LA VITA REGIONALEIl "blocco" delle sovrimposte comunaliCon decreto del 13 febbraio 1923 il Ministero delle Finanze ordinò il cosidetto "blocco" delle sovrimposte comunali, prescrisse, cioè, che la sovrimposta comunale sui terreni e fabbricati per l'anno 1923 non potesse eccedere quella applicata per l'anno 1922. Il decreto veramente ammetteva anche il caso dell'autorizzazione di una "super-eccedenza" di sovrimposta in confronto a quella applicata nell'anno 1922; ma siccome quell'autorizzazione è riservata al Ministero, il quale l'ha normalmente rifiutata per l'anno 1923, è probabile che l'esperienza fatta nell'anno scorso, consigli ai Comuni di non ritentare la prova in avvenire, e quindi può dirsi che praticamente l'effetto del decreto è il divieto pressoché assoluto ai Comuni di applicare una sovrimposta fondiaria maggiore di quella autorizzata per l'anno 1923. Il fine del provvedimento è comprensibile. Siccome il Governo aveva l'intenzione di aumentare per proprio conto le imposte, per colmare, o almeno ridurre, il disavanzo del bilancio dello Stato, e, fra le altre imposte, voleva istituire quella sui redditi agrari, che grava sugli stessi redditi già colpiti dalla sovrimposta comunale, pensò di porre un freno alle sovrimposte comunali e provinciali, per riservare allo Stato i maggiori proventi ricavabili dalla tassazione della proprietà fondiaria, e nello stesso tempo dare ai contribuenti una specie di compenso, dicendo loro: "io vi impongo una nuova tassa, ma vi garantisco che i Comuni non potranno colpirvi con una sovrimposta maggiore di quella che avete pagato finora". L'efficacia del provvedimento, per arrestare a un tratto l'aumento della sovrimposta, è indubbia, e il ministro delle Finanze ha potuto vantarsi di aver bloccato le sovrimposte, e qualche finanziere, come l'on. Einaudi, ha plaudito al decreto. Vediamo un po' quali ne siano stati gli effetti per le finanze dei Comuni. Se il decreto fosse stato emanato in un periodo normale per le finanze comunali, probabilmente non avrebbe prodotto gravi inconvenienti. Ma invece esso giunse in un momento in cui le condizioni finanziarie dei Comuni erano ancora in istato di grave squilibrio in conseguenza dello sconvolgimento portato dalla guerra. A seconda delle particolari condizioni economiche di ciascuno, dei danni subiti, o anche della prudenza e della previdenza usate dagli amministratori durante il periodo bellico, era giunto a un grado diverso l'opera di risanamento o di ricostruzione. Qualche raro Comune più fortunato, aveva potuto approfittare delle circostanze della guerra, perché, per esempio, aveva potuto vendere ad altissimo prezzo il legname dei suoi boschi, e dopo la tempesta si era trovato più ricco di prima; altri, aumentando gradualmente le imposte, erano giunti alla fine della guerra col bilancio quasi in ordine, e con un piccolo sforzo erano riusciti a liquidare definitivamente le ultime passività rimaste: la maggior parte avevano quasi lasciato andare le cose alla deriva, sia durante la guerra che negli anni immeditamente successivi, quando le spese aumentarono enormemente per l'aumento dei prezzi, e specialmente per la necessità di migliorare gli assegni al personale e di conceder loro l'indennità di caroviveri. Nel 1922, alla data del decreto, molti Comuni avevano provveduto con mutui al pagamento delle maggiori spese degli anni arretrati, per le quali non erano stati sufficienti i mezzi ordinari di bilancio, e, con l'aumento delle imposte, avevano ricostituito il bilancio su nuove basi che potevano servire anche per gli anni futuri. Ma per una gran parte dei Comuni l'opera di sistemazione o era appena iniziata o non era del tutto compiuta. Per compiere questa sistemazione, i Comuni rurali, che sono la maggior parte, non avevano altro mezzo che l'aumento della sovrimposta. E giunse il blocco delle sovrimposte a chiudere loro quell'unica via. I proprietari di terreni e di fabbricati, naturalmente, trovarono provvidenziale il decreto, ma bisognerebbe sentire se uguale giudizio ne abbiano dato molti amministratori comunali, trovatisi improvvisamente con le mani legate e nell'impossibilità di mettere in ordine le finanze del Comune e di riscuotere le entrate necessarie per far fronte alle spese. Si è parlato di finanza demagogica, di finanza di classe, a proposito dell'aumento eccessivo delle sovrimposte, e può essere che in qualche caso l'aumento sia effettivamente stato dovuto al proposito di colpire la proprietà e alle spese eccessive a cui qualche Comune si era abbandonato; ma bisognerebbe tener presente, da un lato che la proprietà fondiaria aveva subito aggravi minimi da parte dello Stato e che gli attuali tributi diretti erariali gravanti sui terreni e fabbricati, secondo i calcoli del Cabiati, sono inferiori, tenuto conto della svalutazione della moneta, del 70% a quelli pagati nell'anteguerra; e dall'altro lato dev'essere pure osservato che alla data del decreto lo spirito pubblico, e quindi anche quello degli amministratori comunali, era ormai cambiato, e che sarebbe stato sufficiente, per frenare gli eccessi delle sovrimposte, impartire nuove norme restrittive agli organi incaricati della tutela e del controllo sugli enti locali. Invece, in seguito al blocco delle sovrimposte, i Comuni, per le condizioni in cui sono venuti a trovarsi, si possono dividere in tre gruppi: quelli che alla data del decreto avevano già riordinato i loro bilanci e applicato una sovrimposta equa e sufficiente ai bisogni del Comune, e per essi il nuovo decreto è stato inutile, perché non ne hanno avuto né danno, né vantaggio: quelli che nel 1922, o per le cosiddette ragioni demagogiche, o, come è avvenuto più frequentemente, per far fronte a spese straordinarie, specialmente arretrate, avevano applicato una sovrimposta altissima. Questi Comuni hanno, per effetto del decreto, una condizione di privilegio. Siccome hanno esagerato nell'applicare la sovrimposta per l'anno 1922, hanno il diritto di continuare ad esagerare per gli anni successivi, e il decreto del blocco esercita per essi un effetto analogo a quello delle tessere di bellica memoria, quando molti compravano, per esempio, lo zucchero, non perché ne avessero bisogno, ma perché avevano diritto a ricevere quella quantità e giudicavano sciocco rinunziarvi. Così il decreto che blocca le sovrimposte costituisce una specie di incitamento a non diminuire la sovrimposta in confronto a quella del 1922, anche se una sovrimposta minore sarebbe sufficiente. Il terzo gruppo di Comuni comprende quelli che nel 1922 avevano applicato una sovrimposta insufficiente. Ciò poteva essere dipeso o da riluttanza o esitazione degli amministratori ad elevare i tributi alla misura necessaria, o da circostanze speciali (entrate straordinarie) che in quell'anno avevano consentito a pareggiare il bilancio con una sovrimposta minore di quella normalmente occorrente. Molti di questi Comuni si trovano ora in difficoltà pressoché insormontabili. Alle richieste di aumento della sovrimposta, il Ministero risponde invitando a ridurre spese, che in molti casi non possono essere ridotte, perché già eseguite o indispensabili, e ad aumentare le tasse esistenti o a istituirne di nuove. Per i Comuni rurali, nella maggior parte dei casi è impossibile trovare altri cespiti che possano sostituire la sovrimposta. A parte il malcontento a cui dà luogo l'applicazione delle tasse di famiglia e sul bestiame (le uniche che nei piccoli Comuni possano dare un gettito non trascurabile), non si comprende perché, nei Comuni dove la grandissima maggioranza della popolazione è costituita da piccoli proprietari, si imponga di non aumentare la sovrimposta, per ricavare le stesse somme, che essa potrebbe fruttare, sotto la forma di tassa sul bestiame e di famiglia, dal momento che quelli che pagano sono sempre le stesse persone e preferiscono infinitamente pagare sotto forma di sovrimposta che sotto forma di altre tasse. La questione centrale è che le leggi si fanno uniche per tutto il Regno e che chi le prepara è quasi sempre qualcuno che vive in città e non conosce le condizioni dei Comuni di campagna o non se ne cura. Ora i Comuni, che contavano sull'aumento della sovrimposta per far fronte alle spese per l'anno l923 e che non hanno avuto l'autorizzazione all'aumento, si troveranno alla fine dell'anno con un disavanzo che si aggraverà per gli anni venturi, se il decreto continuerà ad avere la stessa applicazione. E si verificherà il caso di contribuenti che hanno la miglior buona volontà di pagare e di sistemare le finanze del loro Comune, ma non potranno farlo, perché il Governo glielo impedisce. Né sembra che con la riforma dell'amministrazione si sia pensato ad eliminare gl'inconvenienti non lievi prodotti dal decreto 18 febbraio 1923. Anche se non si vuole abolirlo, un rimedio sufficiente sarebbe quello di trasferire la facoltà di autorizzare la super-eccedenza della sovrimposta in confronto a quella del 1922, dal Ministero alla Giunta Prov. Amm., in armonia al concetto di decentramento, al quale pare che la riforma sia ispirata. Le Giunte provinciali, che hanno, fra i loro membri, rappresentanti degli enti locali e sono più a contatto con essi e coi loro bisogni, sono maggiormente in grado di valutare questi bisogni e quindi comprenderebbero meglio la necessità di applicare il decreto cuen grano salis, ciò che non si può sperare finché i bilanci saranno sottoposti a un impiegato del Ministero, la cui unica preoccupazione sarà di trovare qualunque pretesto, per quanto infondato, per negare l'autorizzazione alla super-eccedenza in obbedienza agli ordini inesorabili del suo feroce ministro. Ma il rimedio radicale non si avrà, finché non sarà entrato nella testa dei dirigenti (e il momento sembra il meno propizio) che dev'essere bensì esercitata sui Comuni un'assistenza tecnica e giuridica, ma che dev'essere loro lasciata una larga autonomia in materia tributaria, e che, determinata la materia imponibile riservata ai Comuni, dev'essere lasciata loro la facoltà (quando esiste il consenso degli amministrati, da considerare l'unica base di legittimità) di applicare le imposte che essi ritengono più adatte ai bisogni e alle condizioni locali. OBSERVER.
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