NOVIZIATO DI LIBERTÀ

    Il liberalismo politico enuncia o sottintende, come una delle sue idee fondamentali, il convincimento che la competizione delle opinioni, il contrasto degli interessi, la collisione degli opposti ideali pubblici sono destinati a produrre, in seno al consorzio degli associati, la più grande somma di affetti utili, storicamente possibili: perché dal conflitto dei principi e dei gruppi in contesa emergono i valori migliori e, inoltre, perché gli stessi valori, già in possesso della supremazia, si affinano, si perfezionano nel quotidiano attrito a cui vengono sottoposti. Stuart Mill ed Humboldt hanno scritto sull'argomento delle pagine definitive. In essi non é difficile riscontrare una ripercussione fedele di quei principi che, nello stesso giro di tempo, andavano esponendo i classici del liberalismo economico; e non sarebbe quindi ingiustificato sollevare contro il liberalismo politico la stessa obiezione di eccessivo ottimismo che, nei rapporti dell'economia, ha sempre colpito i liberisti assoluti. Tale ottimismo é, a suo modo, anch'esso una forma di utopismo non diversa dalle molte, che sono venute su dal crogiolo della grande rivoluzione, che ha realizzato in breve tempo tutta la esperienza della libertà e tutta la esperienza dell'autorità; conviene però ammettere che non vi é forma più elastica, mobile e indeterminata di utopismo di quella contemplata dal liberalismo. A differenza p. es. di tutte le utopie socialiste, che hanno in comune la caratteristica di precedere e di anticipare dei rapporti di morfologia sociale fissi, vuoti e inattuabili, la concezione liberistica si risolve nella visione d'una agitazione incessante e di un continuo moto, che formano, deformano, riformano senza posa gli aspetti della vita sociale. Con perfetta ragione Marx qualificava i diversi socialismi utopistici, che fiorirono prima di lui, come utopie reazionarie; e, per la opposta ragione si può dire che, se nel liberalismo vi sono elementi di artificiale e azzardata costruzione del futuro, esso può essere descritto come un utopismo rivoluzionario.





    Il parallelismo e la mescolanza della nozione di liberalismo con quella di lotta politica é, in ogni modo, indiscutibile, e questo rende ragione del come l'insorgere o il risorgere di tutte le idee collegate al concetto di libertà sia, dal più al meno, contemporaneo ai periodi di intenso sommovimento politico e sociale, e, anzi, si identifichi col movimento stesso. In questo senso, puramente formale, del liberalismo non può negarsi che il dopo guerra italiano, appunto perché fu ed é tuttora un periodo di intensissima inquietudine civile, ossia, di decomposizione e di ricomposizione di coscienze politiche, é od é stato un periodo per eccellenza liberale. Essendo il dominio politico, ossia la classe dirigente, ossia l'insieme degli individui di spiriti già emancipati e non più governati - qui é poi tutta la libertà - appartenente a quelle correnti, che si richiamavano per antonomasia al liberalismo, si è determinata una situazione paradossale: che le nuove masse, che si mettevano in moto e che perciò erano liberali per modo di essere, si muovevano contro i liberali tradizionali e fermi, cioè contro i liberali per modo di dire. Ma, nonostante questo apparente assurdo, la realtà é che il risveglio e il ringiovanimento della politica italiana coincide con una sua progressiva realizzazione di libertà. Missiroli ha scritto che ormai i soli liberali italiani non sono né Salandra, né Giolitti, né Orlando ma Turati e i suoi; Rivoluzione Liberate, alla sua volta, vede il demone liberale spuntare anche di sotto alla sottana di don Sturzo e parla del partito popolare come di una specie di iniziale Riforma malgré soi. Sono nel vero, con un grano di sale, tutti due; e, accettato questo modo di giudicare e valutare i fenomeni politici e i partiti, bisogna conchiudere che anche il movimento fascista, in quanto è movimento e innovazione e non in quanto é Governo e autorità, ebbe in sé delle possibilità liberali indefinite.





    Questa constatazione, ovvia come é, di un movimento, come quello fascista, che é liberale nel suo sviluppo e poi sbocca in un Governo illiberale, serve molto bene a indicare una cautela necessaria nell'impiego della parola "liberalismo". L'interpretazione puramente formale e meccanica della parola, secondo cui il principio del liberalismo é, come dice Humboldt, "l'importanza essenziale e assoluta dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità", é praticamente inconcludente e tecnicamente contradditoria: poiché essa può risolversi nel lasciar il passo anche a quelle forze politiche che, in quanto sono un aspetto della diversità, sono liberalismo in atto, ma, in quanto sono indirizzate a conseguire un obiettivo loro proprio, sono invece, per forza di cose, antiliberali. Si può, anzi, sul terreno dell'azione politica , tenere per fermo questo: che, quanto più un movimento é forte, e non contiene in sé della libertà sprigionata, tanto più esso ha la tendenza a comportarsi in modo che altre libertà di altri gruppi o di altri interessi non possano entrare in circolazione: o, in altri termini, che esso é tanto più illiberale riguardo altrui quanto più rappresenta, esso stesso, una grossa massa di liberalismo in azione. E, quindi, la questione che, sia, per la teoria che per la pratica, si impone é doppia: di suscitare dei nuclei d'energie, delle correnti e degli orientamenti di spirito i quali siano liberali; ed é anche quella che lo siano nel senso superiore e sostanziale - che sapranno, sí, dischiudere liberamente il varco ad ogni altra forza e ad ogni altro orientamento della coscienza pubblica, ma anche precluderlo recisamente a chiunque adottasse metodi o programmi antiliberali.

    Quella nuova "classe dirigente", che Rivoluzione Liberale vorrebbe educare non può essere inspirata che a questo principio. Esso non é però solo un criterio per comprendere tutte le forze politiche in gioco, ma é uno stimolo per operare attivamente in mezzo ad esse. E, per conseguenza, la prima e principale difficoltà che una nuova classe dirigente liberale dovrà superare sarà quella di serbare, verso tutte le forze sociali che man mano entreranno in lizza, quella indifferenza quasi sovrumana, che il liberalismo vero e proprio ha in sé e, nello stesso tempo, aver le indispensabili radici in alcune classi e in alcuni strati di interessi della società, che nella nuova formula, intendano, liberalmente, di difendersi.





    Alla necessità di questa doppia condizione ci si potrebbe, a rigore di logica, sottrarre in una sola ipotesi: che le condizioni generali della società italiana in tutti i suoi aspetti, ma, particolarmente, sotto l'aspetto dello sviluppo economico, della prosperità , della distribuzione della ricchezza, ecc. ecc. fossero tali da consentire una visione ottimistica, fidente e speranzosa dell'avvenire. In tale caso la pratica liberale, qualunque poi siano i ceti e i gruppi che direttamente la conducono, sarebbe fatta senza nessun pericolo, senza l'ombra di rischio; e non insorgerebbero, perciò, quelle crisi di coscienze, - fra la dottrina professata e gli interessi da difendere - di cui da, p. es., prova da cinque anni ad oggi il partito liberale propriamente detto. Ma tale crisi é, viceversa, insorta, é così vivace da determinare, di fatto, la dissoluzione di ogni gruppo liberale che non sia una semplice mascheratura ; ed é, quindi, assurdo proporsi, nelle stesse circostanze, la soluzione di un problema che, proprio in quelle stesse circostanze, é già stato risolto. In realtà la soluzione liberale, rigorosamente e intransigentemente liberale, delle situazioni politiche é una soluzione di lusso, di gran lusso, e noi, per esempio, non avremmo forse potuto applicarla mai all'infuori di quel dodicennio di prosperità - 1902-1914 - che pure in effetti sperimentò, sí, un governo apertamente democratico, ma non già un regime decisamente liberale. Il ravvicinamento tante volte fatto tra liberalismo politico e liberalismo economico trova qui una nuova assoluta conferma. Tanto l'uno quanto l'altro si sviluppano e si affermano energicamente quando l'incremento della produzione é tale che non esiste, si può dire, nessun problema, cioè, nessuna disputa, di gruppi e di classi circa alla distribuzione; oppure quando la immaturità di alcune classi come consumatrici (basso terrore di vita, esclusione dalla vita politica, ecc. ecc.) rende inesistente ogni conflitto per la distribuzione stessa. Ma tanto l'uno quanto l'altro si arrestano, degenerano e scompaiono non appena, o per la diminuita prosperità della produzione o per la cresciuta avidità delle diverse classi nell'impossessarsi del prodotto, anche lo Stato - ultima riserva della collettività povera - viene utilizzato come produttore, come distributore e come ridistributore di ricchezza: perché, in tal caso, lo Stato, pur avendo una denominazione politica copre in realtà una sostanza immediatamente e trasparentemente economica.





    È difficile sapere in quale senso (che non sia quello dell'ironia) qualcuno ha voluto riscontrare nel fascismo l'epigono del classico, e alquanto mitologico, liberalismo italiano. Bisogna però riconoscere che, dalla costituzione del Regno in giù, non si era mai presentato un movimento che, per la sua origine singolarissima, artificiosa e in un certo senso extrasociale (i residui d'una società militare introdotti di colpo nel governo della società civile) potesse più facilmente dar corpo alla formula d'uno Stato sovrastante a tutti i governati, imparziale di fronte a tutti, e, perciò, liberale. Infatti anche il fascismo ha avuto il suo quarto d'ora liberista. Allora si poteva vedere la vecchia "politica dei produttori", residuo sindacalista, piegato a nuovi evidenti significati conservatori, ma pur non deflettente dal concetto di uno Stato deterso d'ogni incrostazione economica, ricondotto nei limiti della pura e semplice tutela giuridica, assolutamente egualitaria. Non mancò in quell'attimo, attimo fuggente, di accentuare le proprie simpatie programmatiche al fascismo il Corriere della Sera, che é pertinace e nobilissimo nel tentativo di traghettare nell'Italia povera e nuova le pratiche politico-economiche dell'Inghilterra che é ricca e antica; ma il bel sogno non durò che pochi giorni; e, diventato Governo, il fascismo si mise subito a cancellare le tradizionali orme della nostra politica riformistica, che é la politica, minorenne ma indispensabile, della nostra gracilità economica. Essendo poi il fascismo appoggiato sulle forze e sugli interessi delle classi abbienti, il suo tradimento liberale, ossia il suo riformismo, acquistò rapidamente in tutti i campi l'andatura di una politica a favore di ristretti gruppi, esponenti d'una minoranza censuaria e, per quel che l'Italia può dare, plutocratica. Inoltre, spinto dall'intima contraddizione che vi é fra l'esercizio dei diritti politici moderni formalmente egualitari e democratici e l'esercizio dell'attività economica sostanzialmente dislivellatrice e aristocratica, esso é stato condotto a una limitazione progressiva, dichiarata o no poco importa, delle pubbliche libertà.

    Ma le condizioni generali di disagio dell'economia produttrice - per ragioni internazionali, sopratutto - e di dissesto della finanza pubblica - anche qui per le ragioni della conseguente politica degli armamenti - perdurano, e resta immutata la necessità di far funzionare lo Stato come un organo strettamente mescolato ai processi della produzione e della ripartizione della ricchezza; e perciò continuano a essere prescritte le condizioni a cui sono legate le fortune d'una qualsiasi ripresa liberale.





    In primo luogo si dovrà avere la coscienza chiara, determinata, volitiva, nuovissima nella nostra storia politica, che la libertà é un bene etico-civile invulnerabile e che é, immediatamente o mediatamente, la via migliore per lo sviluppo del paese; ed é qui che la Rivoluzione Liberale svolge un compito rilevantissimo. In secondo luogo la circostanza, obiettivamente accertabile, che la situazione delle classi e dei gruppi, che si fanno assertori di libertà sia tale, dal punto di vista della percezione dei loro diversi redditi, che non sia possibile che, tra la loro personalità economica e la loro personalità politica, possano insorgere troppo gravi e duraturi conflitti. Però, da questo punto di vista, il panorama della vita politica, é di uno squallore evidente. Vano sarebbe, e anche inutile dirlo, fare un assegnamento qualsiasi su tutti i tronconi, più o meno abilmente incollati insieme, del partito liberale: questo non ha più neanche un'oncia di quel vecchio spirito liberale, che fu proprio del resto di qualche magno spirito e mai dei liberali politicamente militanti; e non ha neanche una diretta rappresentanza degli interessi organizzati della nuova borghesia. Tutti i partiti democratici hanno perduto ogni contatto sia con l'idealità repubblicana che con quella anticlericale, che é poi, se é sul serio, il repubblicanesimo interiore; e sono una formazione vaga, informe, incoerente, essenzialmente parlamentare, cioè parlamentaristica per definizione, in cui vi é, più ancora che non nei liberali, la prova della nostra ostinata immaturità civile. Né i socialisti si presentano in condizioni migliori. Una volta liquidato il tentativo sindacalista, vi fu un raggio di risveglio proletario eccitato da un po' di letteratura d'importazione e poi subito spentosi, e una volta che il "rivoluzionarismo intransigente" ebbe trovato il suo assetto stabile e, in un certo senso, conservatore, il socialismo è diventato un semplice corporativismo più o meno lato, con punti di interferenza e cioè di soggezione, palesi con lo Stato.





     Labriola pensa diversamente: egli ritiene infatti che, dal più al meno, tutte quelle classi che si sogliono chiamare "borghesi" siano ormai definitivamente negate ad ogni intelligenza e ad ogni propensione verso le nozioni di libertà; e che in conseguenza tutto il peso d'una rinascita liberale gravi sulle spalle delle classi operaie, eredi, a un secolo di distanza, dei programmi, che le borghesie agitavano cento anni fa. Ma si può opporre che la classe operaia non soltanto avrebbe la possibilità, ma avrebbe , in certo modo, la necessità, di essere la portavoce della libertà (non per sé sola, naturalmente, ma per tutti) solo quando avesse una piena, totale coscienza di classe. Se essa fosse matura classisticamente sarebbe anche, nello stesso istante, matura nazionalmente, sarebbe già penetrata e si sarebbe già compenetrata della cultura storica del paese. Al contrario l'attuale crisi degli strati operai non é altro, invece, che la crisi della loro arretratezza nel processo vertiginoso di autonomismo nazionale che percorre tutta l' Europa e oltre, e, quindi, essa deve tradursi in altrettanta incapacità a intendere e proclamare i principi integrali di un rinnovato liberalismo. Questo in sostanza, non può mai essere la richiesta di una classe vinta, ma l'affermazione, sicura di sé, di una classe vittoriosa.

    Evidentemente il socialismo italiano non é stato mai tanto vicino a capire e attuare poggiando sulla propria forza, dei principi di libertà, come nel periodo della illusoria ma vigorosa ventata massimalista.

    Le riaffermazioni di libertà, dottrinalmente genuine, economicamente fondate e politicamente vitali, che sono, senza dubbio il compito politico di domani, saranno dunque prodotto di formazioni e di riformazioni politiche totalmente nuove.

N. MASSIMO FOVEL.