PENSIERI DI G. FORTUNATO

I. - Il problema dell'unità e della libertà.

    Se l'unità della grande patria italiana, il maggior avvenimento politico del secolo decimonono, "parve miracolo e resterà una favola"; perché piuttosto che il frutto della energia nazionale fu una mirabile improvvisazione, sorretta solo dalla forza di una idea; se essa, come tutti ci auguriamo, é chiamata ad atteggiare la penisola, fino a ieri ignota a sé medesima, in una nuova sembianza di vita, la quale valga a cancellare le disparità storiche, gli antagonismi regionali, i dissidi politici, le rivalità economiche, le varietà etnografiche, ossia, tutte le cause della millenaria impotenza nostra: la questione che ancora ci, sovrasta, il problema che ancora ci resta da risolvere sotto pena di essere fatalmente respinti nella tragica fortuna del passato, é sempre quello della stessa unità.

(Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano. 1 5-6).

    La rivoluzione italiana fu essenzialmente, esclusivamente politica, conseguenza integrale di un avvenimento storico, non effetto di una trasformazione delle energie morali del diritto pubblico e privato, delle credenze, delle norme stesse della vita quotidiana. Di qui la ragion prima di tutte le nostre incertezze, forse anche di tutti i nostri traviamenti, non appena l'esercizio della libertà nel pensiero e nella azione, é venuto e viene alle prese col vecchio concetto e con la vecchia pratica dell'autorità. Noi siamo autoritari nelle ossa; e per eredità, per educazione, per costumi, siamo indotti o a troppo comandare o a troppo obbedire. Ad essere sinceramente con la libertà, a volerla intera e sempre per tutti come per sé stessi, devota e ossequente alle leggi, riguardosa, gelosa financo: a volerla educatrice e moralizzatrice, premio non castigo di Dio, a noi insegna soltanto, quando insegna, la scuola, il libro, magari la imitazione straniera; non mai, assolutamente non mai l'intimo, profondo convincimento dell'animo.

(Ibid. I, 398).




II. - Debolezza e ambiguità della pubblica opinione.

    La vita pubblica, fra noi, scade per difetto di correnti spontanee e sincere, non per mancanza di uomini politici, che quelle correnti sappiano rappresentare con intelletto d'amore, con nobiltà di carattere, con autorità, con perseveranza. Il male é nella pochezza di quella somma di ideali, di credenze e di sentimenti, che si chiama ed é la coscienza nazionale.

(Ibid. I, 400).

    Siamo parlamentarmente deboli, perché manca tra noi l'elemento integrante d'ogni buon governo libero: la pubblica opinione, la vera, non quella dei giornali, non quella de' caffè e de' circoli, meno di conversazione, che di giuoco e di mormorazione... Perché tra noi la vita politica, priva di ogni solida e larga corrente di pubblica opinione, é organata come l'antica nostra vita letteraria: sul fondamento delle accademie.

(lbid. II, 174).

III. - Antinazionalismo protestante.

    Un paese non può essere né glorioso né grande se ancora é misero e incivile; e non é certo col pascere i nostri orgogli né con l'accrescere le nostre illusioni che daremo mai, al mondo moderno, il concetto di un popolo degnamente risorto dalle ceneri. L'Italia ufficiale é ammalata della peggiore delle malattie politiche: la mancanza di sincerità.

(Ibid. II, 217).

    So bene tutto quello che, non i più, ma i più clamorosi, i più romantici fra noi, gli apostoli di un verbo novello, il nazionalismo, che pare non debba esser più sinonimo di patriottismo, rispondono: "Come appartarci dal mondo? saremmo forse tornati a nascere, noi, gli eredi di Venezia, de' Comuni e della Rinascenza, per rappresentare la parte che oggi rappresentano la Spagna e la Grecia"? Ahimè, se non vogliamo in eterno rassomigliare alla Spagna e alla Grecia, se non vogliamo restare in eterno il paese - per eccellenza - degli spostati, noi dobbiamo, il più presto possibile, fare appunto quanto esse non hanno voluto mai fare: risorgere, nello spirito e nel corpo, liberi da ogni esagerazione, da ogni sterile immaginazione del passato.

(Ibid. II, 225).




IV. - Il problema della miseria.

    Di fronte a noi non vi ha paese ove le classi popolari sopportino maggiori oneri, e ove il sistema di tassazione recida il salario dell'operaio più che il provento del capitalista e del proprietario: ché il nostro bilancio é costituito in modo, dall'ingranaggio dell'amministrazione e dai metodi di accertamento, che i pesi maggiori sono a carico dei più piccoli e i maggiori benefizi a vantaggio dei più grandi, così che i potenti possono sfuggire facilmente a certi aggravi cui, difficilmente é dato ai deboli di potere sottrarsi.

(Ibid. I, 278).

    (A proposito della crisi bancaria). Io non ho mai partecipato alle querimonie di coloro, che han creduto e credono a una decadenza occasionale della fortuna del paese; per me non é stato e non é questione se non di un ritorno benefico allo stato normale, povero e lento, di tutta quanta la vita economica italiana; veramente benefico se é valso e varrà a distogliere le menti dalla immagine di una ricchezza che non abbiamo, o meglio, di una progressione di ricchezza che non raggiungeremo mai.

(Ibid. I, 388).

    Siamo poveri; e non volere accorgersene, sognando un'Italia ricca di forzieri e libera disponitrice di denaro é colpa... Abbiamo avuto, politicamente, troppa fiducia nei nostri entusiasmi, che non significavano né volontà né esperienza; abbiamo troppo intaccato il debole patrimonio delle nostre energie produttive: e la forza di resistenza non è stata pari alla forza delle illusioni. Abbiamo, sopratutto, voluto progredir troppo in poco tempo, imitar troppo dagli altri in quello che non ancora rispondeva al nostro sviluppo storico e sociale, adottare un grado di civiltà di molto superiore ai nostri mezzi, - noi che abbiamo tanta esuberanza di popolazione in tanta scarsità di ricchezza.

(Ibid. II, 116, 118).

    L'Italia deve avere un fine proprio, e non cosmopolita, direi quasi una propria idea fissa; questa: che non metteva conto diventare una grande nazione per esser sempre la vecchia Italia, povera, irrequieta, corrotta; la vecchia Italia analfabeta e' pitocca, assai facile a spargere sangue umano, che non basti economicamente a sé stessa, e rimanga nella più crassa ignoranza delle plebi, e sia tuttavia elemento di disordine, invano sforzandosi a raggiungere le maggiori potenze dell'Europa, - quando ancora non é se non di poco superiore alle due altre penisole del Mediterraneo.

(Ibid. II, 479).