RISPOSTA AI CRITICI DI NAZIONALFASCISMO
1. Qualcheduno ha creduto di scoprire che per me la nazione sia priva di realtà concreta, e che su tale negazione della realtà nazionale io assida tutta la mia critica del nazionalfascismo. Sarebbe molto comodo per questo; ma chi mi ha letto, con un minimo di attenzione e di comprensione, sa che si tratta semplicemente di un granchio grossolano. Quando io parlo di "mitica Nazione", e di "nazione-mito", intendo semplicemente dire che é mitico, irreale, il concetto che della Nazione si fanno nazionalisti e fascisti, come di "entità astratta e valore unico per se stante" (p. 18), come di "legge trascendente che viene ad imporsi, dal di fuori, alla società ed alla storia" (p. 19). La realtà della nazione é un motivo costante della mia polemica contro un certo socialismo; come la realtà della classe é un motivo costante della mia polemica, contro il nazionalfascismo. Non é poi colpa mia se il mio cervello é capace di vedere come sia complessa quella realtà di cui demagoghi orecchianti, partigiani fanatici e compiacenti sofisti vedono e mettono in mostra qualche brano isolato. 2. Bergeret non mi rimprovera proprio di negare la realtà nazionale, ma, di non aver riconosciuto che essa oggi costituisce, una religione, l'unica religione esistente. Veramente, quando io parlo di nazione-mito, parmi che questo elemento religioso sia già espresso chiaramente: non é appunto, il mito, un fatto religioso? E con questo é già risposto all'altra critica, espressa da Bergeret con patetico sussiego: avere io dato del nazionalfascismo una interpretazione puramente economica, proprio oggi che il materialismo storico é morto e sepolto. Se il materialismo storico sia morto e sepolto, io non discuterò qui con Bergeret, sia perché non é il luogo, sia perché dalla sua sfuriata antimarxistica, questo solo si ricava di sicuro: ch'egli parla ad orecchio. Ma che io abbia dato del nazionalfascismo una interpretazione puramente economica (come hanno detto, con lui, altri critici, naturalmente fascisti), é un granchio poco meno grosso di quello che io abbia negata la realtà della nazione. Io ho ricondotto il nazionalfascismo ad un dato ceto sociale, ma non mi sono mai sognato di caratterizzare questo ceto - e la sua attività politica - come un fatto puramente economico, anche se la sua costituzione economica ho preso come punto di partenza per caratterizzarne e spiegarne la psicologia. Non esistono fatti puramente economici, come non esistono -comprenda bene Bergeret - fatti puramente religiosi: la realtà é circolare, e si può ragionevolmente cercare di percorrere il circolo partendo da un qualunque punto di questo, perché non lo si prenda per il circolo intero e ci si fermi lì. Che é, poi, l'insegnamento finale di quei saggi marxistici di Croce ché Bergeret cita alquanto a sproposito. 3. La maggior parte dei critici ha accettato la interpretazione piccolo-borghese da me data del nazionalfascismo. Fovel obbietta, però, che il carattere piccolo borghese, primitivamente esistente nel fascismo, é andato scomparendo man mano che le classi abbienti, specialmente agrarie, si sono impadronite del movimento, il quale oggi avrebbe carattere sostanzialmente conservatore, non rispondente in alcun modo agli interessi della piccola borghesia ridotta a strumento di quelle classi abbienti. Tutto questo é sostanzialmente vero, ma é anche detto, o almeno implicitamente contenuto in quello che é detto da me. Io ho, appunto, sostenuto che il tentativo fascista di costituire una forza sociale intermedia, fra capitalismo e proletariato - anzi superiore ad ambedue - era utopistico; che il fascismo era riuscito vittorioso contro uno dei due suoi nemici ideali perché aveva avuto l'appoggio dell'altro, appoggio che naturalmente questo non avrebbe dato come contro se stesso (1). Se però il Fovel volesse dire - come parrebbe da qualche suo passo - che il fascismo era inizialmente un movimento democratico, divenuto reazionario solo per via, allora nego: perché il carattere reazionario - e proprio qui culmina la mia tesi, che il Fovel in sostanza non oppugna - é contenuto precisamente nella sua posizione originale, ideale, cioè nella sua pretesa di imporre una legge trascendente agli individui e alle classi sociali in lotta fra loro. 4. Forse la critica più acuta é stata quella fatta da Ansaldo. Il quale, alla mia distinzione della piccola borghesia in "tecnica" ed "umanistica", e alla identificazione della seconda col nazionalfascismo, ha obbiettato che la piccola borghesia tecnica dell'Italia settentrionale - "milanese", la chiama egli, con sigla non arbitraria - entra pur nel fascismo per qualche cosa; e per assai più della piccola borghesia meridionale, tipicamente "umanistica". La prima osservazione é verissima; badi, però, l'Ansaldo, che le due categorie da me stabilite (ed io ho avuto forse il torto di non avvertirlo espressamente) erano assai più ideali che empiriche: tendevano a classificare due mentalità, piuttosto che due ceti sociali effettivamente distinti e contrapposti nell'Italia odierna; e la piccola borghesia "tecnica" era posta da me più per chiarezza di caratterizzazzione e compiutezza schematica che per una effettiva realtà da me attribuitale presentemente. Convengo, dunque, pienamente con l'Ansaldo sulla presenza della piccola borghesia "milanese" nel nazionalfascismo; ma forse per il fatto che essa é composta di impiegati industriali, bancari, etc. mancano nella sua mentalità i caratteri che io attribuivo alla piccola borghesia "umanistica"? Questi caratteri io li compendiavo in uno solo: retorica. Ora, certa esaltazione dello sport, dell'auto, della velocità e via dicendo, di cui parla Ansaldo a proposito della piccola borghesia milanese, é retorica della più schietta: retorica futurista, se si vuole, ma che si allea benissimo a quella "passatista", o piuttosto non ne é se non una nuova manifestazione. Tanto é vero che questi futuristi pseudotecnici sono poi gli stessi che portano il fascio littorio e fanno il saluto romano, ed inneggiano a Roma imperiale rediviva: tutte cose che più "umanistiche" non potrebbero essere. S'intende che per fare della retorica "umanistica" non c'è mica bisogno di sapere veramente il latino e la storia romana: al contrario, più se ne é digiuni e meglio é. Nello sviluppo economico arretrato del nostro paese, anche il capitalismo e i fenomeni con esso connessi assumono un carattere artificiale e "retorico". In quanto alla piccola borghesia meridionale non fascista, dissento dall'Ansaldo. Che i meridionali siano entrati per piccola parte nelle formazioni fasciste sino alla marcia su Roma, é un fatto, che si spiega facilmente pensando come tutto il campo d'azione del fascismo fosse, e non potesse non essere, nell'Italia settentrionale e centrale (meridionali, del resto, ce n'è ormai moltissimi fuori del mezzogiorno; e anche in quella piccola borghesia milanese di cui parla Ansaldo). Ma quando si studiano la mentalità fascista, i suoi elementi, i suoi successi, non bisogna guardare soltanto ai fascisti iscritti; anzi, i simpatizzanti hanno più importanza di loro (lo stesso era accaduto per il socialismo). Ora, se nell'Italia settentrionale l'opinione sul nazionalfascismo ere divisa, nella meridionale la compattezza a suo favore era assai più cospicua. Nitti, Giolitti, il socialismo e la socialdemocrazia in nessuna parte d'Italia sotto stati deprecati e vituperati come nel Mezzogiorno: e in nessuna parte la demagogia patriottarda ha avuto ed ha più facili trionfi. L'Italia settentrionale ha creato il fascismo; ma l'Italia meridionale ha dato il maggior contingente di filofascismo. E non è caratteristico che quando si é voluto arginare, del Mezzogiorno, il fascismo dilagante, non si é trovato di meglio che farsi nazionalista? 5. Secondo Augusto Monti, nel mio libro tutto l'interventismo in blocco é osteggiato appassionatamente, e, denunciato come massimo responsabile del fascismo. Che cosa, intende, il Monti, per interventismo? Le campagne ciecamente germanofobe e servilmente intesiste, bollanti da traditori delle patria chiunque non vi aderiva? I tumulti di piazza suscitati, con travisamenti demagogici e meschine menzogne, contro la maggioranza della Camera e il suo capo, già Presidente del Consiglio per quattro volte? il "fronte interno" e i tentativi di dittature civile e militate? Se tutto questo, e soltanto questo, fosse stato l'interventismo, allora non saprei che farci: io non ho nulla da cambiare agli apprezzamenti pronunciati contro quei fenomeni. Ma non scrive il Monti, a proposito del "radiosomaggismo tripolino", che oggetto delle sue osservazioni é "non il fatto della guerra italo-turca e dell'impresa libica, e tanto meno la convinzione della ineluttabilità di quella impresa", ma piuttosto il "modo con cui fu allora condotta la campagna interventistica, e il prodursi, nell'ambiente creato da quella campagna, di quello spirito, che ora, edotti dalla più recente esperienza, possiamo chiamare benissimo spirito fascista"? E' perché questa distinzione, buona per lui, non che dovrebbe esser buona per me? In tutti i passi in cui io parlo dei fenomeni interventisti, sempre il mio dire si riferisce al "modo con cui fu condotta la campagna interventistica" e al "prodursi di quello spirito che ora passiamo chiamare spirito fascista", e non mai al "fatto della guerra" o a "la convinzione della ineluttabilità" di essa. Che se poi il Monti domanda perché io non ho parlato anche del "radiosomaggismo tripolino" in quegli articoli scritti per l'attualità politica del dopoguerra (pare che il Monti non tenga affatto coatto di questo: che il mio libro é una raccolta di articoli, scritti in un periodo di quattro anni, e riprodotti, per scrupolo, tali e quali), io potrò anche concedergli l'esistenza di una lacuna. Piccola, a parer mio, perché dopo il 19l5 il "radiosomaggismo tripolino" era veramente una goccia caduta nel mare. Ma, oltre il "radiosomaggismo tripolino", c'è il "neutralismo giolittiano". Che questo abbia commesso degli errori, non c'è dubbio, sebbene io non consenta in una gran parte delle osservazioni fatte in proposito dal Monti. Ma se il Monti pretende che io, mentre scrivevo per realizzare quella unione socialpopolare-democratica, che egli dichiara, chi sa perché, assurda e non dignitosa (ancora non ha capito, dunque, che proprio il non essersi realizzata quell'unione ha portato alla vittoria del fascismo?), lavorassi a svalutare proprio l'elemento costituzionale che io speravo potesse essere il perno dell'unione, allora gli dirò che io facevo della politica e non del flagellantismo. Per rilevare quegli errori del neutralismo costituzionale, ce n'era più che a sufficienza del Corriere della Sera, del Giornale d'Italia e di tutti i giornali e gli scrittori interventisti. Ma allora, altra e più grave lacuna? E questione di opinioni. Riunendo quegli articoli in volume, io ho mirato a lumeggiare due punti: la mentalità da cui é nato il fascismo, e la situazione politica in cui si è sviluppato ed é arrivato alla vittoria. Riguardo al primo, il neutralismo giolittiano non é stato certo fra i suoi fautori (quanto dice il Monti sopra il "nazionalismo" di Giolitti riposa sopra un equivoco: effettivamente, Giolitti si basò sulle condizioni specifiche dell'Italia, ma questo era realismo politico, e cioè, se mai, antinazionalismo); per il secondo, occorre tener presente che, come forza politica attiva, esso neutralismo é stato sempre vinto: nel'15 dall'interventismo, nel'19 dal massimalismo, nel'20 (cioè proprio quando Giolitti é venuto al potere) dal massimalismo ancora, e dalla ripresa interventistico-fascista. Ora, le responsabilità politiche essenziali sono dei vincitori, non dei vinti; e se il mio libro è dedicato sostanzialmente a quelle, non credo che ne venga, al quadro storico, un gran danno. Non pretendo però, naturalmente, che tutti siano di questa opinione. Conclusione pratica: responsabilità ce ne sono state da tutte le parti; ognuno insiste di più su quelle che crede maggiori, e non si può pretendere di cambiar la testa alla gente. Ma se il Monti crede che nella raccolta dei miei articoli ci sia stato lo scopo di risuscitare vecchie polemiche, erra completamente; e in verità sarebbe il solo a crederlo. I fascisti per i primi hanno capito benissimo che il libro riguardava il fascismo, cosa viva ed attuale, non l'interventismo, cosa passata come il neutralismo. Questo superamento di ambedue i fenomeni é stato da me enunciato espressamente, fin dal dicembre '20, in un articolo ("Punto di svolta") scritto alla vigilia della mia venuta alla Stampa. Allo spirito ed al programma di quell'articolo (invocante una concentrazione democratica tra bolscevismo e nazionalfascismo), io sono rimasto sempre fedele. Soltanto, oggi che il fascismo si é impiantato al potere, sulle rovine dei partiti democratici, credo che non tanto di concentrazione e di "fronti unici" sia il momento, quanto di revisione, di ripiegamento intimo dei vari partiti, per creare una vita politica ritrova; o meglio ancora che dei partiti, vecchi e frusti, di nuclei sociali, gruppi, individuali singoli, capaci appunto di rinnovamento. Non io certo penso ad escludere da questo rinnovamento chicchessia, per reato d'interventismo). 6. La maggior parte dei critici non si é soffermata ad esaminare - per approvarlo o meno - l'inquadramento da me tentato del nazionalfascismo nella storia politica e spirituale europea. Hanno invece insistito su questo punto - che per me é fondamentale - due scrittori non professionalmente politici, Tilgher e Levi della Vida, tratteggiando la concezione generale e la mentalità dell'autore di Nazionafascismo. Sulle loro analisi, e le sintesi conclusive, non ho nulla da ridire: mi felicito, piuttosto, di aver trovato esegeti così fini e penetranti. Quanto, nel loro esame critico, può aver apparenza d'obbiezione, é, piuttosto, caratterizzazione, poiché caratterizzare significa delimitare, e, per ciò stesso, parzialmente negare. LUIGI SALVATORELLI.
(1) I tentativi anticapitalistici, del resto, non sono cessati anche se facilmente si afflosciano, per volontà stessa del capo supremo. Basti ricordare la recente levata di scudi dei sindacati fascisti torinesi contro gli industriali.
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