GIUSTINO FORTUNATO
Giustino Fortunato dev'essere anzitutto un signore: a quel modo che possono esserci dei signori anche da noi, in Italia. Gentiluomo di provincia, e padron di terre con cura di anime. La chiarezza istruttiva ed ornata dei suoi discorsi, anche di materia finanziaria o in altro modo tecnico, mi piace. Come il suo stile largo, riposato e fiorito, e le sue citazioni oraziane. Vorrei poter vedere da vicino le domestiche sedi e il pubblico famigliare delle Società Operaie di Melfi, di Venosa, di Palazzo S. Gervasio, e dei comuni di Lavello e di Muro Lucano, ove egli si recava a parlare, per poter degnamente raffigurare, intorno alla sua figura, l'ambiente paesano e casalingo. Tra i politicanti dei suo tempo, per quanto fatto segno d'onori, visse appartato e solitario: "profeta di sciagure", per forza di cose, e sebbene "costantemente lontano dalle ire di parte", costretto troppo spesso ad "andar contro corrente". La politica, considerò in fondo sempre, e non a torto, sfogo di passioni, nonchè brutali morbose e torbide, stolte e vane. Onde chi vi partecipa deve, per riscattare la sua innocenza, proporsi un compito di sincerità spietata, di calmo e attento giudizio, di rigorosa onestà. Nell'onestà privata anzi egli vide "la difesa più stabile dell'onestà politica". Né l'integrità morale gli parve qualità di poco conto, e insomma non necessaria, a coloro che in qualunque modo partecipano al governo della cosa pubblica. E non contento d'offrire egli stesso un esempio di saldo carattere e di condotta diritta e serena, volle anche studiare e riconoscere le cause delle nostre più profonde miserie, convinto fin da' primi anni "che l'Italia, dopo secoli di abiezione e di schiavitù, era moralmente fradicia ed economicamente povera, molto più povera di quello che anche ora crediamo, e, per giunta, niente affatto omogenea". Cotesta naturale povertà e pochezza morale, si compiacque di porre quante più volte gli fu possibile, sotto gli occhi dei suoi concittadini e compatrioti, deciso di tutto posporre all'"esatta minuta percezione del vero", e preoccupato della necessità d'aver coscienza della "suprema dolorosa verità delle cose". Insomma, vivendoci dentro nel modo più corretto dignitoso ed esemplare, egli ebbe campo di conoscere a fondo tutta la miseria e l'inutilità della vita pubblica. E certamente anche suo, e maturato da lui, dopo essersi nuovamente ritratto, fuor delle cure parlamentari, nella solitudine napoletana, deve essere quel convincimento, che egli attribuisce al fratello, da lui onorato con affetto così alto e commosso: "rinascita civile ed elevamento morale essere termini inseparabili, e tutto il resto ciarla, non che vana, dannosa". Spirito di predicatore, e quasi d'apostolo, c'è infatti in questo "pessimista": in questo "provveditore d'inquietudini", come lo chiamarono per dileggio. Perché a molti, quel suo tono di pedagogo, e quelle nozioni fredde e tristi offerte con monotona (se pur commossa) insistenza, dovevan riuscire senza dubbio noiose, terribilmente noiose. Lui che ci aveva sempre negli occhi le terre bruciate dalla malaria e dal sole, e la landa desolata e nuda dell'Ofanto, si sgolava a descrivere, e ragionare le difficili condizioni naturali di mezza Italia - la povertà del suolo, l'inclemenza del cielo, la mancanza d'acque sorgive, la cieca lotta contro le argille avvelenate - e anche, penetrando più addentro, osservava che "la terra meridionale, più che sterile, é esaurita, dacché per secoli la nostra economia agraria si é fondata su lo sfruttamento, meno del suolo che del coltivatore, e la produzione fu ed é dovuta più all'opera del lavoro che al contributo del capitale". Da queste premesse taceva discendere tutte le sue conclusioni. Perché, una volta dimostrata la precaria situazione economica (e morale) d'Italia, diventava naturale per lui chiedere una politica di sincerità e di raccoglimento, aliena da ogni fasto e vanagloria: convinto che "il problema agricolo di tanta parte d'Italia, quello di passare dalla cultura estensiva alla cultura intensiva, è un problema puramente agronomico: il che vuol dire, più chiaramente, un problema di capitali a buon mercato", - non poteva non invocare una politica finanziaria cauta e senza illusioni, un governo democratico preoccupato di moderar saggiamente e comporre le aspre differenze sociali, somministrando pace e giustizia, quindi un limite alle spese militari, e una condotta all'estero prudente e parca di grandezza e grandiosità. Questa l'idea fissa di Fortunato: predicare agli italiani la coscienza e il problema della loro miseria. Senonchè, essendo partito per la sua missione con un discreto bagaglio di entusiasmi e di speranze, gli accadde di doverli lasciare ad uso ad uno per via, riempiendo invece la sua bisaccia di nuovi timori e sospetti. Che se dapprima, come a tutti gli uomini della sua generazione l'unità politica conquistata quasi per caso gli parve dovesse diventare il principio d'una nuova era più prospera e fortunata, giunse più tardi a convincersi, con l'esperienza degli uomini e lo studio delle cose, che proprio un'unità effettiva e sostanziale era tutt'altro che raggiunta - e quello appunto era il problema che si doveva risolvere, superando ostacoli forse insormontabili. Alle condizioni naturali-storiche e geografiche della penisola, che egli conosceva e descriveva con così stoica, disperata ed arcigna esattezza, e a correggere i modi della politica nostrana, egli volle applicare le forme di quelle dottrine forestiere - liberali e democratiche - che gli erano care. Così difese in ogni istante e proclamò la necessità di confermare e rafforzare il sacro patrimonio delle istituzioni monarchiche e parlamentari, anziché abbatterlo, come troppe volte altri avrebbe voluto, cedendo alla sfiducia d'un momento e alla naturale "apatia cinica e demolitrice del volgo". Perché in questo ordinamento formale, quanto più esso é lontano e forse contrario alle nostre consuetudini secolari, egli vedeva il più efficace - se non l'unico - sistema di educazione progressiva, per un popolo come l'italiano, nel fondo autoritario, e uso per eredità e per costumi "o a troppo comandare o a troppo obbedire". Contro l'antica partizione della Camera -Destra e Sinistra - predicò un più logico e sostanzioso ordinamento dei partiti: la necessità che essi "abbiano, una buona volta, distinzioni vere e profonde, teorie non saltuarie né eventuali, contrasto di idee non opposizione di uomini... Bisogna che la Destra diventi realmente un partito conservatore, libero dall'empirismo del suo passato, e la Sinistra, scartando tutto ciò che é vieta reminiscenza scolastica, si ricomponga tutta, con tendenze positive, in partito democratico; l'una e l'altra inspirate da nobili sistemi più che da gonfi programmi di Governo". Egli appartenne a un ideal partito di Sinistra, o progressista - come allora si diceva - sostenendo fin dal 1880 il "concetto moderno di uno Stato democratico: dello Stato, cioè, in cui la partecipazione dei cittadini a' diritti garantiti dallo Statuto sia larga ed effettiva, e in cui gli interessi delle varie classi siano, il più che possibile, in equi rapporti fra loro e rivolti al maggior utile dell'universale". Poiché "un regime di libertà, nel mondo moderno, non é assolutamente compatibile se non col benessere delle moltitudini", compito precipuo dello Stato democratico doveva essere l'assicurare ai molti pace, libertà e giustizia, diminuendo il distacco, così grande da noi, tra le classi dirigenti e il popolo. "Conciliare l'Italia con gli italiani". E' d'uopo riconoscere francamente che questi suoi principi democratici non rassomigliarono mai alle teorie moderne d'origine tedesca e calvinista. Anche per lui (come per Albertini, per Einaudi, e qualcun altro degli ottimati, dei signori italiani) il pensiero di creare in Italia grandi partiti di masse e dar luogo a una piena e integrale lotta di classe e politica, non gli parve cosa seria. E il suo ideale rimase sempre quello d'un'onesta pedagogia. Si preoccupava anzi del fatto che gli Italiani volessero "progredire troppo in poco tempo, imitar troppo dagli altri in quello che non ancora rispondeva al nostro sviluppo storico". E di recente, interrogato a proposito della proporzionale rispose che, anche questa volta, si era voluto correr troppo, al solito. Insomma ebbe in qualche modo coscienza del fatto che, in Italia, anche la dottrina democratica, diventa una predica, con frutti lenti e quasi insensibili: e miglior consiglio gli parve quello di andar avanti adagio e con juicio. Sperò dapprima in un'opera di saggia moderazione ed educazione governativa: "uno stato così forte di autorità e di mezzi da condurre esso tutto il popolo italiano su le vie della cultura, della morale, della pubblica ricchezza". Più tardi s'avvide d'aver sognato, e si convinse ch'era "vana impresa concepire una qualsiasi grande opera fuori o al di sopra delle libere energie individuali", lasciando al Governo il compito di "rendere giustizia a tutti, e instaurare il regno della sicurezza personale". Errerebbe, tuttavia chi interpretasse quelle parole - libere energie individuali - altrimenti che così: sforzi singoli e sporadici di educazione politica e morale compiuti da ciascuno nel suo paese, tra la sua gente, per uno scopo comune che si raggiungerà, forse, in un tempo lontano. Invero una delle sue ultime parole in pubblico, lasciando il Parlamento nel 1909, fu questa: "Educhiamo l'uomo, tutti gli uomini della terra che ci vide nascere e ci nutrisce, - schiavi se non più del peccato, della materia, - e confidiamo nell'avvenire". Se a taluno, per avventura, l'opera sembri troppo lunga e difficile, o magari astratta, e la speranza d'un risultato futuro irrisoria; - gli confesseremo che, anche noi, dopo aver esplorato e studiato a lungo tutte le strade, non abbiam poi saputo trovare un più saldo e sincero cammino. NATALINO SAPEGNO.
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