NOTE DI ECONOMIA
IL RIBASSO DEL FRUMENTO E DELL'UVA1. - Un grave avvenimento preoccupa la mente dei contadini: il prezzo del frumento è caduto di più di un quarto, e quello dei vari tipi di uva è scemato forse al di sotto della metà del livello raggiunto nello scorso anno. Invece non è discesa di altrettanto la maggior parte dei costi di produzione, tolto qualche provvido sgravio di dazi voluto dal ministro delle finanze; sicché quasi per intero il taglio è andato ad incidere sul profitto. Con irritazione e sdegno spiegabilissimi, anche per un elemento psicologico: il rimpicciolire dei prezzi è sopraggiunto quasi di colpo, improvviso ed inatteso dai più lasciando l'impressione di una violenza esercitata a danno degli agricoltori da parte delle solite congreghe le quali guadagnano con la speculazione derubando all'ultimo momento chi ha lavorato. Rotolare giù delle 110-112 lire per quintale del frumento tenero fitto, segnate sui mercati ancora nelle prime settimane del luglio (e nell'anno precedente si era giunti in quell'epoca alle 118-120) alle sole 80-93 lire delle successive; e dalle cifre spazianti tra le 70 e le 220 lire per l'uva a seconda si trattasse di qualità scadenti o scelte nel raccolto del 1922 crollare fino alle 30-110 in questo inizio d'autunno; non è un passaggio tranquillo, ed è logico anzi susciti il rammarico più amaro. 2. - Eppure, a guardare con un poco più di attenzione, nell'animo forse si attenua lo sgomento. Spontanea corre alle labbra la domanda: fino a che punto l'abbondanza del raccolto compensa il produttore della delusione nel prezzo? Entrambi i prodotti sono riusciti ottimi, sia per la qualità come per la quantità: nel frumento si superano tutti i successi passati balzando ai 61,4 milioni di quintali, sopra una superficie quasi identica allo scorso anno quando non si toccarono nemmeno i 44 milioni: il 40% d'aumento non è costato quindi nulla di più nelle spese di semine o di coltivazione, salvo per la mietitura e trebbia. Il valore del raccolto si può calcolare all'incirca identico - al prezzo medio di L. 115 per quintale, salì a 5058 milioni nella scorsa campagna, mentre le modeste 85 lirette di questo anno lo portano - nonostante la loro pochezza - a 3202 milioni di lire. Quanto all'uva, è troppo presto per osare delle cifre, vagando ancora tra le stime più arbitrarie: se i 56 milioni di quintali circa dell'annata 1922 valevano più di cinque miliardi di lire, la vendemmia fortunata di quest'autunno, con almeno 65,4 milioni di quintali e forse più, anche a prezzi dimezzati, lascia cifre non troppo lontane dai cinque miliardi. Per i costi, si può ripetere l'asserzione fatta circa il frumento: la superficie quest'anno è anzi lievemente contratta (dove alcuni vigneti filosserati non si ricostituirono): lavori e concimi ed anticrittogamici debbono venir anticipati in ugual misura, correndo l'alea di un prodotto pessimo od ottimo: tra le variabili, forse unica resta quella per il raccolto e trasporto dell'uva al mercato. Non bastano ad illuminarci, del resto, nemmeno queste cifre troppo semplici. Sopratutto per il grano: la popolazione contadina ne è larga consumatrice, sicché trova un vantaggio dalle quotazioni più o meno elevate solo rispetto alla quantità che può vendere senza doverla ricomprare più tardi nel corso dell'annata: per quello che consuma in acquisto, rimane indifferente od è gravata dall'alto prezzo. Ma quanto le occorre? Si può calcolare da un minimo di 28 ad un massimo di 38 milioni di quintali, compresi i sei per le semine; il Morandi, che diresse i servigi granari durante il periodo della requisizione, indica nella prima e minore cifra il dato fornito dall'esperienza quale consumo dei produttori diretti: chi non pensa a questo soltanto ma a tutta la popolazione rurale, assume l'ipotesi che essa - pur formando il 55% della popolazione italiana - adoperi almeno altrettanto frumento quanto le classi urbane, e quindi arriva ad un 32 milioni di quintali, oltre al necessario per la semina, sopra i 70 del consunto complessivo. Ove si accolga come verosimile questa supposizione, l'incasso ottenuto dagli agricoltori nello scorso anno sopra i sei milioni di grano rimasti disponibili non raggiungeva i 700 milioni di lire; mentre nella campagna presente può arrivare molto vicino ai due miliardi. Anche restringendoci alle cifre del Morandi, sulla parte non consumata dai produttori, questi avrebbero ottenuto quest'anno almeno un miliardo di più che nella scorsa annata, 2805 milioni invece di soli 1740. Né è tutto. Il calcolo, eseguito sopra delle medie, lascia oscura una parte del fenomeno; l'esame del bilancio dei singoli agricoltori troverebbe divari individuali ben più accentuati tra l'annata scarsa e quella ottima. Per il vino riesce difficile anche il tentativo di un calcolo del consumo diretto, tanto più nell'incertezza presente circa l'entità precisa del raccolto. 3. - Se l'abbondanza della produzione non fa evaporare il compenso per i coltivatori come si crederebbe alla prima impressione, il supporre nel tracollo dei prezzi un'origine artificiale male si cancella dalla mente degli interessati. Alcuni fatti sarebbe bene tuttavia fossero tenuti presenti, in prima linea due cifre che la statistica internazionale dei raccolti ha già potuto presentare: la produzione mondiale di frumento nel 95% dei paesi produttori è cresciuta dai 772 milioni di quintali della media 1909-13 a 803,8 nel 1922 ed 896,5 milioni di quintali nell'annata presente. Un incremento del 16% riesce abbastanza sensibile su di un mercato dove gli esportatori portano in tutto un 165 milioni di quintali esuberanti ai loro bisogni, anche per l'abbondante messe pure negli altri cereali. Nulla di strano se in Inghilterra il prezzo nel settembre si contrae di più di un quinto, in Canadà ed in Olanda di poco meno; se in Belgio scema di oltre un decimo, ed anche in Francia va perdendo qualche punto. Le considerazioni locali non presentano minor interesse: le scorte formate abbondanti in Italia già nel 1921 - con 10-15 milioni di quintali - quantità assai più ingente che nell'anteguerra - vennero portate ancor più in alto nell'inverno del 1922-23 dall'importazione larghissima spinta ai trenta milioni. Restò così un eccesso di almeno 4 milioni sul fabbisogno, pur mantenendo intatti gli stock accumulati per rimandarli alla nuova campagna: sicché nell'agosto, dati anche i contratti in esecuzione, si può dire fosse già coperta l'intera domanda fino al raccolto del luglio successivo. Gli importatori avevano corso troppo, ed ai commercianti non era quindi possibile acquistare altro frumento dai produttori italiani, mentre un certo quantitativo di grano estero duro era giocoforza farlo venire dal di fuori per le mescolanze e la fabbricazione della pasta. L'offerta interna non trovava perciò alcuna contropartita (1) proprio nel momento in cui più desiderosi erano gli agricoltori di collocare il loro prodotto e ricuperare così una parte almeno dei capitali anticipati. Si comprende come la caduta in Italia si misuri con ampiezza ancora più alta che nel resto d'Europa. Mancavano per di più le due vie di uscita capaci di rallentare e di arrestare il tracollo: il deposito presso magazzini generali con la possibilità di ottenere anticipazioni adeguate, e l'esportazione verso mercati pronti a comperare. La tradizione non aveva ancora abituato i coltivatori e le banche alla prima forma di riparo: la seconda era bloccata dal divieto d'uscita, residuo della legislazione annonaria di guerra, di nessun giovamento per i consumatori e dannoso ai rurali. L'impaccio provocò tuttavia solo qualche punto di perdita, non l'intera caduta: lo si vide quando un acuto conoscitore dei problemi agrari, Arrigo Serpieri, giunto al Sottosegretariato per l'Agricoltura ne ottenne l'abbandono. Anche se la domanda estera fosse stata vivace, era inevitabile un deprezzamento, perché il prezzo corrente fino al luglio in Italia sommava alla quotazione nei mercati di origine il costo di trasporto e le quote per le spese di commissione, assicurazione, interessi delle somme anticipate dal momento dell'acquisto all'interno a quello del pagamento all'estero, e perdite per deperimento e calo: portando il nostro grano in altri mercati, queste spese in gran parte sarebbero venute a gravare sull'esportatore. Si aggiunga, a trattenere l'esodo, l'impressione dell'inutilità del doppio trasporto: due viaggi, uno per portare subito del grano all'estero ed un secondo per riportarlo in Italia qualche mese dopo, con tutte le altre spese collaterali alla doppia operazione, non sarebbero riusciti più costosi del guadagno ottenibile con la vendita in piazze straniere? Per l'una non si erigeva nessun impaccio di dazi d'uscita, ma viceversa sorgevano altre difficoltà. Pochi mercati esteri, ed anch'essi produttori, ne fanno domanda, e la tengono in limiti ristretti per la diversità di gusti e di apprezzamento qualitativo: quanto a conservarla trasformata in vino, formando degli stocks per i periodi ricorrenti con produzione meno favorevole, manca l'attrezzamento tecnico che permetta il rinvio del consumo, e per molta parte del raccolto non si hanno nemmeno le attitudini organiche ad una lavorazione etnologica accurata. Quanto al mercato interno, in alcune regioni i produttori avevano accumulato qualche riserva, colorando i loro vasi in attesa di un rincaro sperato a breve scadenza, con inevitabile appesantirsi dell'offerta: sopraggiungendo invece una vendemmia ottima e copiosa, era facile da parte dei commercianti contare questo impaccio. La loro astensione dai mercati portò al panico molti viticultori, che si adattarono a prezzi molto bassi pur di vendere subito. E rinacque l'occasione per riprendere il problema: non converrebbe ai produttori di uva provvedersi l'attrezzamento per la trasformazione in vino, invece di lasciare il compito ad altri? Non senza ragione avevano però sempre deciso di astenersene, con risparmio di un capitale non ristretto, sia per le difficoltà tecniche del lavoro, sia per la rarità dei momenti in cui la divisione dei compiti non funziona opportunamente. Solo ad intervalli di ogni nove o dieci anni capitano infatti vendemmie molto abbondanti: ed è ancor più raro si presentino quando i compratori sono incerti circa l'entità del vecchio residuo, e quanto all'elasticità del mercato: il malessere del mondo economico scema certo la capacità d'acquisto delle classi operaie, e qualche ripercussione possono sempre esercitare i provvedimenti voluti dai legislatori per restringere il consumo di alcolici. 4. - Se ci fosse un dazio protettivo sul grano! si sentì mormorare da alcuni, fra il sorriso scettico di quanti vedevano pur sempre scritto nella tariffa il dazio di L. 120 per ogni L.t. di vino. Un dazio sul grano sarebbe efficace sul serio in questo momento? come sperarlo se l'efficacissimo dazio sul vino non è riuscito punto a trattenere l'uva dal precipitare a meno della metà in confronto allo scorso anno, con una ampiezza nel salto doppia a quella dello stesso grano? Le due derrate sono però diverse, e la legge che ne regola l'andamento non può non risultare differente; nel caso dell'uva trattandosi di un consumo voluttuario a domanda ristretta ed elastica, mentre pel grano la richiesta mondiale e tra le più rigide. Il prezzo di questo tende a sottrarsi abbastanza alle forze locali, e risente così in generale oscillazioni meno ampie di quelle inevitabili nel ristretto mercato nazionale: nei paesi che non coprono il proprio fabbisogno, o che contribuiscono con lieve percentuale ai rifornimenti mondiali, il prezzo viene regolato dal livello internazionale: perciò un dazio rincarando il rifornimento estero agisce subito protettivamente. Ma nella presente annata cerealicola il mercato interno italiano è già saturo; il prezzo anzi è al di sotto delle quotazioni estere, quando si tengano presenti le spese varie che lo rincarano fino al nostro confine. Sicché un dazio, in questa eccezionale situazione, non riesce più, almeno finché la differenza di livello non giunga al punto di rendere conveniente l'esportazione di un forte quantitativo, e quindi di rimbalzo in un secondo tempo il bisogno di importare. Finora siamo ben lontani da un distacco così notevole: il ritorno del dazio sul grano non avrebbe quindi efficacia. Così come l'esercita forse tenuissimo o nullo quest'anno anche il balzello sul vino: derrata a consumo elastico, a produzione oscillantissima nei vari mercati, e soprattutto deperibile rapidamente nella parte maggiore della sua massa. Col raccolto abbondante il tracollo è immediato: se per il grano alla produzione di due quinti più intensa è seguita una caduta di un quarto nel prezzo, per l'uva l'incremento di poco più di un quinto ha visto i prezzi dimezzarsi. La mente corre al ragionamento famoso di Gregorio King per arrovesciarlo: se il deficit nell'offerta del grano per 1, 2, 3, 4 oppure 5 decimi tende a produrre un rincaro pari a 3, 8, 16, 28, 45 decimi, un eccesso di offerta per l'uva provoca un ribasso con rapporti tendenzialmente analoghi a quelli indicati dal celebre statistico del seicento. Il prezzo del vino comune non è quindi improbabile si mantenga al disotto dell'altezza del dazio; mentre - se questo fosse effettivo - dovrebbe superarlo per tutto il costo di produzione. Non approfondiscono quindi abbastanza il problema contingente quanti ricorrerebbero alle grandi ali della protezione: occorre ben altra legna per far fuoco. VINCENZO PORRI.
(1) Non certo per odio ai cerealicultori i mulini non compravano all'interno: il ribasso li avrebbe subito attirati se non li legassero dei contratti non denunciabili, se il grano estero non avesse qualità diverse dal nostro, e se final-accentuare i guai dei contadini veniva in aggiunta l'insufficienza dei granai nelle zone più recenti acquisite alla coltura (bonifiche).
|