IL FALLIMENTO DELLE RIPARAZIONI

    La pace di Versailles, ove la storia insegnasse qualcosa a qualcuno, dovrebbe essere l'ultimo trattato di pace fatto sulla base dello sfruttamento economico del vinto.

    L'interdipendenza economica dei popoli ha ricevuto infatti dal 1919 ad oggi una tale serie ininterrotta di prove ripetute e costanti, da costituire la dimostrazione più irrefutabile delle verità economiche svolte pochissimi anni prima della guerra da Norman Angell nel suo famoso libro "The Great Illusion": libro che col passare del tempo diventa sempre più grande, sí da costituire veramente un vangelo di economia internazionale ad uso dei governanti di popoli.

    Oramai gli errori della pace di Versailles sono penetrati nella coscienza di tutti, grazie ai risultati negativi di essa ed alla critica continua che sui giornali quotidiani si è fatta da parecchi economisti. Essa aveva già subito sei modificazioni prima di entrare in vigore, nell'aprile 1921: ne subì altre sei, prima che, constatata la permanente insolvenza, parziale agli inizi, e poi totale della Germania, la Francia ed il Belgio decidessero, lo scorso gennaio, di occupare il bacino della Ruhr.

    Durante queste continue alternative e trattative quadriennali, la Germania non aveva pagato gran cosa; ma in compenso aveva sconquassato la sua finanza e l'ordine interno dei suoi rapporti fra le varie classi sociali in una forma inaudita sin qui nella storia ed al cui confronto impallidiscono i ricordi degli effetti sociali delle guerre puniche in Roma. La Francia, a sua volta, si era venuta indebitando come non fu mai, né durante la grande Rivoluzione, né dopo la guerra del 1870. E l'Inghilterra si ammalava di quella crisi cronica, che l'ha portata sino al pericolo d'un cambiamento profondo della politica commerciale dell'Impero.





    Nel frattempo, fra un'Europa in pieno disordine, si accentuavano i dissidi fra le tre maggiori Potenze dell'Intesa di fronte al trattato di Versailles: dissidi creati dalla forza delle cose e perduranti contro ogni volontà politica dei governanti, consci dell'importanza di conservare per qualche tempo ancora l'accordo bellico.

    Per l'Inghilterra, difatti, la ripresa di una vita economica normale nell'Europa Centrale presenta un'importanza che supera di gran lunga qualsiasi indennità da riscuotere dalla Germania. Per l'Italia pure le consegne tedesche in conto riparazioni sono troppo piccola cosa, diluite in 32 anni, rispetto all'altro, problema, ben più grave per essa, dei 22 miliardi di lire oro di debiti, contratti specialmente con gli Stati Uniti e con l'Inghilterra, e che ogni anno si aumentano degli interessi, crescenti più rapidamente dell'ammontare delle riparazioni. È per la Francia, al contrario, che l'entità delle riparazioni tedesche rappresenta un problema di importanza veramente vitale. Essa ha già speso oltre 50 miliardi di franchi nella ricostituzione dei dieci Dipartimenti fracassati dal nemico e la cui ricchezza privata uguagliava, se non superava, quella di tutta l'Italia prebellica. Ha un debito vitalizio per le pensioni che, capitalizzato, vale 60 miliardi. E le spese belliche, furono tali che, sommandole ai due precedenti capitoli di spesa, il debito pubblico - anche ove la Germania pagasse tutta la indennità prestabilita - ammonterebbe ancora a circa 330 miliardi, ad otto volte, cioè, l'ammontare di esso al 1914. Ciò dimostra l'errore fondamentale compiuto dall'Inghilterra durante le trattative di pace, col negare alla Francia il patto di sicurezza. Questo diniego non poteva che spingere logicamente la Francia verso la decisione di ottenere dalla Germania tutta l'indennità necessaria; oppure, se non poteva raggiungere la ricchezza, di conquistarsi per altra via la sicurezza.





    Questo sintetico esame della diversa posizione delle tre Potenze di fronte al problema delle indennità spiega come, in fondo, la questione sia venuta trasformandosi essenzialmente in un duello fra i due Stati rimasti più direttamente antagonistici, la Germania e la Francia. Mossa la prima da un unico desiderio preponderante: quello di non pagare niente. Mossa la seconda dalla risoluta volontà di ridurre all'impotenza la rivale e liquidare una volta per sempre la più che secolare vertenza del possesso del Reno.


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    E certamente, ove si considerino sotto tale aspetto gli avvenimenti di questo tanto travagliato, ma interessantissimo periodo veramente degno dell'appellativo di "storico", la linea di condotta della Francia mi sembra degna di ben altra considerazione di quella dei germanofili da dozzina, o del signor Lloyd George; il quale poi oggi dimentica di essere stato uno dei peggiori artefici di Versailles, uno di coloro che contribuirono a raggirare lo Wilson, il ministro che faceva le elezioni inglesi garantendo alle masse che la Germania avrebbe pagato tutti i danni della guerra "fino all'ultimo penny".

    Se io fossi stato un francese, avrei certo votato per l'occupazione della Ruhr: non, come ancora oggi da tanti si affetta di credere, per ciò che poteva rendere direttamente alla Francia, ma bensì per il colpo diretto che doveva vibrare, e ha in effetto vibrato alla Germania. Nella loro logica costituzione di un armonico sistema economico nazionale, i tedeschi avevano fatto della Rurh un pernio essenziale: essa era diventata poi il pernio fondamentale dopo la perdita dell'Alsazia-Lorena, della Saar e dei bacini slesiani. Occupare la Ruhr, significava quindi sconquassare l'intero sistema economico tedesco, far rivivere con maggior energia i sentimenti separatisti della Renania e sopratutto mettere con le spalle al muro i veri, gli unici padroni della Germania del dopo guerra, e cioè i magnati dell'industria pesante.





    La eccezionale svalutazione del marco, aveva posto costoro nella situazione di pompare a proprio favore tutto ciò che di liquido e di mobilizzabile esisteva nella ricchezza privata tedesca. La Francia attese che quest'opera di svuotamento delle tasche tedesche arrivasse al suo perfezionamento e intanto, per non perdere tempo, organizzava la sua flotta aerea in guisa da ammonire, senza parere, ogni velleità londinese: e poi, quando vide le sanguisughe tedesche ben gonfie, le afferrò e le costrinse a venire ad una resa parziale.

    Tanto rude fu il colpo, e così netta per la Germania la percezione che la Francia aveva toccato il punto giusto, che nella resistenza spinse senza contare tutte le sue riserve. Essa é costata, a quanto riconoscono gli stessi tedeschi, tre miliardi di marchi oro in dieci mesi, cioè quanta bastava per pagare sei delle annualità di 500 milioni, pattuite con l'Intesa nello scorso anno. Cifra in ogni modo più che rispettabile per un paese, la cui circolazione cartacea di 93 trilioni di marchi vale oggi 193 milioni di marchi oro.

    Fino a che il gioco dell'emissione cartacea continuava a dare i suoi effetti ben noti, i nuovi plutocrati tedeschi si mantenevano patriotticamente per la resistenza ad oltranza, tanto più che nel frattempo erano in grado più brillantemente che mai di portare avanti i propri affari. Vi é un piccolo libro recentissimo dei signori Wulfsohn e Wernlé, il quale ci offre delle notizie eminentemente istruttive in materia, di cui ho dato la quintessenza sulla "Stampa" del'23 dicembre.





    Ma giunge sempre un punto in cui il sistema di alimentare le spese con emissione a getto continuo di carta-moneta cessa, perché non rende più a nessuno. A questo punto, i prezzi delle merci non solo seguono in guisa immediata, ma precedono la svalutazione monetaria, perché i grossisti, in previsione dei nuovi aumenti, tengono i prodotti in magazzino: e possono adottare questa tattica con tanto maggiore facilità, in quanto che l'abbondanza del medio circolante spinge le banche a largheggiare nei crediti. I salari e gli stipendi a loro volta, giunti al minimo indispensabile per l'esistenza, non possono più comprimersi ed aumentano in esatta proporzione con la svalutazione monetaria e col rincaro della vita. Le materie prime, i combustibili, i semilavorati, ed in genere tutti questi beni complementari a mercato internazionale, vengono man mano a rappresentare una percentuale sempre più ragguardevole del costo complessivo del prodotto: sicché anche per tale motivo il prezzo di quest'ultimo viene ragguagliandosi sempre più da vicino a quello estero a moneta buona, e cessa così una delle cause più efficaci della esportazione. La bilancia dei pagamenti si altera sfavorevolmente, in ragione composta dell'alto costo in moneta cattiva delle importazioni, dello esportazioni decrescenti di merci e di quelle crescenti di capitali. Il risparmio diventa sempre più raro, perché chi non può esportarlo lo consuma in spese improduttive, in acquisti di gioielli, stoffe preziose, quadri, mobili antichi, di tutto ciò insomma, che rappresenta un valore più stabile in moneta buona. Ed infine il fenomeno del livellamento dei prezzi interni a quelli esteri si accelera per la reazione dei coltivatori agricoli, i quali cessano dal portare prodotti nelle città e dal darli in cambio di una moneta a valore rapidamente decrescente.





    Raggiunto così il livello fra i prezzi interni ed esteri, si arresta in tutti i profittatori l'interesse a falsificare ulteriormente la moneta. Si arresta per lo Stato, il quale deve elevare gli stipendi dei suoi funzionari e trova difficoltà estrema a far assorbire dal mercato dei nuovi debiti in carta: mentre quelli antichi gli hanno reso tutto ciò che potevano, essendosi il peso reale degli interessi ridotto praticamente a zero. Cessa pei privati industriali per le cause dette più sopra, ed in forza delle quali non resta più margine a proprio favore fra il costo ed il prezzo dei loro prodotti.


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    Due sono dunque le forze che hanno fatto mutare tattica agli oligarchici tedeschi - e quindi al governo tedesco - di fronte ai problema delle riparazioni. L'impossibilità di continuare ad alimentare la resistenze nella Ruhr con emissioni cartacee, ossia a spese delle classi medie e delle meno abbienti; l'incapacità di sfruttare ulteriormente la svalutazione del marco, al doppio fine di non pagare indennità all'Intesa con le scusa della finanza pubblica rovinata e di allargare le esportazioni tedesche col "valuta-dumping".

    Sicché oggi - dopo cinque anni di lotte e di impoverimenti - ci ritroviamo esattamente al punto di partenza. La Germania si sforza di rimettere in ordine la sua finanza e la moneta, con l'interessante tentativo del marco-rendita, dopo avere pagato una indennità formidabile ai suoi Oligarchi, i quali l'hanno spedita all'estero. L'Intesa riprende a studiare la capacità di pagamento della Germania e si propone di correre dietro ai capitali emigrati - il che é già una bella impresa - per decidere quanto e quando si potrà riprendere il pagamento e la riscossione delle riparazioni.





    Ma ciò che impressiona non é tanto il tempo perduto, quanto il fatto che, dopo tutto questo disastro, la psicologia degli uomini politici dell'Intesa sia rimasta quella del 1919, e cioè che essi si impuntino a pretendere dalla Germania i grossi pagamenti in oro ed in merci. Il che esige: 1° la possibilità da parte della Germania di raggiungere una bilancia di pagamenti largamente favorevole; 2° una produzione tedesca a costi molto bassi, ed in ogni modo inferiori a quelli dei suoi competitori. E ciò a sua volta parrebbe di dover concludere ad una politica della "porta aperta" commerciale, nettamente opposta a quella che attualmente spira e che sino ad oggi ha trionfato negli Stati dell'Europa Continentale e dell'America. Se una difficoltà grande hanno avuto in proposito i governi dell'Intesa, é stata quella di mettere in circolazione le consegne di merci ottenute dalla Germania in conto riparazioni, ove si faccia eccezione del carbone. E sarebbe puerile il sostenere che la Germania deve vendere largamente merci nei paesi neutrali e passare le valute di questi all'Intesa, per tre motivi molto semplici: 1° che anche i paesi neutrali non possono comperare più di quello che vendono ed uno squilibrio improvviso, provocato da subitanee vendite tedesche in largo stile, genererebbe crisi e reazioni; 2° perché tutti noi vendiamo in questi paesi e la concorrenza tedesca, acutizzata, recherebbe gravi disagi alle nostre industrie di esportazione; 3° perché un eccesso di valute straniere a nostra disposizione danneggerebbe il corso dei cambi, reagendo sui prezzi delle merci e sui saggi dello sconto, alterando tutte le bilancie dei pagamenti, e non sempre a nostro favore.

    Io crederei che una via migliore per risolvere il problema potrebbe tentarsi con accordi industriali, sul tipo di quelli che vanno delineandosi nella Ruhr fra industriali francesi, tedeschi e belgi. Ma l'argomento richiede una serie di premesse e di condizioni, prima delle quali sarebbe la cessazione di quello spirito commerciale geloso e nazionalista, che oggi invece impera in tanta parte del mondo. E, finché esso dura, durerà altresì il dilettevole problema delle riparazioni.

ATTILIO CABIATI.