POLEMICA INTERVENTISTA

    Caro Gobetti,

    Giacché vedo che il Monti, nell'articolo intitolato: Interventismo, neutralismo e fascismo, si richiama alla mia lettera e riconosce la necessità di una discussione che non lasci più "nessun equivoco e nessun malinteso", permetta, se crede, anche a me di portare il mio contributo a quest'opera di chiarificazione e di spazzamento degli equivoci e dei sottintesi.

    Naturalmente non ripeterò quello che ha già detto con la solita chiarezza e acutezza il Monti; né voglio allargare la discussione al torto o alla ragione degli interventisti e dei neutralisti, anzi vorrei limitare la questione anche maggiormente di quanto ha fatto il Monti e restringerla quasi unicamente al giudizio sull'origine, la natura e le conseguenze delle famose giornate di maggio. Una simile indagine mi sembra necessaria nel suo giornale, che ha pubblicato, riguardo a quelle giornate, - anche se non a firma del direttore - giudizi non dissimili dati anche dagli ex-neutralisti. Cercherò dunque di esporre l'atteggiamento e lo stato d'animo avuto in quelle giornate dal gruppo di persone col quale l'azione della Rivoluzione Liberale ha maggior affinità, pur distinguendosene nettamente. E spero di essere scusato, se m'arrogo questo compito io. L'ultimo e il più oscuro, ma non il meno convinto seguace di quel gruppo.

L'interventismo dell'"Unità" prima del maggio

    Prima di parlare dell'atteggiamento degli interventisti democratici, e più specialmente unitari, nelle giornate di maggio è necessario accennare, almeno sommariamente, ai motivi che condussero all'interventismo uomini, i quali avevano sempre fatto propaganda contro i militaristi e in favore di una politica di pace, se non proprio del pacifismo assoluto.

    Dopo la crisi tormentosa attraversata nel primo periodo della neutralità e derivata dall'ignoranza circa la formulazione precisa del trattato della Triplice, e quindi dal dubbio che non solo la guerra contro i nostri alleati, ma la nostra stessa neutralità costituisse un mancamento di fede ai trattati, si presentò alla mente e all'animo di ciascuno il quesito se fosse conveniente continuare nella neutralità o se si dovesse entrare in guerra contro gl'Imperi centrali.





    Data una mentalità come quella del Salvemini, e di cui tutto l'indirizzo del suo giornale era stato sempre impregnato, scarsa efficacia potevano avere su di essa le frasi vaghe circa la necessità per l'Italia di non essere assente; e neppure potevano avere valore decisivo i motivi sentimentali contro la crudeltà e la barbarie dei Tedeschi invasori del Belgio. Occorreva invece che, per agire, fossero esposti fini concreti e precisi, ispirati all'interesse dell'Italia, oltre che alle ragioni dell'umanità. E questi fini furono essenzialmente due. Il primo è il più decisivo fu quello d'impedire l'egemonia incontrastabile che la vittoria avrebbe dato alla Germania, egemonia che avrebbe significato per l'Italia una vera schiavitù, data la mentalità tedesca d'anteguerra e aggiuntovi il fatto che saremmo stati trattati come traditori per non essere scesi in guerra al fianco dei tedeschi. Il secondo fine era quello di approfittare di una guerra - non da noi voluta né scatenata ma che avrebbe portata una nuova sistemazione nell'assetto territoriale dell'Europa, durevole per molti anni - per raggiungere i nostri confini naturali, riunire alla nazione gl'Italiani ancora soggetti all'Austria, migliorare la nostra posizione strategica nell'Adriatico. Fissati questi fini, e riconosciuta la necessità di partecipare alla guerra a fianco della Triplice Intesa per raggiungerli, il contegno dell'Unità non si confuse con quello di coloro che spinsero alla guerra mondiale con gli stessi metodi che l'Unità tanto aveva deplorati per la guerra libica (rettorica, falsificazioni, calcoli più che rosei sulla facilità e la brevità della guerra). Al Governo, che solo conosceva tutti gli elementi della questione, spettava decidere il modo, e specialmente il tempo, dell'intervento. Perciò quelli che chiameremo gl'interventisti unitari sentono di non avere nessuna responsabilità circa la data dell'intervento, né circa gli errori del Governo stesso o da altri commessi nel valutare la durata o il costo, in vite e in danaro, della guerra.





Le giornate di maggio

    E veniamo alle giornate di maggio.

    Dato l'atteggiamento assunto dall'Unità, era naturale che essa seguisse con simpatia l'opera del Governo, interventista, e avversasse l'azione di Giolitti, non ben chiara, ma evidentemente tendente alla conservazione della neutralità. Però quest'avversazione ai neutralisti non avrebbe legittimato nessuna forma di violenza contro di essi, finché non fosse stata presa nessuna decisione circa l'intervento. Fino ad allora ognuna delle due parti aveva il diritto, e magari anche il dovere, di far propaganda delle proprie idee, per ottenere che l'Italia seguisse la linea di condotta creduta più utile; ma non doveva spingersi più in là. La violenza delle giornate di maggio fu originata non dal proposito di costringere l'Italia ad entrare in guerra contro la volontà di gran parte della Nazione, ma dal fatto che gli interventisti avevano saputo, o almeno avevano intuito, che il Governo dell'Italia, si era ormai impegnato ad entrare in guerra e comprendevano che ritrovarsi dopo quell'impegno, sarebbe stato un atto rovinoso per la dignità e per il prestigio dell'Italia. Le giornate di maggio, pur nella loro torbidezza, non furono dunque, o non furono soltanto, una manifestazione di leggerezza, d'immaturitá o d'inciviltà; esse furono anzi, essenzialmente, una prova di sensibilità politica. Infatti, dato che il trattato di Londra era già stato firmato, se Giolitti fosse salito al potere al posto di Salandra, avrebbe potuto seguire due vie: o far annullare il trattato, e ciò avrebbe disonorato l'Italia, perché il trattato era stato firmato dal Governo legittimo, al quale la Camera aveva dato la sua fiducia, oppure avrebbe dato lui stesso esecuzione al trattato, e allora avremmo avuto lo spettacolo, nel momento più solenne e decisivo della vita della nazione, di un giochetto parlamentare di sostituzione di un uomo di Governo a un altro, senza alcun legittimo motivo, dal momento che la linea di condotta non doveva essere cambiata.

La legalità e la piazza

    Giunti a questo punto sarebbe comodo fermarci. Perché mi pare che difficilmente possa essere scosso il fondamento di quel che ho detto finora, si potrebbe deplorare gli eccessi della giornate di maggio, ma riconoscere che essi non bastano a far condannare quelle manifestazioni, se esse ebbero per effetto di salvare la dignità dell'Italia.

    Ma per giungere allo scopo di dissipare gli equivoci e i sottintesi, di cui parlavo in principio di questa lettera, bisogna avere il coraggio di porsi un'altra questione, che potrebbe formulare così: "Ebbene, ammettiamo pure la necessità dell'intervento, ammettiamo anche che, dato il punto a cui erano le cose, sia stato bene che Salandra sia tornato a capo del Governo per iniziare la guerra da lui perpetrata; sta però il fatto dell'illegittima pressione sul Parlamento e sta il fatto che quella prima azione illegittima sono discese tutte le altre che hanno in seguito originato il fascismo e la marcia su Roma".





    L'accusa è certo formidabile per chi non approvi i metodi e la mentalità del fascismo. Vediamo di esaminarla un po' addentro, perché dalla soluzione di questa questione dipende il giudizio sulla responsabilità di gran parte dell'azione fascista.

    Nel maggio del 1915 la Camera dei Deputati era nella sua maggioranza per Giolitti e contro Salandra, cioè per la neutralità, e contro l'intervento. E si può ammettere, dal punto di vista costituzionale, che la Camera avesse diritto di rovesciare un Governo che, non interpretando bene la sua volontà, aveva deciso la guerra. Avrebbe compiuto un'azione disonorevole, a mio giudizio, ma forse non illegale. Ora, ci sarebbe una prima considerazione da fare, alla quale accennerò soltanto. Guardato da questa distanza, il regime giolittiano può parere un paradiso di libertà e di legalità, ma indubbiamente le Camere create da Giolitti, qualunque fosse il sistema di suffragio, non erano la rappresentanza fedele della volontá del Paese. Era quindi abbastanza naturale che il Paese, dato il loro vizio d'origine, sul quale è inutile insistere, non le sentisse come cosa completamente sua, come una genuina rappresentanza. Ma lasciamo pure da parte quest'argomento che, sebbene importante per la condanna dei metodi elettorali governativi, sarebbe troppo pericoloso, se conducesse alla conseguenza di contestare la validità di tutti gli atti della Camera. E facciamoci un'altra domanda: "E' condannabile a priori e in ogni caso qualunque manifestazione, chiamiamola pure di piazza, intesa a influire in qualunqe modo sulla Camera dei Deputati?". Per rispondere, bisogna tener conto di quel che era la situazione politica in regime giolittiano. A parte i socialisti, i partiti si può dire che non esistessero. Tutti i deputati nuotavano o stagnavano in un solo calderone, dal quale il gran cuoco li pescava secondo che piaceva a lui, scegliendo al tatto i più molli e pieghevoli: e neppure nel Paese esistevano partiti organizzati. I giornali si sa quel che sono. O tenuti su da qualche uomo o da qualche gruppo per difendere i propri interessi, o organi personali rispettabili, ma attraverso i quali non si ha la garanzia di sentire la vera espressione della volontà popolare. Date queste condizioni di fatto, alle quali è da aggiungere il livello mediocrissimo della levatura dei deputati, anch'esso dovuto in parte all'azione giolittiana contraria a tutte le figure di rilievo per ingegno e per carattere, se una parte autorevole dell'opinione pubblica, in un momento decisivo per la vita della nazione, sente che la Camera non è l'interprete dei sentimenti e degl'interessi della nazione stessa, quale mezzo ha per far sentire ai deputati quale è la linea di condotta ch'essa ritiene la migliore? Ed è proprio, e sempre, un delitto ricorrere a manifestazioni di piazza per esprimere quest'opinione? Mi pare che si possa lasciare la domanda senza risposta, e invece di esprimere un giudizio, fare una constatazione: che, cioè, date, le condizioni della vita pubblica italiana dell'anteguerra, le giornate di maggio, considerate dal punto di vista della legalità, siano state una manifestazione di ineducazione politica, resa però necessaria dalla mancanza di mezzi legali affini per influire altrimenti sull'azione del Parlamento.





    Quando esistessero partiti organizzati che comprendessero la grande maggioranza degl'Italiani, o almeno di quelli che intendono partecipare alla vita pubblica, quando ognuno di questi partiti avesse una rappresentanza proporzionale al numero dei suoi componenti e quindi potesse esercitare un'azione corrispondente al suo peso e al suo valore, allora manifestazioni come quelle del maggio 1915 sarebbero non solo condannabili, ma forse neppure concepibili. La mancanza di quest'organizzazione di partiti è la loro spiegazione e, in parte, la loro giustificazione.

    La rappresentanza proporzionale, nonostante i suoi inconvenienti ci stava avviando e educando a una situazione politica degna di un popolo moderno e civile; non riusciamo ora a vedere quando quel poco cammino che si era fatto, interrotto e ripercorso all'indietro dal fascismo, potrà essere ripreso.

UN UNITARIO.