raggiungere il regno di Dio con l'adempimento del dovere al lavoro (inteso come vocazione) dovesse promuovere la "produttività", nel senso capitalistico della parola: è dimostrato come quella concezione dello "Stato di grazia" che poteva essere garantito non da qualunque espediente magico sacramentale, o dalla assoluzione della confessione, o dell'adempimento di pratiche propiziatorie, ma soltanto dal mantenimento di uno speciale stile di vita pietistica, dovesse condurre a quella metodica razionale della vita pratica, che è il segreto dei grandi intraprenditori e delle grandi aziende. Si è spesso - e Sombart lo ha dichiarato in tratti particolarmente felici - indicato come motivo fondamentale dell'economia moderna il "razionalismo economico". Senza dubbio, se con questa espressione s'intende l'allargamento della produttività del lavoro mediante l'ingranaggio del processo di produzione, combinato da un punto di vista scientifico. Ma questo processo di razionalizzazione sul terreno tecnico presuppone uno stile di vita pietistico-ascetica, e condiziona una parte importante degli "ideali" della moderna società borghese: il lavoro per una razionale distribuzione di beni materiali all'umanità. Sotto Vanderlip, americano inquirente sui mali europei, è agevole scoprire Vanderlip razionalizzatore di una azienda bancaria; raschiate ancora, troverete il gregario di una setta protestante che cerca di seguire un qualsiasi sistema di ascesi laica. Usando uno schema grossolano, possiamo dire, per esempio, di Beniamino Franklin: a) Prima abbiamo lo stile di vita pietistico-ascetica, notissima in quelle storielle che a noi sembrano incredibili e ridicole, dell'Almanacco del povero Riccardo, ecc. b) Poi abbiamo la razionalizzazione della sua vita di produttore, da apprendista tipografo diventa padrone, inventa il parafulmine, ecc. c) Infine abbiamo la razionalizzazione della sua vita politica: leggere la descrizione dei suoi sforzi in servizio degli Improvements comunali di Filadelfia, per capire come il lavoro per la distribuzione dei beni materiali, per la "prosperità" della città natale, ecc. penda sempre dinanzi agli occhi di chi è già passato attraverso ai due stadii o momenti precedenti. Questa è la fioritura completa dello spirito capitalistico, che, come vediamo tipicamente in Franklin e in tutta la società americana dei suoi tempi, ci dà perfettamente quello che la Rivoluzione Liberale cerca invano in Italia: classe tecnica progredita, coscienza e diretto esercizio della libertà. Ora, in Italia, non esiste e non è esistito mai lo "spirito capitalistico" come fenomeno di masse. Esiste quello che il Sombart chiama Paria-kapitalismus (la cupidigia del barcaiolo napoletano o dell'aranciaro, la parsimonia dell'emigrante tanto ridicolamente vantata, tutti aspetti dell'auri sacra fames che è vecchia quanto il mondo, e non ha niente da fare con lo spirito capitalistico). Esiste quello che lo stesso Sombart, e altri, chiamarono Abenteurer-kapitalismus (il persistente parassitismo siderurgico, i casi Bondi, Perrone, ecc. rientrane in questa categoria). Non ci fu mai altro. Perché? La risposta del materialismo storico ingenuo spiega subito, si sa: "Tale spirito capitalistico un rispecchiamento, una soprastruttura di situazioni economiche: non si è avuto in Italia, perché queste situazioni sono mancate". Balle. Basta ricordare che nel paese natale di Beniamino Franklin (Massachussets) lo "spirito capitalistico" esistette ben prima dello "sviluppo capitalistico": che nelle colonie che poi formarono gli Stati meridionali dell'Unione, questo spirito capitalistico rimase molto meno sviluppato, quantunque là sorgessero le prime intraprese d'affari su grande - ma non razionale - scala: che lo spirito capitalistico si preparò, insomma, alle più grandi esplosioni nelle Colonie di New-England, in mezzo a una popolazione di piccoli borghesi, di artigiani, di yeomen e di predicatori. Il ritornello incalza: perché? Perché, dai Comuni, in cui, come tu dici, "sorsero gli elementi della vita economica moderna" non derivò anche lo spirito che questi elementi unifica e conduce alla battaglia? Perché Machiavelli, che "professa una religiosità della pratica come spontaneità di iniziativa e di economia" rimane un isolato? Perché, quando, sotto la superficiale influenza di Cavour e del periodo libero-scambista, parve che un più intenso sbocciare di imprese animate, da spirito capitalistico dovesse segnare l'inizio del nuovo Regno, ci fu una vera rivolta della opinione pubblica, un vero riaccendersi di disprezzo mandarinesco verso gli uomini dell'industria e questa rivolta si concretò nell'accentramento burocratico? Perché, mio caro, tu stesso, che con tanta minuzia studii, non dico l'embrione, ma il feto della classe dirigente in Italia, arrivato al Santarosa "in cui l'espressione dell'esigenza religiosa si confondeva nell'ossequio alla Chiesa", trovi ciò assolutamente ovvio, "perché il Cristianesimo, iniziale ardore di sentimento, momento ideale naturalmente anarchico, eretico, atto che supera tutti i fatti, affermazione violenta di spiritualità contro tutti i dati, non può avere vita e compimento reale se non realizza l'ardore in organismo, se non sostituisce alla purezza astratta dell'aspirazione l'ordine solido della praticità"? Perché - io credo - il cattolicesimo, il cattolicismo della Chiesa romana assoluta negazione di ogni metodica di vita borghese, assoluta soffocatrice dell'ascesi protestante, ci ha afferrati e non ci molla più. Io non so se, come tu dici, il cattolicesimo ha ucciso l'idea liberale: perché l'idea liberale è per me una espressione alquanto vaga e imprecisa ma esso ha forse ucciso in Italia ogni possibilità di ascesi laica. Ha, con la sua mole di Chiesa, cioè di universale fidecommesso per scopi ultraterreni, abbracciante i giusti e i reprobi, ucciso tutte le possibilità di svolgimento della setta, intesa come comunità di coloro che personalmente si sentono in stato di grazia, credenti ed eletti, e di costoro soltanto: e cosi, con questo primo schiacciamento, ha tolto di mezzo ogni classe dirigente come classe politica; perché la setta (religiosa) ne è il presupposto. La Chiesa Romana ha incarnato in noi quell'orrore verso l'irrimediabile banausismo, volgarità e monotonia della attività pretina specializzata, e con questo ha tolto di mezzo le possibilità di avere la classe tecnica progredita. La Chiesa Romana ci ha evitate le angoscie del dubbio sull'essere o no predestinati alla grazia, degni o indegni di appartenere alla "Ecclesia pura": ma "la coscienza e il diretto esercizio della libertà" sono sorte proprio e soltanto da quelle angoscie. Insomma io credo che il cattolicismo della Chiesa Romana ci abbia privati dello "spirito capitalistico"; e - insieme - di tutto ciò di cui Rivoluzione Liberale si propone di spiegare la mancanza, e che manca, perché è mancato quello spirito capitalistico stesso. Il più bello però è questo: che tu, con la tua rivista, non solo vuoi spiegare perché tutta questa roba manca: ma vuoi contribuire a fabbricarla. Io credo invece che la vittoria del cattolicismo sia definitiva, nel senso chiarito: che cioè lo "spirito capitalistico" non sorgerà - come afflato di massa - nel nostro paese. Tu dici: Data la loro affermazione di un principio idealistico o, se meglio piace, volontaristico, che fa risiedere la funzione dello Stato nelle libere attività popolari, affermantisi attraverso un processo di individuale differenziazione, Mazzini e Marx sono i più grandi liberali del mondo moderno. Giusto: appunto per questo il marxismo e il mazzinianismo sono fratelli... nella tomba. Tu dici: Coerenti ad una visione marxista, o, meglio, italianamente marxista sono rimasti alcuni comunisti (non il Partito Comunista), che agitando il mito di Lenin vedono nella Rivoluzione il cimento della capacità politica delle classi lavoratrici, della loro attitudine a creare lo Stato. Giusto: tu hai pronunciato la condanna di ogni attività pratica dei tuoi amici comunisti. Gira e rigira biondina, in Italia - altro che marxismo! - non c'è che del "poverismo": indicando provvisoriamente col termine di poverismo il complesso delle tendenze e delle dottrine contrarie allo spirito capitalistico. Prima di tutto, al solito, il sistema poveristico della Chiesa Romana, cui ancora si volge con nostalgia il ricordo e l'affetto degli italiani: né so tenermi dal trascrivere una paginetta del Veuillot, dove i suoi caratteri sono scolpiti con una efficacia che non mi stanco di ammirare: "A l'osteria, le déjeuner couta dix-sept sous. C'est une des grâces de Rome, de pouvoir déjeuner où l'on veut, au prix que l'on veut. Toute porte est ouverte à toute honnête homme. On a le droit d'être pauvre, la pauvreté est de bonne humeur. Le droit d'être pauvre, la bonne humeur de la pauvreté! Le monde finira par n'avoir même plus l'idée de ces deux grands biens; et alors il y aura des pleurs et de grincement de dents. Rome, Rome, doux pays de la pauverté honorée et libre? Le docteur B**, excellent prêtre, partit de Paris son breviaire sous le bras, il entra dans Rome sans autre fortune qu'un sac de nuit... qui contenait un plan d'études. A vingt sous par jour, l'honoraire de sa messe, il est logé, nourri, libre, content; il est entouré de consideration, et il fait un beau livre". L'Italia, mio caro, in cui vi sentite come esiliati, è questa, è sempre questa. Per cambiarla pare che tu faccia assegnamento sui nuclei iniziali dei due partiti rivoluzionari, quello degli operai e quello dei contadini. Tu li chiami rivoluzionari: spiegati. Forse sono rivoluzionari i loro capi, le loro élites, i giovani che più o meno conosciamo, tizio o caio, e che assumono verso l'Italia d'oggi, l'atteggiamento di protesta puritana? Ma perché i capi e le élites mettano in moto le masse hanno bisogno di un vecchio ingrediente: il paradiso. E non mica qualche paradiso laico, come sempre ce ne hanno descritto gli utopisti. Per battere la Chiesa, completamente provvista con tre paradisi, quello di Adamo ed Eva, quello "poverista" in cui Venillot e il suo amico R** si trovavano così bene, e quello lassù, bisogna che i capi e le élites dispongano di un paradiso come ne disponevano i Calvinisti, i Mennoniti, i Quaccheri. Vuoi tu rimandarci ai Circoli di Coltura Religiosa? Ah, mon bon, pas si bête que ça! Il coraggio di mascherarsi da protestante l'ha soltanto il nostro amico Prezzolini! O forse tu vuoi dire che "l'ardore e l'iniziativa degli operai saranno - da certe nuove circostanze economiche, - potenziati a un nuovo completo impeto rivoluzionario? Ebbene allora io ti chiedo quale espediente rivoluzionario mai varrà a cancellare il marchio anticapitalistico impressoci dalla Chiesa di Roma, a far sorgere quello spirito capitalistico che i Comuni, il Rinascimento e il Risorgimento non sono riusciti a far sorgere: io ti domando come eviterai che la rivoluzione delle masse operaie e contadine ricada nel vecchio solco del poverismo cattolico, non sia semplicemente e rovinosamente un pazzo tentativo di ritorno al tempo in cui con venti soldi al giorno l'uomo era alloggiato, nutrito, libero, e... scriveva ancora dei bei libri? Valgono insomma, non contro cotesti nuclei iniziali che sono stimabili, ma contro una loro ipotetica azione politica, le identiche obiezioni che valgono contro "la demagogia ridicola di Bombacci e di Misiano". Essi non riescono a risolvere il problema; quale io lo vedo: e cioè: "Come è possibile che una nazione, destituita di spirito capitalistico come la nostra, possa mettere in piedi una disciplina sociale valida ad affermarsi di fronte alle nazioni, che la loro disciplina sociale traggono da quello spirito capitalistico? Come è possibile che l'Italia non diventi una colonia - o non lo resti?" Per chiudere con un filo di speranza, dopo questa domanda che pare disperata, faccio due righe di inventario. 1° Non siamo soli a dover risolvere questo problema, nel mondo. Questo problema è posto, in termini press'a poco identici, ai popoli slavi e alla civilizzazione cinese. Ecco due enormi aggruppamenti dell'umanità destituiti come noi, più di noi forse, di spirito capitalistico: eppure ben risoluti, mi pare, a non diventare colonie anglosassoni. Siamo in buona compagnia. 2° È innegabile che un inizio di cristallizazione, un inizio di speciale disciplina sociale si svolge attorno al cosiddetto "socialismo" di cui tu ti affretti troppo a dichiarare l'impotenza. Non comprendo, a dir vero, l'interpretazione missiroliana del fenomeno socialista. Lo intendo invece come una forma di poverismo laico, che però manifesta la sua originalità in questo: nella costituzione di una classe dirigente destituita, si capisce, di spirito capitalistico, ma reclutata in base ad un certo rituale, e munita delle conoscenze tecniche necessarie per far vivere una azienda. L'epiteto di "mandarini"e di "bonzi" lanciato contro gli organizzatori per offenderli mette bene in rilievo un aspetto di questa originalità: l'epiteto poi può essere trovato offensivo solo dagli ingenui. Se e come questa originalità possa svolgersi: se e come questa singolare classe dirigente possa essere paragonata a quelle che, in Russia (funzionari bolscevichi) e in Cina (funzionari confuciani), cercano di difendersi contro gli assalti delle classi dirigenti derivate dalle sétte ascetico-laiche e sorrette da intenso spirito capitalistico: e, finalmente, quali siano i rapporti ideologici di essa verso la Chiesa Romana e la sua attività: tutte queste cose sono forse di un grande interesse: ma per non cadere nel vago dilettantismo, hanno bisogno di essere documentate con raffronti e citazioni lunghissime. Perciò chiudo. IV.Ci sono nel "Manifesto" della Rivoluzione Liberale alcuni sviluppi che sembrano e devono essere soprattutto personali, corrispondendo ad un necessario processo di realizzazione letteraria e stilistica. Su tali concetti, che hanno avuto virtù di suscitare l'ironia dell'amico Ansaldo, l'autore non chiede una adesione politica; li presenta come spiegazioni di stati d'animo, descrizioni di atteggiamenti, non limitati a un puro senso biografico, ma ribelli ad ogni carattere sistematico. Né di ciò si vuol discutere, né ricercare analoghi elementi personali, facilmente contestabili in nome di altre esperienze - negli scritti di Burzio, di Formentini, di Ansaldo qui pubblicati. Sotto l'ottimismo storicistico del Burzio (incline, per amore alla tradizione riformista a misconoscere le leggi autonomistiche della vita moderna, altra volta, nello studio sulla Democrazia, affermate) sotto il realismo di Formentini (che dall'autocritica è tratto a diffidare di ogni azione); sotto lo scetticismo di Ansaldo (statico spettatore) - è agevole osservare un intimo consenso - più o meno specifico - alle premesse e agli intenti del criticato Manifesto. A questo consenso è giusto corrispondere chiarendoci e riesaminandoci, per evitare qualunque incertezza potesse essere sorta dalle antitesi della discussione. E anzitutto qual è il senso della nostra pretesa di aderire alla storia? La critica del concetto presentata dal Formentini è validissima, ma non si può rivolgere contro di noi. Aderisce alla storia anche chi vi repugna. E la storia è sempre diversa da quella che è presente alla mente di chi si propone di aderirvi. Le due affermazioni opposte sono tutte e due vere. Il presente è e non è nella storia. Perché la storia è insopprimibile, è unità di fatto e di farsi e di non fatto; ma dalla storia non si deduce - ossia dalla storia non si astrae. L'azione deve vivere di storia (di concretezza); ma come azione è qualcosa di nuovo, che al passato non si riduce, libero; nasce impreveduta, crea valori imprevedibili; ma poiché alla storia invano si repugna, questo nuovo ha il suo significato in quanto si sforza di sottoporre a sé tutto il passato. Da questa relazione soltanto (che è quanto dire: da nulla di arbitrario) nasce l'avvenire. Quello che il Burzio chiama nostro schema di interpretazione del Risorgimento non è storia del Risorgimento, ma, in un senso molto preciso, storia nostra. Le nostre esigenze nascono da situazioni determinate e solo nel mondo da cui nascono si spiegano. Sarebbe ingenuo pensare che queste esigenze nascano sole, che il mondo, ove hanno luogo, vi si esaurisca creandole. Nel Risorgimento c'è il nostro Risorgimento e quello di Burzio; c'è il riformismo e la rivoluzione: e il Risorgimento dello storico li comprende tutti. La verità della nostra interpretazione è condizionata dalla nostra azione: la legittimità di questa è nella continuità di una tradizione. È vero, perciò che nel Manifesto storia e propositi si generano reciprocamente - condizionati da una nostra volontà. A chi critica la nostra storia del Risorgimento si risponde che essa non è una storia: anche se il farla fosse nei nostri intenti (in altra ora) non abbiamo mai creduto che la si potesse preannunciare in un articolo (sia pure lunghissimo, come alcuno ha protestato!). Mazzini, Cavour, Ferrari e tanti altri uomini idee e forze sono state deliberatamente sacrificate per segnare con semplicità le linee di una crisi attuale, delle direzioni di pensiero che si pretendono continuare. Ma l'affermazione fondamentale da noi storicamente ed empiricamente commentata, non ha bisogno di prove storiche perché è creatrice della storia, è la verità di tutti i processi vitali: la negazione del riformismo in nome dell'autonomia delle forze, il necessario riconoscimento della spontaneità rivoluzionaria dei movimenti popolari è concetto a cui crediamo e di cui siamo pronti a dare dimostrazione scientifica se mai qualche ingenuo ne sentisse il bisogno. Abbiamo visto questo principio sostanziale della lotta politica in Italia individuato in elementi ideali e pratici caratteristici del nostro tempo. E qui è dovere fissare i limiti dell'azione cui si è pensato. Esaltatori della lotta politica, consci che una lotta politica in Italia è stata sinora, per molteplici e chiarite ragioni, soffocata, il problema centrale dello Stato ci è parso problema di adesione del popolo alla vita dell'organismo sociale, problema di educazione politica autonoma (non di scuola), esercizio di libertà, necessità di conflitti, di intransigenze suscitatrici di una fede laica. Economicamente - diciamo pure con Ansaldo,- creare lo spirito capitalistico. Ci permetta l'amico Ansaldo: ciò non ha nulla a che fare col protestantesimo e col circolo di cultura religiosa - in Italia il protestantismo non può essere che un momento dello sviluppo cattolico. No, qui il problema è di iniziativa economica e di attività libertaria. I partiti intransigenti, i partiti di masse (contadini e operai) operano secondo la linea che noi seguiamo, concludono a un'opera liberale. In questa premessa l'identità di Stato liberale (liberistico) e di Stato etico, che non convince il Burzio è per sé chiara. Ma a questo punto la rivoluzione reca un'esigenza, determina dei problemi. II problema essenziale è un problema di espressione, di tecnica realizzatrice. Occorre che il popolo abbia il suo governo, occorre creare una classe dirigente che viva di esso, che aderisca alla sua spontaneità, che corrisponda alla sua libertà. Il compito è parso al nostro Sarmati antitetico colla premessa: il Governo nasce colla rivoluzione, non astratto da essa, non preparato preventivamente. Ma oggi siamo in una crisi rivoluzionaria; noi sorgiamo dalla rivoluzione dopo aver, lavorato, lavorando con essa e non é certo l'Ordine Nuovo che possa rimproverarci astensione o indifferenza. Tra il nostro atteggiamento di critici e le nostre conclusioni di pratici c'è invero una contraddizione tragica, ma vitale: la contraddizione implicita nell'azione, che é stata tra Cavour pensatore e Cavour ministro, che c'è tra Nitti capo di governo e Nitti scrittore di economia o di sociologia. Il problema rivoluzionario sarà pure a un certo punto problema di uomini: noi prepariamo gli uomini che sappiano allora accettare la rivoluzione e operare realisticamente. In questo senso le premesse ci conducono a un compito tecnico, diciamo pure al problemismo, cui accenna Formentini. Ma la premessa deve restare ben chiara anche se è lontana: non si tratta del semplice problema di cultura che scorge Burzio. Il risultato si è che mentre pensiamo ad agitare delle forze (indirettamente o direttamente) possiamo sembrare ai frettolosi dei riformisti, perché ci occupiamo dei problemi attuali, perché suggeriamo riforme e proponiamo soluzioni. L'importante si è che questa tecnica non distrugga quell'autonomia di che siamo ben convinti: e non ci toccano, perché si elidono da sé, le accuse opposte di conservatori e di rivoluzionari che vengono mosse al nostro realismo. Noi non crediamo alla validità delle riforme e invochiamo e favoriamo nuove libere forze: non crediamo alle formule e vi contrapponiamo l'immensità del reale. Determinare i limiti e i modi della conservazione del resto è stato sempre il compito tecnico dei rivoluzionari. Senonché dice Formentini, che tra i tre amici è il più vicino al nostro pensiero, il problema presente è il collaborazionismo e uno spirito realista deve fare i suoi conti con esso. La funzione transitoria del collaborazionismo socialista è posta dal F. stesso eccellentemente: nonostante i promotori concluderà anch'esso ad arricchire il trionfo liberale dei popolo, a liquidare i miti e i riformismi. Il nostro atteggiamento deve essere di netta opposizione per ovvie ragioni d'indole economica, e per una netta antitesi d'ordine politico: precisamente da un tal fenomeno dipende la validità, il momento del successo della nostra affermazione liberista. In questi termini il nostro proposito di coltura politica ha la sua definizione esplicita: in una interpretazione di forze e in un'esigenza di tecnica che ognuno di noi sente come problema morale. Non è il luogo di rimproverare utopie, non siamo in nessun mondo fantastico: ci disponiamo serenamente, con l'ascetismo che opportunamente richiede (e si chiede) il nostro collaboratore Formentini a un compito che sappiamo grave, impopolare. Ansaldo non crede che sulla nostra via si possa trovare il successo, non crede che del problema ci sia una soluzione. Il suo scetticismo si aggrappa alla storia, da ciò che non c'è stato deduce ciò che non ci sarà mai. Il che è manifestamente antistorico. Col metodo di Ansaldo era agevole negli anni del Risorgimento negare la legittimità degli sforzi unitari. L'unità d'Italia non c'è mai stata, dunque non ci sarà. É un argomento che prova troppo e che cade da sé. Non si capisce come da tutto il sottile e profondo discorso con cui egli commenta il nostro manifesto possa derivare una conclusione imprecisa che non risolve le esigenze accettate. La classe di mandarini amministratori sarà sempre in antitesi con un popolo che sta sorgendo a vita economica e a vita politica (e questo fatto s'è provato nel Manifesto): dunque la soluzione provvisoria si negherà in altre soluzioni più vitali. Le esperienze dei Comuni, del Rinascimento, del Risorgimento non sono storie di fallimenti, ma indicazioni di stati d'animo, di insopprimibili aspirazioni. Non è da chiedersi se noi saremo capaci di continuarle, di concluderle: certo l'impresa è la più realistica che oggi si possa pensare; di quel temerario realismo, che sa vedere e creare la realtà dove altri chiacchiera, pavido, di utopia. Per questo l'abbiamo posta come compito della nostra vita. Piero Gobetti. VQuesta lettera di Domenico Giuliotti non vuol essere una partecipazione al nostro lavoro. È l'antitesi netta ed onesta di un amico per il quale abbiamo una profonda stima. In questa lettera, che è come la sintesi di tutto il libro di G. L'ora di Barabba, non c'è soltanto poesia, c'è una notevole e rispettabile fede maturata in una poderosa unità, in ferreo anacronismo. La rude sincerità di Giuliotti richiama il cattolicismo alla sua logica medioevale e diventa, come altrove s'è notato, forza feconda dialettica attraverso cui il mondo moderno ritrova la sua unità. Il programma di Giuliotti può parere esaltato o intemperante alle mezza coscienze, paurose di ogni posizione rigida, tolleranti per comodo e per poca serietà; esso ha un vizio chiaro di anti-storicismo messianico, ma su tutti i messianismi utilitaristi e riformisti ha la superiorità che scaturisce da una terribile coerenza ideale, e da una limpida fede, ingenua e combattiva, nella trascendenza. E noi stimiamo la sua intransigenza, che non ci stancheremo mai di combattere, mentre consideriamo con disdegno tutti i catechismi predicanti transazioni e conciliazioni. Caro Gobetti, Nessuna osservazione da fare. Nego tutto. Sono antiliberale, antidemocratico; antisocialista anticomunista. In una parola, antimoderno. In questa Italia di briganti-pazzi, vivo con la tristezza ostile d'uno straniero che non ha più patria. Sono dunque da voi dissimilissimo. Voi (professori) cercate di catalogare, mentre vi travolgono le ondate della piena, io (poeta) disperatamente spero nell'auto distruzione dell'anarchia e nella ricostruzione d'una piramide, con al vertice il Papa e alla base il popolo. Ecco il mio programma! Confrontalo col vostro, una lirica accanto a un bilancio. Da ciò l'impossibilità d'intenderci. Saluti. D. Giuliotti.
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