FINANZA E ECONOMIA

    Fra le molte verità - precisatesi meglio nella crisi del tempo nostro - v'è la distinzione di funzioni ed (in parte) di contenuto tra la finanza pubblica e l'economia nazionale.

    La travagliata attualità tedesca ne é il più ampio esperimento.

    I nostri giorni ci opprimono con la grandezza del loro mutevole contenuto. Non é dato, a chi li indaghi, che coglierne per sommario i risultati, lasciando al domani -nostro o di chi seguirà - di svilupparli e di formularne il sistema.

    Si é perciò costretti, per ora, alla sola enunciazione.

    Con l'avvento della civiltà tecnico-industriale, il credito (che é una funzione quanto mai indipendente ed interiore; su cui non premeranno mai coazioni o ordinamenti; che é di sua natura soggettivo e privato; e non obbedisce che al proprio apprezzamento) si é sviluppato in modo da costituire - esso che in sostanza é un'ipotesi - una realtà valutabile in cifre, e produttiva di conseguenze immediate.

    Col credito si colmano le infinite soluzioni di continuità che si verificano fra la produzione moderna (metodica e celere); e il suo collocamento e godimento saltuari ed incostanti.

    La civiltà tecnico-industriale é quindi, per sua natura, una civiltà creditizia.

    Pel suo carattere interiore e discrezionale, il credito e la sua economia non possono - inoltre - essere esclusivamente locali (nazionali); e neppure rigorosamente ufficiali, e cioè basati sulle istituzioni pubbliche. Per sua elezione, invece, il credito é volontario e privato.

    Le Banche - che oggi costituiscono sul mondo una vera autorità, di natura economica; ed il cui intreccio, intrigato ed illimitato, non può essere neppure supposto da chi non le abbia studiate da vicino - sono l'istituzione nuova; prodotta da queste esigenze.

    La loro penetrazione ed efficienza é straordinaria: e conosciuta da una minoranza sparuta. La scienza economica, poi, le conosce appena alla superficie, e secondo idee generali.





    Esse sono riuscite a creare un ordinamento istituzionale vero e proprio: una legislazione non legiferata, che abbraccia tutto il mondo perché é osservata, nella catena delle Banche (la quale non si arresta, in alcun punto del mondo) come una convenzione indubbia e incontestabile.

    È penoso vedere, nella pratica quotidiana, questioni di natura bancaria sottoposte ad autorità pubbliche (legislative, giudiziarie, etc.) che ignorano addirittura il fatto su cui si pronunziano.

    Notiamo questo non per aneddoto, ma come indice di una realtà poco nota e tuttavia presente.

    Le grandi aziende commerciali, a loro volta, prendono atteggiamenti simili. Per esse, l'arbitrato privato si sostituisce sempre più alla lite giudiziale. S'istituiscono vere e proprie Corti. Per esempio: oggi il traffico mondiale dei grani non conosce quasi più altro giudice, che l'arbitrato; e per di più, su di un'unica Piazza, Londra.

    La Banca - e con essa il commercio - tende sempre più a spubblicizzarsi.

    Con un'intuizione grossolana, ma bene orientata, si suole dire che la Banca rappresenta uno Stato negli Stati. Con più precisione, si può dire che essa é il congegno spontaneo, sorto in seno alla società moderna, per assumere talune funzioni che le altre forme di aggregato (tutte di natura pubblica) non potevano svolgere.

    La differenza fra il presente e il passato può riassumersi in questo: che, fino all'avvento della civiltà tecnico-industriale, l'attività e l'economia di Stato contenevano quasi completamente l'economia privata. Questa, in mancanza di una produzione meccanica (con le infinite sue conseguenze economiche) si riduceva ai valori immobiliari, di apprezzamento locale per ragioni di territorio, e reali ed oggettivi per loro natura: ed all'industria e produzione indigena.

    V'era in tal modo una perfetta identità fra la sede dell'economia privata, e l'ambito dello Stato. La Banca di credito mobiliare (despota dei nostri giorni) era ignota, appunto perché non erano nati i fattori economici da cui derivò.





    Esisteva invece la Banca fondiaria: cioè quella che operava, in via parallela, nella sede appunto dell'attività di Stato.

    È qui impossibile discendere al dettaglio. Si può dire, sunteggiando, che si verificava una condizione di coincidenza e sovrapposizione quasi assoluta fra Stato ed economia privata. Supporre questa vitale, e quello sterile o in dissesto, era un assurdo.

    Oggi invece questi rapporti d'intrinsechezza - che, pure affievolendosi, non si spezzeranno comunque mai; almeno in base alla nozione che finora abbiamo delle esigenze umane, ed a meno di non supporre che l'attività dell'uomo possa un giorno concentrarsi soltanto nella attività economica, con la cessazione di ogni esigenza formale, e di ogni bisogno disinteressato e liberale - si sono atteggiati in maniera nuova ed originale.

    Da ciò, qualche conclusione.

    In primo luogo: Quale che sia l'indipendenza istituitasi fra economia di Stato ed economia privata, questa indipendenza è pur sempre relativa. L'una e l'altra formano pur sempre sistema.

    Qualunque giro di ricchezza (per quanto possa oggettivarsi e perdere contatto, nel congegno del credito e delle Banche e nell'internazionalismo del commercio, coi fenomeni nazionali) deve pur sempre ritornare e riqualificarsi in essi; non fosse altro che per la necessità, comune a tutti gli uomini, di avere una cittadinanza ed una sede stabile.

    Neppure i semiti, ospitati da questa o da quella patria, possono sfuggire alle conseguenze riflesse della residenza, dell'organizzazione statale che vi é istituita, e della sua struttura economica. E, pur con delle radicali riserve nello spirito; finiscono col praticare la cittadinanza in tutti i suoi aspetti contingenti, e ne subiscono l'influenza anche economica.

    E quei pochi fra loro che, per ricchezza e potenza, possono astrarsene, lo fanno pur sempre secondo grandi linee e direttive generali che superano materialmente il confine e il limite di patria (es.: l'internazionalismo prevalentemente ebreo, della grande banca e della grande industria).





    Lo Stato dunque continuerà sempre - come continua - ad essere il punto di riferimento dell'attività economica dei cittadini.

    Inoltre e in ogni caso, esso - da un puro punto di vista economico - é un gestore di ricchezze in nome proprio; un'azienda (e, non di rado, la più vasta della sua sede); l'assuntore di lavoro, distributore di consumi, gestore di capitali con l'apposizione dei tributi e con l'amministrazione dei debiti pubblici, etc. Il suo dissesto é - per valore suo proprio, e indipendentemente da conseguenze di carattere pubblico - una malattia economica per sé stante.

    Ma la finanza pubblica non é affatto la sola premessa sufficiente per creare una florida economia privata.

    Onde i due fenomeni possono o divergere, o addirittura contrastare ed eliminarsi.

    Non vigendo fra l'uno e l'altro gli antichi rapporti di sovrapposizione e di reciprocità, il mutuo loro legame non può ormai essere che quello dell'utilità, È certo una utilità più complessa, più alta del semplice interesse, e vi concorrono valori d'indole superiore. Ma resta una utilità.

    È quindi un enorme rischio considerare i due fenomeni come equivalenti o mutualmente indispensabili. È ormai verità comune che una spietata finanza può equilibrare lo Stato (s'intende, per un periodo transitorio: perché in tal caso, e a danno finale dello Stato, i rilievi fatti sopra valgono capovolti): ma può isterilire l'industria.

    E - inoltre - é possibile ormai che sorga un conflitto tra Stato ed economia privata. E non più solo un conflitto d'interessi, statico e debilitante: ma un conflitto attivo, che arrivi a crisi politiche e sociali.

    È il caso presente della Germania. In quella Nazione, un'economia capacissima, basata sul sistema produttivo più evoluto d'Europa, é entrata in conflitto con la finanza di Stato, ed anzi con lo Stato: non potendo o non volendo (il che, da un punto di vista economico, si equivale) seguirlo nella liquidazione degli oneri di guerra.





    La produzione tedesca - sempre notevolissima - é andata collocandosi all'estero contro pagamento in valuta estera. È stata così abbandonata ogni difesa della valuta nazionale: ed il prodotto dell'esportazione (collocato ad uso fuori patria) ha permesso ai grandi capitalisti di acquistare cointeressenza nelle grandi aziende di mezza Europa: mentre il popolo soffre e rovina.

    È il fenomeno più originale e mostruoso dei nostri giorni. A spiegarlo, concorre quanto sopra abbiamo accennato. Oggi, col congegno bancario e con lo chèque, può esistere una circolazione del tutto diversa da quella dei paesi ove risiedono gl'interessati. Si può produrre in Italia (per formulare un esempio) della merce da spedirsi e consumarsi in America; e farsela pagare con chèque in Sterline su Londra. E transazioni commerciali di tal fatta sono oggi facilissime e comuni.

    Alla fine, e pur con questo giro di chèques, tutto va a convergere e ad influire sulle singole valute nazionali; ma con ondata posteriore e riflessa, che rallenta i rapporti immediati fra il produttore e la comunità nazionale in cui vive, aumenta le tendenze egoistiche e l'astrazione dall'utilità generale; attutisce il senso del rischio collettivo e delle responsabilità economiche. Ma questo é un altro aspetto della questione; che non sposta la realtà dei fatti, né muta il profilo del fenomeno, per ora almeno.

    A conclusione di questo grossolano schema, gioverà notare quanto scarso valore avessero i cosidetti tentativi per la stabilizzazione delle valute (che ebbero tanta fortuna teorica, al tempo della Conferenza di Genova); i quali basavano tutti su accorgimenti formali. Fin poco fa si é avuto perfino l'ardimento dottrinario di consigliare e d'invocare la stabilizzazione del marco: E non ci si é accorti che - pel sorgere di un dissidio insanabile fra economia produttiva e finanza pubblica - s'era creata in Germania una di quelle situazioni irresolubili per via d'abilità e di metodo; perché investono la creazione stessa dei valori. Crisi di civiltà, e non di tecnica.

MARIO GRIECO.