LA VITA INTERNAZIONALE

La crisi tedesca

    La crisi tedesca consiste in una irriducibile perdita di contatto prodottasi fra lo Stato (ch'è il denominatore esteriore della nazione, e sul quale quindi gravano gli oneri e gl'impegni derivati dalla guerra) e gli elementi produttivi della nazione stessa. Questi ultimi - che costituivano il sistema economico più imponente d'Europa, e rappresentavano, sul nostro continente, l'ultima parola dell'organizzazione, della tecnica e del metodo - si sono trovati, a guerra finita, con questa abilità produttiva del tutto inalterata. Non bisogna infatti dimenticare che la Germania non é stata vinta, nel senso più lato della parola; perché vincere una nazione, oggi (in un periodo di tecnicismo e di paragoni produttivi) significa colpirla e minorarla direttamente della sua organizzazione creatrice, e nella sua struttura economica. A rigore, oggi vale più la conquista di una officina che di una città. Ecco una verità che pare non sia stata neppure supposta, nel corso della guerra e nei provvedimenti per la pace.

    Cessate le ostilità, i tedeschi trovarono la casa in ordine, e ripresero il loro lavoro con una lena disperata, nel pieno possesso del loro sistema di produzione. E (in un primo tempo) si illusero che gli oneri, loro imposti a Versailles, sarebbero stati temperati. Difesero pertanto il marco, e chi é pratico della vita del commercio e dei traffici, sa che per lungo tempo essi imposero come valuta di scambio dei loro prodotti, la loro valuta nazionale, e fatturarono soltanto in marchi la produzione da esportare.





    Poi - col persistere delle esigenze dei vincitori, e sotto la particolare coazione della Francia - si produsse quel fenomeno nuovo, mostruoso, che soltanto chi ha consuetudine con la tecnica della moderna finanza, può pienamente vedere. La grande industria (seguita più tardi da chiunque avesse una qualche disponibilità ed una qualunque iniziativa economica) abbandonò completamente la divisa nazionale. Vendette all'estero in valuta estera, e cioè cercò alla propria capacità di produzione, rimasta inalterata, una denominazione finanziaria imparziale, sulle piazze estere. Contrattò quindi con chèque su New-York o su Londra o su Amsterdam. Lo sviluppo a cui é giunto l'uso della divisa straniera, a mezzo del congegno bancario e dello chèque, rese facile questa iniziativa. Depositò poi all'estero il prodotto dell'esportazione, ed acquistò perfino delle posizioni di monopolio in paesi stranieri, servendosi del capitale ivi accumulato con questo sistema di espatrio e (per così dire) di proiezione, fuori della sede d'origine, del suo intatto e poderoso potere produttivo. Si ebbe così, al vertice di un tal fenomeno, il fenomeno Stinnes: questo antistato creatosi nello Stato, e più tardi dilagano all'estero, in una rete di compartecipazioni finanziarie che abbraccia mezza Europa: È insomma, una vera e propria originalità economica, e la parola più impreveduta e paurosa della civiltà tecnico-industriale. La crisi del marco non fu, quindi la solita crisi di svalutazione economica, sintomo di una malattia produttiva. Fu invece una crisi di astensione economica.

    I cedi medi - e, ancor peggio, il ceto operaio - non hanno potuto giovarsi, almeno finora, di questo salvataggio sui generis, se salvataggio può chiamarsi e possa restare, in ultima analisi. Si é creato quindi un disordine sociale e politico assurdo, in Germania, che a sua volta é assolutamente nuovo ed il popolo tedesco ne é radicalmente ammalato, a partire dall'ordine sociale, a finire alla stessa unità politica.

    Ecco la prima e più profonda verità che bisogna fissare oggi, quando si parla della crisi tedesca. Oggi in Germania (assai più che contro la Francia) si grida, ed é noto, contro il marxismo; volendo concentrare, in questa dicitura dimostrativa e simbolica, un malanno che l'affigge dalle radici: ch'è crisi di razza, e che sta al di qua e assai più a fondo della crisi delle riparazioni.

MARIO GRIECO.




Il particolarismo bavarese

     Von Kahr é l'uomo del particolarismo bavarese. Nato da una vecchia famiglia di Franconia, consacrata, di generazione in generazigne, al servizio dei Wittelsbach, egli sente la devozione alla casa regale bavarese come una tradizione di famiglia, con cui non si discute e non si transige. Von Kahr era un funzionario, senza nessun passato politico, quando assunse, durante il putsch di Kapp, la presidenza del Consiglio dei ministri bavarese. Egli sostituì allora il socialdemocratico Hoffmann: la socialdemocrazia passò alla opposizione. Questo accadeva il 17 maggio 1920. Quattro mesi più tardi, anche il democratico ministro della Giustizia, Müller, di Meiningen, fu cacciato dal ministero: anche la democrazia passò all'opposizione. Von Kahr spingeva risolutamente verso destra. Dovette ritirarsi dal governo, quando la Francia impose il disarmo delle guardie civiche bavaresi: si ritirò dicendo pubblicamente, in una festa di tiratori a Chiemese, che in Baviera restavano ad ogni buon conto, molti fucili di più di quanti ne venivano consegnati. I ministri Von Lerchenfeld e Von Knilling furono comparse: Von Kahr, in qualità di presidente del Kreis (prefetto) dell'Alta Baviera, continuò a governare di fatto, in nome dei Wittelsbach: faceva fornire fucili, istruttori, fogli di via alle leghe armate di Hitler. Sotto il Ministero Von Lerchenfeld s'impegnò la battaglia al Landtag, cioè al parlamento bavarese, per modificare la costituzione, in modo da creare il posto di Staatspräsident, presidente dello stato bavarese, che adesso manca. Si capisce, che Staatspräsident avrebbe dovuto essere Von Kahr. Siccome la modifica alla costituzione fu osteggiata dal governo di Berlino, si trovò l'espediente di nominare Von Kahr Commissario Generale di Stato per la sicurezza interna della Baviera. Da allora - cioè dal settembre scorso - Von Kahr è il dittatore della Baviera, il padrone del governo, il fiduciario dichiarato della monarchia.





    La sua dittatura ha tutti i caratteri del regime paternalistico e poliziesco. La sua bestia nera é il marxismo. "Contro il marxismo" é la parola d'ordine, che egli ripete sempre, nei manifesti, negli appelli, nelle interviste. Non dice: "contro la socialdemocrazia", oppure "contro le organizzazioni sindacali" oppure "contro il partito comunista", che sarebbero tutti obiettivi più o meno ragionevoli, e sopratutto forze ben circoscritte e definite, contro cui si può impegnare battaglia davvero, una volta constatata l'esistenza. No: "contro il marxismo": siamo nel vago, nel fluttuante. Il marxismo é una filosofia, e contro i sistemi filosofici é difficile che i Commissari generali di stato possano agire efficacemente. Ma Von Kahr non si spaventa neppure dei sistemi filosofici. A sentire un suo discorso, pare che il marxismo sia una specie di infezione, di malattia delle ossa, di tabe, che roda a poco a poco la midolla del popolo tedesco, ed abbia già cominciato ad intaccare quella del popolo bavarese: una carie che bisogna raschiare, che sopratutto si può raschiare via, fino a farla svanire dalla memoria degli uomini. Ma poi, analizzando bene cosa Von Kahr intende per "marxismo" si scopre che é un calderone, in cui egli getta tutto quanto é odioso al suo cuore di vecchio bavarese particolarista: la costituzione di Weimar é "marxistica" perché abolì la regia bavarese delle ferrovie: il governo di Berlino é "marxista", anche se non c'è dentro neppure un socialista, perché vuol percepire direttamente le tasse anche in Baviera: i berlinesi sono infetti di "marxismo", perché abitano una metropoli con la ferrovia sotterranea, mentre Monaco si contenta dei tram: la Prussia é "marxista", perché ha cercato di schiacciare le prerogative maiestatiche dello Stato bavarese: il ministro degli approvvigionamenti del Reich é "marxista", perché pretenderebbe accordare lui la licenza di esportazione delle patate dalla Baviera: sono "marxisti" tutti i sindacati operai, che strangolano la piccola industria: sono "marxisti" gli ebrei, perché speculano in borsa e fanno parte della internazionale semita: sono "marxisti" i forestieri, perché fanno rialzare i prezzi. Non escludo che, in fondo in fondo, Von Kahr non trovi un po' impeciato di "marxismo" il principe di Bismarck, perché colla fondazione dell'Impero tolse alla Baviera il diritto di averi degli ambasciatori all'estero, e gli Hohenzollern, perché per il passato diedero qualche dispiacere ai Wittelsbach.





    Egli é l'uomo della piccola borghesia delle città e dei proprietari contadini dell'Oberland, cioè delle "terre alte". Questi due ceti furono ben felici nell'aureo secolo decimonono, quando uno storico scriveva che Monaco é una "città famosa per ballare, per bere della birra bavarese e per essere ospitale verso gli stranieri"; quando i principi di Wittelsbach andavano attorno nel costume alpigiano nelle villeggiature di Berchtesgaden e di Tegernsee, e il barbone bianco del principe reggente Leopoldo era un ornamento di Monaco come i "kifferin" ed i "Müchner Kindl". La piccola borghesia delle città e i proprietari dell'Oberland rivogliono quei tempi perduti, svaniti; hanno trovato un uomo, Von Kahr, che sa dare formole alla loro speranza, parole di ordine alla loro impazienza: che promette loro di rimettere la Baviera al posto d'onore nel Reich, ed essi al posto d'onore della Baviera: si capisce che son tutti con lui, antimarxisti convinti, di quel vago antimarxismo che si é veduto.

    Il particolarismo bavarese, appoggiato sulle tradizioni di una monarchia secolare, sui rimpianti di due ceti fortissimi, su un uomo di idee ristrette ma di un carattere fermo come Von Kahr ha così suscitato le più grandi speranze di tutti i partiti reazionari del Reich. Se ne é voluto fare il perno per la grande rivincita contro la socialdemocrazia, contro il 4 novembre. La base per la conquista del Reich. Ma Von Kahr e i ceti particolaristi bavaresi non vogliono conquistare nulla: nemmeno il Tirolo: la piccola Baviera Wittelsbacchiana é più che sufficiente. Essi non vogliono conquistare il Reich, in cui gli alti forni lampeggiano nella notte, e i cui porti succhiano tutti gli oceani della terra. I proprietari delle "Terre Alte" hanno piuttosto paura dei compatrioti di Amburgo e di Berlino, propenderebbero per dichiararli addirittura marxisti. Bianco-celeste rimane bianco-celeste.

GIOVANNI ANSALDO.




Notizia sui partiti Inglesi
(alla vigilia delle elezioni)

    Nella Camera dei Comuni i conservatori (attualmente al governo) rappresentano la vecchia classe possidente che ha ereditato terre, capitali e posizione sociale.

    Sono i rappresentanti delle famiglie che, durante gli ultimi 150 anni, si son fatta una riputazione come Governatori di colonie dell'Impero delle Indie, grandi magistrati civili, banchieri, mercanti od avvocati. Quasi tutte queste famiglie han fatto la loro fortuna tra il 1780 e il 1880.

    I liberali che sostengono Lloyd George sono poco numerosi: 58 soltanto: Il loro capo ha giocato in questi ultimi tempi al gioco dell'attesa. La decadenza di Lloyd George però é tutt'altro che definitiva: essa va connessa con le vicende dei gruppi economici che lo sostenevano. E bisogna ricordare che il Governo di Lloyd George contava nei suoi quadri ed aveva come appoggio alla Camera una quantità di personaggi che, pur non essendo uomini di Stato, avevano almeno una personalità. Essi avevano fatto qualcosa nell'industria, nelle finanze, nella legislazione o nella politica.

    Così non si può dire dei seguaci di Baldwin. Anzi é probabile che mai, dopo la conquista del potere da parte della borghesia, nel 1832, la Camera dei Comuni abbia contenuto un si gran numero di mediocrità come la maggioranza, attuale.

    I liberali che appoggiano Asquith son circa 60. Essi han guadagnato il più capace parlamentare, l'avvocato più in voga per i suoi successi, Sir John Simon. Essi hanno anche riguadagnati due maestri in materia di ostruzionismo parlamentare, gli avvocati radicali scozzesi Hoggs e Pringh. È facilmente dimostrabile che poca distanza separa i liberali di Asquith dai piccoli borghesi che dominano nel Labour Party.

    Ci resta da esaminare l'opposizione ufficiale, il Labour Party. Esso conta 142 membri ed ha al suo fianco due ausiliari che votano di solito con lui: il proibizionista Serymgcour che ha battuto Churchill a Dundee, ed il rappresentante del Partito Comunista.





    La composizione del Partito operaio é delle più interessanti, per non dire divertenti. Esso é dominato dall'Indipendent Labour Party, e dagli intellettuali piccolo borghesi, alcuni dei quali son membri della società Fabiana.

    Quasi tutti i capi dell'Unione del Controllo democratico sono alla Camera come membri del L. P. Molti di essi un tempo erano liberali. Essi sono attualmente gli amici intimi e le guide spirituali di Mac Romld, Snowden, Valhead e Jowett. Tutti, ad eccezione di Morel, resultano sinceri convertiti al socialismo di Vienna. In un gruppo dell'I. L. P. dei distretti dell'Ovest dell'Yorkshire c'è un grande amico della Russia soviettista, Reuturner.

    Viene in seguito il gruppo scozzese dell'I. L. P., che conta 17 membri. È la guardia del corpo di Mac Donald. Esso si compone principalmente di maestri di scuola, giornalisti, piccoli commercianti ed un paio di operai, crome il marxista Muir ed il sentimentale Davide Kirwood. Essi sono dei rappresentanti estremisti del socialismo dell'I. L. P. ed in maggioranza buoni lottatori. I migliori sono senza dubbio Shinwell, Maxton e Georgs Hardie.

    L'agglomerato che forma il partito Operaio contiene molte capacità, iniziative individuali e coraggio, ma esso ha avuto fin'oggi ben poca disciplina.

    Le distinzioni politiche sono ben nette: i partiti non si fondano soltanto su dissensi di persone. È bastato l'inizio della lotta elettorale per far riprendere pubbliche discussioni sui problemi essenziali della vita nazionale.

    Il regime parlamentare in Inghilterra prova le sue attitudini alla persistenza. Le masse lo sentono perché trovano modo di parteciparvi con la loro volontà di controllo. Una lotta elettorale impostata sul problema del protezionismo non si potrebbe neanche pensare fuori di una nazione che ha espresso la sua maturità politica in uomini di stile come Asquith.

ICS.