L'ESPERIMENTO RUSSOAlla mia previsione di un ritorno dell'economia russa verso il capitalismo, il Barbagallo obiettava, nella "Nuova Rivista storica", che anzi nella nuova economia predomina la forma più anticapitalistica: il socialismo di Stato. La sua osservazione certamente intendeva fondarsi sopra tre punti essenziali: il capitalismo di Stato, la funzione attribuita alle cooperative, il monopolio del commercio estero. E questi tre punti quindi è necessario discutere rapidamente per vedere, oltre le illusorie apparenze del momento, la realtà prepotente delle tendenze in via di sviluppo. Il capitalismo di StatoIl capitalismo di Stato sembra la forma dominante della nuova economia, a chi si fermi al decreto 7 luglio 1921, che consente l'appalto a privati delle sole imprese che impieghino non più di 20 persone, o alle statistiche della relazione Kameneff al X Congresso dei Sovieti, secondo le quali nelle imprese di Stato sono impiegati 3 milioni di operai e nell'industria privata soli 70 mila. Ma bisogna guardare in fondo alla tendenza che domina sia il rapporto reciproco di questi due ordini di aziende, sia la trasformazione interiore progrediente nel capitalismo statale. Un'istruzione del 19 luglio 1921 stabiliva la cessione in appalto ai privati delle imprese, la cui attività era sospesa o ridotta o poteva aumentare con l'iniziativa privata; ma altra istruzione del 6 aprile 1922 prescrive che tutte le imprese devono essere appaltate, ad eccezione solo di quelle che lo Stato può sfruttare commercialmente o deve per ragioni superiori tenere sotto il suo controllo. Così che le proporzioni reciproche sono destinate a variare. Al Congresso della III Internazionale, nel novembre 1922, Trotzki alla domanda: in quali rapporti sta il capitalismo di fronte al nostro così detto capitalismo statale? - rispondeva: negli stabilimenti industriali, come uno sta a 18; nel commercio le proporzioni sono più sfavorevoli;(come 30 a 70%), compensate, si, dal monopolio del commercio estero; ma "il capitale privato ha per sé il vantaggio di essere spalleggiato dal capitale mondiale". Se non che non sta in questo soltanto la forza espansiva del capitale privato; ma più nella crescente consapevolezza, che si afferma nei dirigenti comunisti, della sua maggior capacità ricostruttiva entro le condizioni presenti. Fin dal 1921 Rikoff, in una relazione pubblicata nel n. 109 dell'Economic Zisn, dichiarava: "il fine principale è di risolvere a qualsiasi costo e al più presto la crisi delle merci. Se una fabbrica può produrre in mano di un privato, mentre in mano nostra è improduttiva, sarebbe un delitto non darla al proprietario privato... Il vantaggio - immenso - della politica di concessioni e libero scambio sta nel costringere ogni impresa economica a fare uno sforzo per vincere in lotta aperta e leale". E in una delle sue corrispondenze russe dell'aprile 1922 V. Ottina (Stampa, 3 maggio) metteva in rilievo il progredire crescente della tendenza a introdurre il capitale privato ovunque, come un tocca sana, una volta accettato il principio dell'iniziativa privata, che vuol essere applicato (secondo il titolo di un articolo della Pravda), sul serio e durevolmente. E l'Avanti! riferiva, il 31 maggio 1922, un articolo di Ustrialoff sulla Econom. Zisn che affermava la necessità di concessioni crescenti: "il capitalismo di Stato in Russia é agonizzante. Noi nutriamo abbastanza fiducia nella politica di Lenin, per poter affermare che egli già da un pezzo ha tratto le logiche conseguenze dalla insostenibilità del capitalismo di Stato". Non meno decisamente Preobrascenski, nella Pravda del 22 febbraio 1923:"Il capitale privato nell'industria è migliore, più adatto alla concorrenza che noi. Esso riesce e si fortifica nel commercio e nell'industria a causa della nostra incapacità". Di questa incapacità davano impressionanti prove al X Congresso dei Sovieti Kameneff e Bogadoff, richiamandosi ai risultati di inchieste sull'eccesso dei costi negativi, l'esuberanza del personale burocratico improduttivo, l'incompetenza dei dirigenti, l'incapacità a procacciarsi o utilizzare materie prime e combustibili, l'improduttività degli operai, la mancanza di rapporti definiti fra l'industria produttrice e lo Stato come cliente, la difficoltà dello smercio e della distribuzione, ecc. "Migliori risultati (riassume il Pagliari) per ammissione degli stessi organi ufficiali, sono stati conseguiti invece finora dalla nuova politica economica nella piccola industria che trova più facile lo smercio dei suoi prodotti, e può pagare ai propri operai salari superiori a quelli della grande industria e quasi pari, e talora persino superiori, a quelli dell'anteguerra, così come nella ripresa del commercio al minuto i privati sono relativamente in vantaggio sulle Cooperative". Si verifica quanto accadeva prima del riconoscimento delle aziende private: le imprese statali riuscivano a procurarsi le materie prime anche in pieno regime di produzione e distribuzione esclusivamente di Stato, solo mercé il ricorso a quelle organizzazioni private extralegali, che uno scrittore comunista chiamava il sottosuolo capitalista; ma non riuscivano poi alla proficua utilizzazione delle materie stesse per la produzione e la distribuzione. Quindi, per le necessità impellenti della ricostruzione economica, da una parte si allarga via via la sfera della cessione delle aziende ai privati; dall'altra le aziende di Stato subiscono una trasformazione interiore, documentata dal decreto del 10 aprile 1923: Sulle imprese industriali di Stato gestite su basi commerciali (trusts), che non solo devono essere esercitate con gestione autonoma su basi commerciali al fine del profitto, ma possano anche quando il capitale privato sia ritenuto essenziale al successo dell'impresa, convertirsi da trust di Stato in Società anonima mista. Il decreto segna la tendenza e l'aspirazione del Governo dei Sovieti: il quale, attribuendo al capitale privato la funzione di stimolatore dell'iniziativa, ed esigendo che le sue stesse aziende non mirino affatto al fine comunista della distribuzione sociale per i bisogni sociali, ma a quello commerciale del profitto, riconosce di essere in pieno dominio della merce, e vuole anzi intensificare la potenza direttiva della vita economica. Ora ciò non significa nulla più e nulla meno che tendere (consapevolmente o no, e traverso vari esperimenti e riluttanze) alla forma tipica dell'economia a merci, che è precisamente la capitalistica. Il capitale privato, specialmente straniero, rifugge generalmente dal sottoporsi ai vincoli ed impacci di forme ibride come le anonime miste nelle quali i trusts di Stato tenderebbero, per parte loro, a trasformarsi con più rapido ritmo; e con questa sua diffidenza e renitenza forzerà il Governo dei Sovieti a ulteriori passi, per superare la crisi perdurante. Tanto più che l'industria di Stato, non riuscendo (per incapacità dei dirigenti, cattiva organizzazione ed eccessivo peso di burocrazia ingombrante) a superare il deficit persistente, e non sapendo trovare altro espediente che la depressione dei salari, affatto inadeguati alla sussistenza dei lavoratori, è minacciata di progressiva dissoluzione per la scomparsa degli operai, sopra tutto specializzati, cui la piccola industria privata riesce invece a dare retribuzioni sufficienti, uguali o anche superiori a quelle dell'anteguerra. E così per via della tendenza cui lo Stato é progressivamente sospinto, e della forza e capacità superiore del capitale privato, e della pressione degli operai o del trapasso loro all'industria privata, si cammina verso "un capitalismo, che si crea da sé le proprie leggi", secondo la previsione che alla Pravda balenava sin dall'inizio della nuova politica economica. La cooperazioneLa cooperazione, per altro, dovrebb'essere, nelle intenzioni del Governo dei Sovieti, e in particolare di Lenin, il correttivo della nuova politica economica, che rappresenta "una concessione al contadino, al mercante di grano, al principio della libertà commerciale". Ora questo precisamente pone, secondo Lenin, la premessa della cooperazione." Essendo in mano della classe lavoratrice il potere dello Stato, padrone di tutti i mezzi di produzione, il solo compito che ci resti ad attuare è di organizzare la popolazione sulla base della cooperazione. Se spingeremo questa organizzazione al massimo, realizzeremo eo ipso il socialismo". È evidente per altro la contradizione di questo ragionamento. Se il potere dello Stato, essendo nelle mani della classe lavoratrice, fosse realmente padrone dei mezzi di produzione, non avrebbe bisogno di organizzare faticosamente e lentamente l'educazione dei singoli produttori alla cooperazione. Ne ha bisogno, in quanto si trova di fronte a un atomismo di produttori (i contadini, e, in parte, gli artigiani), in possesso individuale dei mezzi di produzione. Ed ecco la necessità di un difficile compito educativo, che Lenin definisce "una vera rivoluzione di cultura" dei contadini; unica via per "realizzare l'unione fra il proletariato e i milioni di piccoli contadini". Ma Lenin confessa che simile rivoluzione culturale rappresenta un compito di incredibile difficoltà, perché la cultura "esige un certo sviluppo dei mezzi di produzione, una base materiale" che oggi manca. E la sua dichiarazione acquista una gravità singolare alla luce della relazione di Lunaciarski, al X Congresso dei Sovieti, sull'impressionante regresso della cultura in tutta la Russia, sulla rovina e dissoluzione delle scuole urbane e rurali "per le terribili condizioni di vita, cui sono ridotti insegnanti e allievi", sul generale dilagare dell'analfabetismo e della impreparazione e incapacità professionale fra gli operai e della superstizione e barbarie nelle campagne, conseguenti precisamente alla nuova politica economica, che ha riconosciuto necessario abbandonare il principio dell'istruzione gratuita, introducendo le tasse scolastiche e lasciando al contadini il carico del mantenimento diretto delle scuole. Attribuire pertanto alla cooperazione il compito di creare la base materiale di sviluppo produttivo, considerata indispensabile presupposto della cultura, la quale è dichiarata a sua volta necessaria a preparare l'adesione dei contadini al principio cooperativistico, significa assegnarle l'ufficio di fornire la condizione necessaria alla stessa premessa della propria possibilità di attuazione. Il vizio logico del ragionamento è evidente; e lo scioglimento di simile nodo gordiano per mezzo di quel processo di continuo (ma lento) sviluppo, che Marx chiamava della praxis che si rovescia, sarebbe opera dei secoli, non del paio di decenni di cui parla Lenin. In realtà Lenin vorrebbe, con realismo più materialistico, sviluppare la cooperazione col darle "una quantità di privilegi economici, finanziari e bancari", "vantaggi di carattere materiale e sussidi di Stato superiori alle sovvenzioni che si danno alle imprese private". Così, confida Lenin, i contadini vi saranno attratti; ma egli non si pone il problema: il designato salvatore, che comincia con l'essere parassita dell'economia nazionale, come convertirà la sua funzione di parassita in quella di Salvatore? e i mezzi per sussidiarlo onde li trarrà lo Stato, le cui aziende restan già al disotto delle private e in condizioni di passività? La inferiorità dello Stato a questo compito, di serra d'incubazione del cooperativismo, s'aggraverebbe con lo stesso diffondersi della cooperazione. Esso non può contare quindi che sulla concessione dei privilegi, la quale tuttavia può operare nel senso di distogliere il tanto invocato capitale privato - messo in condizioni di inferiorità - dall'attività ricostruttrice dell'economia russa, o di spingerlo ad assumere la maschera della cooperazione per fruire dei privilegi concessile. E questa seconda eventualità si verifica in larga misura. La cooperazione di consumo (col Centrosoyus) e quella agricola (col Selskosoyus), han certo assunto un notevole sviluppo in Russia. Ma lo stesso Wise, che in un importante articolo in The Labour Magazine (aprile 1923) attribuisce alla cooperazione una funzione preminente nella futura ricostruzione del commercio interno ed estero della Russia e nella educazione politica ed economica del popolo, non nascondeva, tra le difficoltà contro le quali essa deve lottare, la concorrenza del commercio privato, che fa sensibili progressi, la diffidenza dei contadini, e la falsa cooperazione - non essendo le cooperative di produzione per gran parte altro che "pseudo-cooperative, costituite da piccoli capitalisti, che si mettono insieme sotto questa maschera, per godere dei vantaggi e dei privilegi accordati dallo Stato alle Cooperative". Questo fenomeno di un capitalismo in formazione, mascherantesi sotto l'apparenza protettrice di istituzioni operaie favorite dalle leggi vigenti, si era cominciato a produrre già prima della instaurazione della nuova politica economica. E della sua diffusione sin d'allora si era allarmato Tomski, presidente della Confederazione russa del lavoro, il quale, nel suo studio su La struttura organica dei Sindacati, si preoccupava dello spirito capitalistico animante le Comuni (artele) di lavoro degli artigiani (Kustari). Sia per la infiltrazione di commercianti e piccoli fabbricanti rovinati dalla rivoluzione, sia per le tendenze spontanee degli stessi Kustari, osservava il Tomski, queste artele mirano a conservare la sostanza dell'economia capitalistica, cioè la libera concorrenza, e persino lo sfruttamento dell'operaio salariato. "Essendo rappresentanti della piccola economia e del mestiere già sorpassati, questi elementi sono penetrati da una ideologia conservatrice della produzione individualista, e, in forza del numero loro, possono disorganizzare completamente le fila del proletariato economicamente organizzato". Ma la tendenza capitalistica si rivelava già all'osservazione del Tomski in un momento ulteriore del suo processo di sviluppo negli artigiani isolati (dal vetturale al dentista, dall'imbianchino o dal farmacista al sarto, etc): la caratteristica loro - notava il Tomski - è "l'indipendenza nel campo economico, la libera concorrenza come l'unico regolatore dei guadagni, la possibilità e la tendenza ad estendere l'impresa; in fine, tutto ciò che si esprime col detto popolare padrone di se stesso". Ora da padrone di se stesso l'imprenditore, che allarga la sua azienda, diventa anche padrone di altri. E il fatto si avverava anche prima della nuova politica economica: di fronte ai laboratori e alle officine "che lavoravano in piena libertà come in regime capitalista", il governo comunista cominciava con l'ammetterli ufficialmente quando non impiegassero più di 10 operai se con mezzi meccanici e non più di 20 se senza mezzi meccanici; ma (osservava già il Bianchi parecchi mesi prima della proclamazione della nuova politica economica) "le necessità del momento fanno chiudere un occhio anche su queste limitazioni di personale; e dove sorse il bisogno, e dove l'attività dell'individuo fu più pronta, queste organizzazioni presero maggiore estensione". Ed ecco un cammino analogo a questo (ben noto alla storia) dall'artigianato libero al libero capitalismo industriale, profilarsi ora per le cooperative, cui è consentito un parziale impiego di salariati e concessa l'esenzione del controllo della ispezione operaia e contadina: il cammino dalla cooperativa alla società per azioni, da padrona di se stessa a padrona di altri. E tanto più, naturalmente, per le pseudo-cooperative di piccoli capitalisti. Naturalmente lo spirito di questa cooperazione non può essere che la mira del vantaggio privato, senza connessione o preoccupazione di interesse generale. Ma c'è di più. L'Economiceskaia Zisn al principio del marzo 1922 (Rosta del 5 marzo e Avanti! 7 marzo), faceva questi rilievi di indiscutibile gravità: "La libertà del commercio, da noi proclamata, fu finora disciplinata da una serie di decreti che avevano lo scopo di salvaguardare i diritti ed i privilegi dei consorzi cooperativi nel campo dell'attività commerciale. Noi supponevamo che i consorzi cooperativi sarebbero riusciti ad assicurarsi una influenza direttiva sul mercato. Ma il diritto concesso alle aziende statali di realizzare una parte della loro produzione, e lo sviluppo preso dal sistema delle concessioni in appalto, hanno lanciato sul mercato una quantità di prodotti che non possono essere tenuti entro il limite del commercio cooperativo. Il commercio privato quindi, causa una certa debolezza di singole organizzazioni cooperative, s'è talmente sviluppato, che non solo le Cooperative non padroneggiano più il mercato, ma esse stesse ricorrono all'opera di privati". "E il 31 maggio 1923 lo stesso giornale dichiarava che il commercio privato è ancora molto più importante di quello delle Società cooperative (in 16 provincie oltre 63 mila imprese private contro meno di 3 mila cooperative), e che il commercio dei prodotti agricoli è tutto nelle mani di commissionari privati, contro i quali la cooperativa agricola non può lottare. Non senza ragione, dunque, Kalinin, il nuovo presidente della Repubblica dei Sovieti, nell'Isvestia del 24 maggio 1923, rilevando l'ostilità profonda dei contadini a tutto ciò che sa di comunismo, rimproverava ai comunisti di non conoscer la campagna e di non capire il contadino. Ma anche se volessimo supporre che - in vista dei privilegi accordati alla cooperazione nel commercio estero (col diritto di aver propri organi commerciali all'estero e diritti preferenziali nel mercato del cuoio e delle pelliccie, ecc.) e nella produzione (con esenzione dal controllo della ispezione operaia e contadina alle loro imprese, nella quali è pur ammesso un parziale impiego di salariati) - i contadini in più larga misura ne costituissero e mettessero in azione, resterà sempre il fatto che, stimolate per via dell'interesse e del privilegio, queste cooperative non saranno cellule del socialismo, come Lenin s'illudeva, ma organismi commerciali e capitalistici, volti alla conquista del profitto. L'organismo su basi commerciali, che è il cardine, su cui ogni attività economica oggi si vuole imperniata in Russia dagli stessi dirigenti comunisti, non è che riconoscimento del regno della economia a merci, come solo compatibile, con la presente fase di sviluppo storico. E il principio commerciale è il cuneo introdotto e sospinto nelle fenditure della legislazione comunista: che non può se non allargarle progressivamente. L'iniziativa privata e il capitale privato e l'interesse personale, cui lo Stato si aggrappa come a tavole di salvezza, non operano se non allargando via via le maglie dalla propria libertà: in un tempo più o meno lungo, con stenti maggiori o minori a seconda delle circostanze e dell'azione del potere politico, le forze produttive borghesi in via di sviluppo riescono a crearsi il regime più consono ai loro bisogni e alle esigenze generali del momento storico. Il monopolio del commercio esteroIl monopolio del commercio estero è anch'esso un campo nel quale questo processo vien già delineandosi in un modo tipico. In teoria la gestione esclusiva degli scambi con l'estero non era che uno degli aspetti, in cui si esercitava la funzione dello Stato comunista, di unico regolatore della produzione e distribuzione sociale per i bisogni sociali. Ma quando le masse contadine si sottraggono invincibilmente a simile dominio, la finalità del monopolio del commercio estero diventa quella di cui parlava Boris Steinin nell'Econom. Zisn dell'8 dicembre 1921, ossia "la necessità di creare una forma di sfruttamento delle energie economiche da parte dello Stato, che permetta: 1° la creazione di un sopravalore notevole, di cui lo Stato possa pienamente disporre, e 2° la creazione intorno allo Stato, a mezzo del lavoro di iniziativa piccolo borghese, di un ambiente che possa offrire allo Stato il modo di ricavare delle entrate sussidiarie". Ma già lo Steinin osservava che la nuova politica economica, con produttori e consumatoti indipendenti dallo Stato all'interno, non consentiva la completa nazionalizzazione del commercio estero; ed esigeva invece un "sistema di permessi per generi di merci", in cui lo Stato "si limiti ad essere un semplice regolatore del commercio estero". E questo compito di semplice regolatore, che è quello stesso esercitato (in misura variabile a seconda delle circostanze) da tutti gli Stati capitalistici con la politica doganale, è solo rimasto al Commissariato del commercio estero in Russia. Krassin in ripetute dichiarazioni della primavera 1922 a Mosca e a Genova, e in un articolo dell'Isvestia del 13 marzo 1922 spiegava come il monopolio mirasse ad arginare la cupidigia dei capitalisti stranieri. L'esempio dell'Austria ammoniva che in un paese che è esaurito dalla fame, la cui vita economica è sfasciata, il cui denaro ha quasi completamente perduto la forza d'acquisto, non può tentare l'apertura delle frontiere; "il libero commercio significherebbe la svendita della Russia e il saccheggio di quanto resta della ricchezza dello Stato. Nelle attuali condizioni la Russia non è in grado di introdurre un sistema di imposte doganali rapido e sicuro... Per ciò tutto il commercio estero deve passare attraverso il filtro del Commissariato". E Bogadoff, presidente del Consiglio dell'Econ. Nazionale, confermava nel maggio1923: "se noi dichiarassimo libero il commercio estero, saremmo invasi da gioielli falsi, da latte condensato, da leccornie, da vasellame a buon mercato e da ogni genere di merci inutili al contadino russo. La nostra industria è incapace di lottare contro la concorrenza estera, anche se la proteggessimo con tariffe doganali elevate sino a 4 volte il valore dell'oggetto sul mercato estero di provenienza. Le stesse considerazioni si possono applicare all'industria pesante: la menoma concorrenza estera sarebbe fatale; quindi nessuna libertà di commercio". Tuttavia le difficoltà di stabilire un sistema doganale non hanno tolto che una tariffa doganale sia stata introdotta fin dalla primavera del 1922, sia pure col le cautele dichiarate da Krassin a Genova: "una stabilità delle tariffe, per quanto ammissibile in massima non è di fatto applicabile nei paesi ad economia disorganizzata. Le tariffe debbono essere modificate secondo le mutazioni dei cambi e le necessità di protezione dell'industria nazionale". Ora questa introduzione di un sistema di protezione doganale e la stessa funzione di semplice regolatore o filtro attribuita al Commissariato del commercio estero, son state possibili e apparse necessarie solo in quanto il monopolio di Stato fu abolito coi decreti 13 marzo e 16 ottobre 1922, concedenti a privati ed imprese private di contrarre affari riguardanti importazioni ed esportazione di merci, sebbene col vincolo di sottoporre al Commissariato i contratti per le ricerche. Nel gennaio 1922 Krestinski aveva fatto presentare a Londra l'"assicurazione che al più tardi alla fine di giugno cesserebbe il monopolio del commercio estero". E nel gennaio 1922 già la Pravda annunciava la costituzione della "prima società russa di importazione col esportazione" (un'anonima mista per azioni, assegnate in parte al Commissariato e in parte al capitale privato indigeno e straniero). E alle Cooperative era concesso il diritto di tenere proprie rappresentanze commerciali all'estero, per negoziare direttamente acquieti e vendite; e nel dicembre 1922 anche le ditte straniere con succursale a Pietrogrado erano autorizzate all'acquisto ed esportazione di mercanzie russe per le proprie sedi estere. C'è (come del resto oggi in tutti gli Stati europei per parte dei Ministeri delle finanze) una vigilanza regolatrice dello Stato; ma il processo in corso non si fermerà al punto già toccato; ché le esigenze dello sviluppo economico non consentiranno l'arresto sulla china, per la quale han già sospinto lo Stato dei Sovieti. Lenin scriveva, nell'articolo del 7 novembre 1921: "Noi adottammo, dopo il febbraio 1921, in luogo del precederete metodo rivoluzionario - che significó una negazione completa di tutto ciò che era vecchio e doveva essere sostituito da forme nuove, - dei modi di procedere molto diversi e riformisti. Oggi non vogliamo distruggere le vecchie basi economiche e sociali del commercio, della piccola industria, ma vogliamo anzi attirare il commercio e l'industria". Ma in connessione con questo forzato mutamento di indirizzo, le necessità della vita pongono nuove condizioni e impongono nuovi problemi, con una forza cui lo Stato dei Sovieti soggiace, per quanto si sforzi di dominarla. RODOLFO MONODOLFO.
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