Storia contemporaneaIL MARCHESE DI SAN GIULIANOIl marchese di San Giuliano, che prese l'ufficio di Ministro degli esteri al principio del 1910, aveva per la mente tutt'altra idea che quella di rallentare o di rompere la Triplice Alleanza. Nei primi tempi della sua carriera parlamentare, egli era stato seguace di Francesco Crispi. E nella sua politica estera si ritrovarono tutte le fondamentali tendenze di quella che era stata, venti anni prima, l'azione di Crispi. Come Crispi, infatti, Di San Giuliano era ostile alla Francia. Il suo spirito si era formato proprio nel periodo, in cui i contrasti fra l'Italia e la Francia erano più acuti: cioè negli anni che precedettero la guerra del 1870, quando Napoleone III impediva all'Italia l'acquisto di Roma; negli anni successivi alla guerra del 1870, quando la maggioranza clericale dell'Assemblea francese minacciava l'unità politica d'Italia; negli anni successivi al Congresso di Berlino, quando erano continue ed asprissime le contestazioni per Tunisi. La antipatia per la Francia conduceva Di San Giuliano ad aderire solidamente alla Triplice Alleanza. A somiglianza di Crispi, Di San Giuliano era anche un convinto colonialista. La popolazione italiana - egli pensava - in continuo accrescimento, non poteva essere nutrita dal territorio della madre patria. Era obbligata ad emigrare. A questa massa migratrice, il Governo italiano doveva conquistare territori produttivi, in cui essi potessero stanziarsi e lavorare, protetta dalla bandiera nazionale. Perciò la politica delle espansioni coloniali era per l'Italia una necessità di vita. Ma l'Italia, arrivata ultima, nella politica coloniale, trovava il mondo già spartito fra i più anziani e i più forti. Fortunatamente, i più forti non erano d'accordo tra loro. L'Italia doveva inserirsi nei contrasti, che dividevano i più forti, allearsi con gli uni contro gli altri, ed aprirsi la linea della minore resistenza. La linea di minore resistenza Di San Giuliano la vedeva nella Francia. Egli era condotto a questa opinione non solo dalla francofobia, che era un elemento primitivo della sua psicologia politica, ma anche dalla convinzione che la Francia fosse un paese corrotto moralmente, disorganizzato dal parlamentarismo e dalla democrazia, incapace di resistere ad un vigoroso assalto della Germania. Questo, della corruzione e della debolezza francese, era un luogo comune della propaganda tedesca negli anni che precedettero la guerra. Di San Giuliano ed i nazionalisti italiani se lo bevevano con voluttà. E anche per questa illusione, era naturale che Di San Giuliano fosse un convinto sostenitore dell'alleanza fra l'Italia e gl'Imperi centrali. Tittoni, fra il 1903 ed il 1909, si era sempre tenuto in ottimi rapporti con l'Inghilterra e con la Francia, pur rimanendo fermo a volere la continuazione della Triplice Alleanza nel 1909, prima di lasciare il Governo, aveva aggiunto alle intese dell'Italia con la Francia e con l'Inghilterra, la nuova intesa con la Russia. Noi possiamo definire la politica di Tittoni come una politica d'equilibrio fra la Triplice Alleanza e la Triplice Intesa. Di San Giuliano non credeva alla solidità e alla efficienza della Triplice Intesa. Nella crisi della Bosnia, le iniziative dei Gabinetti di Londra, Parigi e Pietroburgo si erano dimostrate scombinate e sconclusionate. Di San Giuliano era convinto che questi difetti si sarebbero accentuati in avvenire. In Inghilterra il Partito liberale, che teneva il Governo, era profondamente imbevuto di idee pacifiste; e Di San Giuliano era certo che l'Inghilterra difficilmente sarebbe intervenuta in una guerra europea, a fianco della Francia e della Russia. Della Russia, egli non aveva un'altra opinione, dopo i disastri della guerra col Giappone: parlandone con gli amici, la chiamava, non una Grande Potenza, ma una Grande im-Potenza. Data la neutralità dell'Inghilterra, e data l'im-potenza della Russia, la Francia non poteva che essere battuta dalla Germania in una guerra europea. E data questa previsione, Di San Giuliano era portato logicamente ad abbandonare la politica di equilibrio e a stringersi sempre più saldamente agli Imperi centrali. Ma la nuova Triplice Alleanza, nel pensiero di Di San Giuliano, non doveva essere una continuazione sic et simpliciter della Triplice tradizionale. Nel gioco delle influenze e dei compensi, che si delineavano nel prossimo avvenire, il Governo tedesco avrebbe fatto grandi conquiste a spese della Francia, nel continente europeo e nelle colonie; il Governo austriaco avrebbe conquistato il controllo della penisola balcanica a spese della Russia. Il Governo italiano doveva partecipare alle spoglie della vittoria, in compenso dell'aiuto che avrebbe dato alla politica antifrancese ed antirussa degli Imperi centrali. La Triplice Alleanza era stata, fino a quel momento, una semplice garanzia dello statu quo europeo. Se il Governo tedesco si era creato un vasto impero coloniale, dal 1884 in poi, questo era avvenuto all'infuori della sua alleanza con l'Italia. Se il Governo austriaco aveva potuto annettersi nel 1908 la Bosnia-Erzegovina, anche questo senza alcun aiuto positivo da parte dell'Italia. Se il Governo italiano si era costituito un modesto dominio coloniale nell'Africa orientale, anche questo era avvenuto all'infuori della Triplice Alleanza: nella stessa questione di Tripoli, i Governi di Berlino e di Vienna lasciarono mano libera al Governo italiano per il caso che lo statu quo nord-africano venisse meno, ma non avevano nessun obbligo di appoggiarlo positivamente in una eventuale conquista. Nella crisi del Marocco e di quella della Bosnia, si era rivelata, nella Triplice italo-austro-germanica, l'esistenza di una duplice austro-germanica, la quale non era più una semplice società di assicurazione, ma era una società per acquisti. Per l'Italia, invece, la Triplice continuava ad essere una semplice società di assicurazione. Bisognava che anche per l'Italia la Triplice diventasse una società per acquisti. Gli acquisti dell'Italia potevano avvenire in diverse direzioni: a spese della Francia, verso i confini occidentali dell'Italia e nell'Africa settentrionale, a spese dell'Austria, verso i confini orientali dell'Italia e in Albania; a spese della Turchia e della Grecia, nel Mediterraneo orientale. Di San Giuliano non aveva preferenze speciali. Era come quel ragazzo, che interrogato se preferiva una trottola, un dolce o un bacio, rispose che li preferiva tutti e tre. Di San Giuliano si riservava la scelta secondo le circostanze. Nelle questioni balcaniche, Di San Giuliano era disposto a sostenere il Governo di Vienna contro la Russia e contro la Serbia. Era convinto che il movimento slavo rappresentasse un pericolo oltre che per l'Austria-Ungheria, anche per l'Italia. Ma il Governo di Vienna, se avesse acquistato nuovi territori o nuove influenze nella penisola balcanica, avrebbe dovuto dare compensi equivalenti all'Italia. Egli non sentiva le questioni dell'irredentismo con la stessa passione, con cui sentiva le questioni coloniali. L'irredentismo era, per lui, una malattia incurabile, che i due Governi di Vienna e di Roma avrebbero dovuto sopportare pazientemente, e calmare con opportuni lenitivi. Non aveva nessuna speranza che il Governo di Vienna abbandonasse Trieste e l'Istria all'Italia. Ma nella questione del Trentino e della frontiera verso l'Isonzo, doveva tenere presente la teoria tradizionale dello Stato Maggiore italiano, secondo cui la difesa dell'Italia settentrionale era estremamente difficile contro un assalto dall'oriente, finché l'Austria rimanesse nel Trentino e rifiutasse di rettificare la frontiera verso l'Isonzo. Di San Giuliano sperava che il Governo di Vienna abbandonasse, prima o poi, la propria intransigenza in questo campo. Caratteristico é, a questo proposito, il colloquio, che egli ebbe a Firenze, col Cancelliere tedesco Bethmann Hollweg, il 2 aprile 1910, presente l'ambasciatore tedesco a Roma, Flotow. I due Ministri si scambiarono, tanto per cominciare, le solite assicurazioni sulla comune volontà di mantenere lo statu quo; Di San Giuliano affermò, tanto per cominciare, che l'Italia teneva alla indipendenza "non solo della Turchia, ma anche degli altri Stati balcanici", e che "solo subordinatamente avrebbe domandato dei compensi". Ma i due Ministri si trovarono d'accordo nel riconoscere che era assai difficile determinare in precedenza questi compensi. Ad ogni buon conto, Di San Giuliano fece notare che "difficilmente noi avremmo gradito compensi territoriali nella penisola balcanica, e in generale fuori dei confini geografici dell'Italia". I due Ministri si divisero senz'aver nulla concluso, considerando che "per lungo tempo" non si sarebbe presentata la necessità di discutere questo genere di problemi. Il "lungo tempo" doveva essere solo di quattro anni! Mancava alla discussione il terzo e il più interessato: il Governo dell'Austria! E proprio su questo scoglio, la politica di San Giuliano era destinata a naufragare! Quella politica, infatti, si basava tutta sulle ipotesi: che l'Inghilterra sarebbe rimasta neutrale in una guerra franco-germanica; e che la Francia sarebbe stata facilmente prostrata in conseguenza della debolezza propria e della impotenza russa; che gli Imperi Centrali si sarebbero accordati col Governo italiano sulle spoglie della vittoria. Nella crisi del 1914 l'Inghilterra doveva non rimanere neutrale; la Francia doveva rivelare che le sue ossa erano assai più dure che Di San Giuliano non pensasse; la Russia doveva mostrarsi capace di dare parecchi colpi mortali all'Austria prima di cedere allo sforzo; e i Governi di Vienna e di Berlino dovevano essere assai meno compiacenti di quanto Di San Giuliano non sperasse. Se avesse avuto un senso esatto della realtà, Di San Giuliano avrebbe molto imparato da due incidenti, che gli occorsero nell'estate del 1910, proprio nei primi tempi del suo governo. Siccome Conrad von Hetzendorf accentuava i preparativi militari verso la frontiera italiana, il Governo di Roma fece appello al Governo di Berlino, perché mettesse un limite a queste ostentazioni continue di aggressività. L'ambasciatore tedesco a Roma dichiarò che "la Germania avrebbe cercato di impedire una dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria all'Italia; ma se non riusciva a persuadere il suo alleato, non poteva contrastarlo, perché era il solo collaboratore militare forte, che avesse in Europa, fra tanti nemici palesi ed occulti". Nella stessa estate, si tenevano a Milano delle feste sportive. Partecipavano a queste feste alcune società ginnastiche di Trieste. L'ambasciatore austro-ungarico a Roma voleva che il Governo italiano impedisse questo intervento dei ginnasti triestini alle feste di Milano, o per lo meno sconfessasse ufficialmente le manifestazioni irredentiste, a cui quell'intervento potesse dar luogo. La lettera dell'ambasciatore finiva con fare osservare che "il Ministro italiano, dopo quell'avvertimento non avrebbe potuto dire che ignorava ciò che stava per succedere". Quest'aggressività austriaca e la passività tedesca si spiegano perfettamente, quando si consideri che gli uomini politici tedeschi ed austriaci basavano la loro azione sulle stesse ipotesi, su cui fondava la propria azione Di San Giuliano. Anche essi erano convinti, che l'Inghilterra non avrebbe partecipato a una guerra mondiale, che la Russia era una Grande im-Potenza, che sarebbe stato facile abbattere Francia. Ed appunto perché erano traviati da queste ipotesi essi scatenarono nel 1914 la guerra mondiale. Date queste illusioni, l'aiuto dell'Italia non appariva indispensabile né al Governo di Vienna, né a quello di Berlino. Lungi dal giudicarlo indispensabile, il Governo di Vienna lo giudicava ingombrante e noioso. Intervenendo nella guerra, a fianco degli Imperi centrali, il Governo italiano avrebbe voluto in compenso partecipare al bottino, invocando l'articolo VII della Triplice; e nel fare le porzioni, avrebbe domandato che una parte degli acquisti cadesse a spese dell'Austria; il Governo di Vienna non ammetteva discussioni su questo terreno: il Governo italiano doveva andare a cercarsi i compensi dovunque, meno che verso la frontiera austriaca e nell'Adriatico. Per il Governo di Vienna, l'ideale era che l'Italia rimanesse neutrale, e lasciasse le mani libere all'Austria nella penisola balcanica. Rimanendo neutrale, il Governo italiano non avrebbe potuto avere molte pretese nel nuovo assetto della pace. Se avesse alzato troppo la voce, sarebbe stato agevole metterlo a posto, in una Europa, in cui la Germania e l'Austria avessero già riportato vittoria della Russia e della Francia. Il Governo tedesco, invece, era più sinceramente desideroso che l'Italia partecipasse alla guerra, sia per facilitare la sconfitta della Francia, sia per associare l'Italia alla Germania, dopo la guerra nel garantire il nuovo statu quo. Ma l'aiuto dell'Italia non appariva neanche a Berlino indispensabile per la vittoria; e non essendo indispensabile, non meritava di essere pagato troppo caro: sopratutto, non meritava che il Governo di Berlino compromettesse per i begli occhi dell'Italia la sua intimità, ben più necessaria, col Governo di Vienna. Così, anche il Governo tedesco era portato a contentarsi della neutralità italiana. Di San Giuliano offriva, dunque, agli Imperi centrali un aiuto, di cui questi non sentivano un'assoluta necessità; e domandava un pagamento, che gli altri trovavano troppo elevato. Per rendersi più desiderabile, egli avrebbe dovuto continuare la politica dell'equilibrio tra l'alleanza e le intese. Tittoni aveva fatto questa politica; e appoggiandosi alla Triplice Intesa, aveva obbligato il Governo di Vienna a rispettare l'articolo VII della Triplice Alleanza. Di San Giuliano, invece, non avendo fiducia nella solidità della Triplice Intesa, abbandonava la politica di equilibrio, e si sbilanciava versa la Triplice Alleanza. Ruppe la intesa, che Tittoni aveva conchiuso nel 1909 col Governo russo, scosse a fondo le intese, che Prinetti aveva conchiuso con la Francia e con l'Inghilterra nel 1902. Ma non riuscì a rendere produttiva l'alleanza dell'Italia con gli Imperi centrali. E non poteva riuscire, perché quanto più si allontanava dalla Triplice Intesa, tanto più si indeboliva nella Triplice Alleanza. Faceva come chi rinunzia a tutti i propri amici, si chiude da solo a solo in una stanza con l'avversario più forte di lui, ed aspetta che il più forte non abusi della propria forza. Certo, egli non poteva non vedere i pericoli della situazione squilibrata, in cui si avventurava. Ma amava i calcoli complicati e le situazioni ambigue in cui potevano svilupparsi le sue capacità brillanti di improvvisatore superficiale. Sperava che le circostanze lo avrebbero aiutato. Quando il governo di Vienna avesse avuto bisogno dell'aiuto italiano per realizzare le sue ambizioni balcaniche, allora il problema dei compensi sarebbe sorto, e gli amici di Vienna avrebbero consentito ai compromessi necessari: chi avrebbe avuto miglior filo, avrebbe tessuto miglior tela. Con questa politica di giocatore d'azzardo egli incoraggiò i governanti di Berlino e di Vienna a tentare nel 1914 il colpo della guerra. Quando l'ultimatum di Vienna contro la Serbia spalancò la voragine, e l'intervento dell'Inghilterra a fianco della Francia apparve sicuro, allora egli ritornò subito sui suoi passi, e si riafferrò alle intese del 1902, che egli aveva indebolite, ma che per sua fortuna erano ancora vive. Ma il male, che la sua politica equivoca ed instabile poteva produrre, era ormai prodotto, ed era irreparabile. Era profondamente imbevuto di quella "Realpolitik", che gli imperialisti inglesi, i militaristi tedeschi e i nazionalisti francesi avevano teorizzata e messo di moda nell'ultimo decennio del secolo XIX e nel primo decennio di questo secolo. E sognava ad occhi aperti, come avviene sempre a questi "realisti", quando non hanno vero ingegno. Nella sua gioventù aveva assistito alla crisi orientale e al Congresso di Berlino. Cairoli volendo allora giustificare la propria azione, si era vantato di essere uscito dal Congresso "con le mani nette". Siccome Cairoli era uno stupido la "politica delle mani nette" divenne in Italia un detto proverbiale per indicare la politica della stupida ingenuità. Di San Giuliano aveva il terrore delle "mani nette" pur di non tenerle nette, le avrebbe tenute vuote. Era uno spirito più sottile che solido, più inquieto che agile, più torbido che profondo. Aveva male amministrato in gioventù il patrimonio privato: era difficile che amministrasse bene nella vecchiaia gli interessi del suo paese. G. SALVEMINI.
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