IL FASCISMO IN CAMPANIA

    Falliti gli sforzi precedenti, riassorbiti nel trasformismo trionfante i pochi tentativi originali di novità - perdurando le condizioni obbiettive di disagio, anzi aggravandosi per il progressivo precipitare della crisi dello Stato italiano - l'animo di molti giovani si rivolse verso il fascismo, con simpatia nuova.

    La stessa elasticità del programma fascista, oscillante tra un rivoluzionarismo verbale, una democrazia miracolista ed un reazionarismo effettivo, rendeva possibile a ciascuno di vedere in tale partito il toccasana per tutte le malattie. Soprattutto piaceva a taluni giovani il volontarismo, di cui il fascismo si faceva propagatore, ed i metodi di azione militare, quasi che la lotta politica fosse urto di due eserciti e non di guerra di civiltà.

    Così cominciò quel movimento che nella Campania si può più correttamente chiamare padovanismo, perché la figura che più vi emerse fu il capitano Aurelio Padovani.

    Giovane, proveniente da origini modeste, Aurelio Padovani si innamorò della lotta alle poche istituzioni campane che potessero correttamente qualificarsi socialiste: le organizzazioni portuarie, i metallurgici, i tessili, gli operai dei trasporti, e dimostrò in tale lotta il suo coraggio di valoroso combattente.

    Ma, sia perché tali istituzioni non avevano avuto una grande potenza nella vita pubblica partenopea, sia perché la lotta antisocialista era scarsamente sentita, il movimento padovaniano durante il suo primo fiorire parve più che altro uno sforzo mimetico.

    Non che i giovani, che vi parteciparono, si proponessero puramente e semplicemente l'imitazione delle gesta dei loro compagni del nord, ma, in effetto, la trascuranza di ogni dettaglio della questione meridionale ed il proseguire di quello spirito vagamente romantico, che abbiamo già rilevato nella prima agitazione dei combattenti, dimostrarono la scarsa consistenza rivoluzionaria di quel movimento, svolgentesi tra la noncuranza universale.

    Occorre precisare, per intendere a pieno l'esattezza di tutte queste proposizioni, che la maggioranza dei cittadini del sud fin quasi alla vigilia della marcia su Roma non mostrava neppure verbalmente di credere esaurito il compito storico dello Stato così detto liberale e perciò si gloriava di sentirsi abbastanza distante sia dal bolscevismo che dal fascismo.





    I ceti dirigenti, poi, piuttosto che impensierirsi di questa azione, che altrove mirava a soppiantarli, la guardavano con discreta simpatia, considerandola come una cura preventiva degli eccessi bolscevichi nel sud mai soverchiamente sviluppati: i fascisti, invece, assorbiti a riprodurre tutto il fenomeno Squadristico - tra noi in massima parte non necessario - non sapevano affrontare la questione del trasformismo, di cui solo teoricamente si dicevano nemici.

    I primi si sentivano sempre abbastanza forti per poter dilazionare il pericolo: i secondi non credevano alla possibilità di un successo e quindi esaurivano la loro azione in pratiche a fondamento religioso.

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    A chi ben consideri questo breve periodo della vita italiana non potrà sfuggire che il fascismo deve il suo successo nell'ottobre 1922 alle deficienze rivoluzionarie nel sud, che resero possibili le continue idiosincrasie parlamentari, esplicatesi nel fallimento continuato del grande ministero di sinistra.

    La mancanza di allarme del pericolo nelle masse parlamentari meridionali impedì il sorgere di quel fronte nemico, contro il nuovo nemico che avanzava minaccioso sulla ribalta della storia, che, invocato ardentemente da taluni gruppi socialisti, avrebbe impedito il momentaneo crollo del principio costituzionale della collaborazione dei partiti e del governo di gabinetto.

    Ma, a chi meglio penetri il meccanismo del giuoco politico, non potrà sfuggire la remota fatalità di questo atteggiamento parlamentare meridionale, derivante dall'intima essenza del trasformismo.

    Come potevano, infatti, i poveri deputati del sud sentire lo svilupparsi del pericolo se gli organi centrali erano avulsi completamente dalla loro funzione, e non comunicavano più alcuna vibrazione alle schiere dei loro sostenitori?

    Perché se il trasformismo corrisponde appunto a questa funzione quasi secolare delle rappresentanze meridionali di rinunziare alla vera lotta politica per mediatizzare il potere governativo alle oscure masse del sud, se cioè le rappresentanze meridionali lasciano volentieri agli uomini del settentrione tutta la politica, per accontentarsi del modesto ruolo di patrocinatori di privati interessi, come potevano intendere l'avvicinarsi del pericolo quando l'organo centrale era ormai distrutto?

    Ecco perché si arrivò fino al Congresso nazionale di Napoli senza che nessuno avesse pensato ad organizzare una trincea.

    Questa mancanza di comprensione degli avvenimenti da parte dei deputati meridionali, però, se costituì, forse, la ragione precipua della vittoria fascista, rappresentò invece, dopo la marcia su Roma, la ragione prima della sconfitta fascista come visione giacobina di governo.





Il congresso di Napo

    All'epoca della marcia su Roma, il Mezzogiorno non era peranco conquistato, e solo allora il fascismo si accorgeva dell'esistenza di una questione meridionale, che è poi la vera questione italiana.

    Ora, io ho voluto rileggere il discorso che l'on. Mussolini pronunziò in quella circostanza per vedere in quali condizioni ideologiche il partito fascista si presentava al giudizio del popolo meridionale.

    Ebbene in tutto il discorso - travagliato dalle perplessità dell'ora - non vi è che un solo periodo che accenna alla questione meridionale. Eccolo: "sono qui, con noi, in fratelli della sponda dalmatica tradita, ma che non intende arrendersi: sono qui i fascisti di Trieste, dell'Istria, della Venezia Tridentina, di tutta l'Italia settentrionale; sono qui anche i fascisti delle isole, della Sicilia e della Sardegna, tutti qui ad affermare solennemente, categoricamente, la nostra indistruttibile fede unitaria che intende respingere ogni più lavato tentativo di autonomismo e separatismo".

    Eccitati dagli applausi trascinati nei giorni successivi dagli avvenimenti incalzanti, i fascisti meridionali non intesero il preciso significato di queste parole, non compresero che il fascismo intendeva seguire nel Mezzogiorno una politica identica a quella dei passati governi, cioè era disposto, pur di raggiungere il potere, a sacrificare le aspirazioni antitrasformistiche dei migliori fascisti meridionali.

    Se tanto essi avessero compreso, se avessero intuito che con le loro mani si cingevano un nuovo collare di schiavitù, ben più solido di quello che volevano abbandonare, forse la marcia su Roma non sarebbe avvenuta.

    Perché quel Congresso, preparato dai dirigenti, non per prendere contatto con l'anima del Mezzogiorno, ma per avvicinarsi a Roma, si sarebbe trasformato in grandi assisi politiche ove sarebbe emerso il profondo dissidio sotterraneo tra il fascismo settentrionale ed il nostro, dando a quest'ultimo tale un contenuto rivoluzionario da convincere i capi del movimento ad una profonda revisione di fini e di mezzi.





Il movimento padovaniano si estende

    Ma gli avvenimenti precipitano: avvenne la marcia su Roma. Improvvisamente Aurelio Padovani divenne il Vice-Re di Napoli.

    Passati i primi giorni di perplessità e di spavento, sopratutto passato il fugace entusiasmo meridionale per le manifestazioni coreografiche del partito trionfante, la realtà politica cominciò ad emergere dalle nebbie delle chiacchiere dei piccoli trionfatori.

    I vecchi ceti trasformistici, i nuovi ceti emersi dai movimenti precedenti e sistematisi attraverso le vittorie elettorali, insomma tutti quelli che si erano già innestati nel vecchio tronco trasformistico, divennero di colpo antistato. Le piccole minoranze armate, dilettandosi di manifestazioni prettamente mimetiche, poco preoccupandosi della reale situazione del paese, credettero di dichiarare immediatamente la guerra a tutto il mondo, e così iniziarono occupazioni di pubblici uffici, violenze private ed altre simili manifestazioni, che ebbero il pregio di frazionarsi, comune per comune, secondo le varie configurazioni locali.

    Naturalmente queste azioni, dato il loro carattere di municipalità, erano assolutamente prive di un filo unico conduttore, e si rivolgevano ora contro i così detti nittiani, ora contro i giolittiani, ora contro i democratici sociali e liberali, riuscendo poi, per forza d'incidenza, ora a favore dei nittiani, ora a favore dei giolittiani, ora a favore dei democratici sociali e dei liberali.

    Così il fenomeno di adesione alla realtà trasformistica incominciò subito.

    Là dove il fascismo era rappresentato da elementi amici del partito al potere furono sollecitati provvedimenti contro le minoranze; là dove era rappresentato dalle opposizioni s'iniziò la lotta alle amministrazioni locali; là dove, invece, non era stato ancora accaparrato fu una ressa terribile di gente di ogni risma per infiltrarsi.

    Prendete, dunque, quei fenomeni descritti a proposito del primo movimento dei combattenti, ingranditeli a dismisura, esasperateli fino all'impossibile ed avrete il quadro della situazione campana durante quel periodo.





    In verità Aurelio Padovani tentò di fronteggiare questo vasto fenomeno politico, cercando sopratutto di infondere all'azione dei suoi adepti un senso profondo di eticità attraverso la formula dell'intransigenza.

    Ma questa formula, se ha un grande valore morale, non ha mai avuto un valore politico, specialmente per partiti di governo, e contrastava stranamente con la realtà del possesso del potere da parte delle supreme gerarchie fasciste, e, perciò, con la necessità di assorbire il maggior numero di forze possibili.

    Essa non era una formula d'attacco, ma di difesa e perciò non poteva non indebolire lo sforzo politico di chi era costretto ad usarla.

    Tuttavia Aurelio Padovani brancolò superbalmente nel caos, cercando sempre di costruire il nuovo mondo. Formò sezioni, ne sciolse, destituì fiduciari, rifece direttori, impastò, spastò, sempre cercando di raggiungere una perfezione politica che era una categoria puramente formale.

    Questo sforzo, assurdo dal punto di vista politico, ma bello dal punto di vista morale, fu deriso universalmente, tanto sembrò impossibile che un uomo solo potesse, col semplice irrigidirsi, riformare il costume politico di una regione.

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    Ma il trasformismo non si die' per vinto e mentre i cavalli di Troia, spinti nel feroce esercito padovaniano, divenivano più numerosi, quelli che non avevano potuto entrare nella categoria dei privilegiati - timorosi di restare in dietro nella divisione delle grazie governative - si dettero a sfruttare la camicia azzurra.

    Così buona parte dell'antifascismo locale - cioè i nemici di quelli che erano riusciti a penetrare nel fascismo ufficiale - divennero nazionalisti, e noi vedemmo due dei partiti, affratellati al centro dalla comunanza delle idee e dalla gioia del conquistato potere nelle province bastonarsi di santa ragione.

    Talora l'abilità trasformistica dei capi arrivò fino al punto da tentare d'impadronirsi dei due partiti.

    Un autorevole e simpatico sindaco di uno dei più ameni comuni della mia provincia mi spiegava, all'inizio di questo svolgimento storico, che egli aveva preveduto tutte le eventualità e così mentre egli restava democratico, il nipote era riuscito ad ottenere l'incarico di costituire la sezione fascista ed il segretario comunale aveva già costituita la sezione nazionalista. Così - egli aggiungeva - i miei avversari debbono per forza essere... antinazionali.

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    Naturalmente, però, accanto a questi trasformismi da semplicioni, in lotta terribile tra loro, rimaneva in piedi il trasformismo più vero e maggiore: quello che si potrebbe dire delle competenze elettorali: i deputati.





    Questi signori compresero subito che il miglior calcolo politico era di restare al proprio posto, impugnando l'arma della coerenza.

    Muovendosi, lasciandosi prendere dal panico, mentre correvano il rischio di screditarsi tra la gente che odia ferocemente i girella, avrebbero contribuito ad accreditare la deduzione politica, che questa fermentazione di avventurieri grandi e piccoli corrispondeva effettivamente ad una mutata situazione politica - come si scriveva negli ordini del giorno di quell'epoca - e che i fascisti della prima, della seconda e della sesta giornata rappresentavano effettivamente il nuovo popolo meridionale.

    Ecco che i deputati meridionali concepirono l'ardito disegno di rimanere immobili mentre infuriava il mulinello. Era, questo un abilissimo modo di conservazione, ed una efficace politica verso il governo, assolutamente ignaro delle cose nostre.

    Se il governo - essi ragionavano - crede sul serio, con quella incomprensione della nostra anima che è caratteristica negli uomini del nord, che questi giovanotti inesperti rappresentino la terra bruciata, noi gli dimostreremo col solo fatto di restare immobili, che s'inganna a partito.

    Gli dimostreremo cioè che senza di noi non può governare, perché noi siamo la quintessenza del tecnicismo elettorale, conosciamo a menadito i bisogni e le aspirazioni del nostro popolo, e, perciò possiamo intelligentemente esercitare quella funzione di mediazione, cui lo stesso governo aspira.

    Certo che il fascismo ufficiale nell'ebbrezza del primo trionfo e nell'erronea convinzione di poter fondare un governo giacobino, non comprese nel primo momento che per il governo non era buona politica l'aspettare che Padovani ed i suoi seguaci riuscissero a conquistarsi la maggioranza nel Mezzogiorno, quando vi era una miniera di ministerialismo ad ogni costo pronta per essere sfruttata.

    Ma, a mano a mano che ci allontaniamo dalla marcia su Roma, e che si profilerà sempre più l'aderenza completa della politica del Governo allo stato delle vere forze del paese, non può non emergere nella sua giusta luce l'importanza storica, che ha avuto in questo periodo la resistenza passiva dei deputati meridionali.





L'intransigenza padovaniana

    Intanto la lotta tra il fascismo ed il nazionalismo campano, balzando in prima linea, contribuiva sempre più a proiettare nell'ombra la resistenza passiva dei deputati, desiderosi e grati alla tregua loro concessa.

    Questa lotta sorgeva come conseguenza della cosiddetta "intransigenza padovaniana" ed assumeva il suo aspetto più clamoroso in dipendenza del patto di pacificazione tra fascisti e nazionalisti.

    Bisogna riconoscere, e lo abbiamo già accennato, che il capitano Padovani, chiusosi nella formula dell'intransigenza, aveva tentato, per quanto poteva essere nelle forze di un uomo solo, di arginare i fenomeni di arrivismo.

    Inchieste feroci, da lui compiute contro fascisti della prima ora, scioglimenti di fasci, decretati con la rivoltella in pugno, avevano avvertito la gente che il capo della Campania voleva evitare la cuccagna.

    È vero sì che, dopo aver sciolto il fascio ostile alla amministrazione comunale, aveva dovuto per necessità di cose ricrearlo tra le creature dell'amministrazione, ma è anche vero che questa rigidità di concezione costituiva una potente remora all'ingresso di parecchi tra gli avventurieri più noti. Fu perciò, che il nazionalismo, partito buon ultimo nella corsa all'organizzazione demagogica, si gonfiò improvvisamente come un torrente, e, per naturale meccanica di cose si sentì avvampare di spirito antifascista, cioè antipadovaniano. Non fu certamente un antifascismo teorico, derivante da una diversa concezione della lotta politica, ma fu l'odio del servitore cacciato verso l'altero padrone.

    Tra i due partiti, identici per genesi, configurazione organica e teleologica, vi era un muro costituito dalla somma dei municipi in giuoco, e le teste rotte, che seralmente i buoni chirurghi partenopei riparavano, non erano certamente offerte in olocausto per il trionfo di una grande idea.

    Così il patto di pacificazione, votato a Roma dai capi, non si poteva mettere in esecuzione, a causa, proprio, di tutti questi municipi, congreghe di carità, ed altre pubbliche istituzioni che i contendenti si palleggiavano.

    Ma Aurelio Padovani credeva sul serio di possedere una grande idea. Egli si trovava in uno stato di esaltazione, che gli faceva apparire miracolosa la sua formula di intransigenza. Egli vedeva nel nazionalismo campano l'anticristo, il principio del male contrapposto al principio del bene e considerava reprobi tutti quelli che si opponevano o soltanto dubitavano dei suoi sforzi. E s'ingaggiò la lotta, in cui egli era destinato a sicura sconfitta.





I termini della lotta

    Stava contro di lui, prima di ogni cosa, quello stesso principio di rigida disciplina gerarchica, di cui egli si era fatto banditore tra le genti; la necessità dell'esecuzione del patto di fusione anche nella Campania, ove, certamente, non si presentavano condizioni diverse da quelle delle altre regioni; l'opportunità da parte del Duce di saggiare vittoriosamente la sua forza anche con i suoi discepoli, ed affermare in cospetto di tutti i suoi propositi di riordinamento.

    Non gli giovava l'atteggiamento d'indipendenza e quasi di critica al riavvicinamento con la Chiesa, dipendente dalla antica appartenenza alla Massoneria.

    Gli nuoceva l'aver risollevata ed aver insistito sulla sterile formula della tendenzialità repubblicana, abbandonata definitivamente dal Duce ai piedi del trono, nell'atto di farsi riassorbire dal sistema di Casa Savoia.

    Ma sopratutto aveva contro di sé tutte le vecchie forze monarchiche e costituzionali della regione, che, pur intuendo l'inefficacia rivoluzionaria di quella fermentazione, temevano che la prolungata insistenza su di un programma di intransigenza potesse consolidare le posizioni locali dei loro giovani contradditori.

    Queste forze, facenti capo al Presidente della Camera, ad ex Ministri e Sottosegretari di Stato, installate saldamente su posizioni elettorali incrollabili, sorrette in varii punti da una milizia volontaria più potente del fascismo stesso: la malavita, premevano terribilmente contro il povero Padovani, reo di non volersi piegare ai loro voleri.

    Sembrava che la lotta fosse guidata dal deputato Greco, ma, in verità, quest'ultimo era soltanto un simbolo.

    Il suo nome, assunto ad indicare il fascismo transigente contro quello intransigente racchiudeva le speranze di quei gruppi che intendevano riprendere attraverso il fascismo la funzione di mediazione fra il Governo ed il paese.





    In verità - e quest'osservazione s'impone senz'altro per evitare illazioni esagerate da questa posizione di fatto - il padovanesimo non aveva niente di rivoluzionario, perché esso riproduceva integralmente l'accennata organizzazione medianica tra Governo e paese. Nelle province i fiduciari e i direttori non miravano ad altro che ad essere assunti dalle popolazioni come fonti di favoritismi, e l'azione intransigente verso i capi diventava transigente verso i gregari, purché disposti a tradire.

    Ma, appunto perciò, minacciando di riuscire questo svolgimento politico a nient'altro che ad una sostituzione di persone, destava allarme grandissimo, e da ogni parte si esplicavano sforzi colossali per non distruggere nella mente delle popolazioni il rapporto esistente tra rappresentanti e rappresentati.

    Bisogna pur riconoscere che il padovanismo, esiguo all'epoca della marcia su Roma, era assolutamente priva di un'èlite che potesse lottare sul campo del trasformismo con i vecchi uomini politici.

    Conseguentemente in tutta la Campania perdurava una situazione di cose, assolutamente insostenibili, perché mentre da una parte l'azione padovaniana non aveva gran che scalfito le posizioni trasformistiche dei più forti deputati campani, dall'altra parte per la secchezza della sua intransigenza non faceva prevedere maggiori trionfi per l'avvenire sia nel campo di un rivoluzionarismo effettivo, sia nel campo della stessa trasformazione.

La sconfitta dei padovani

    In tali condizioni di cose il Governo non poteva non essere contro l'intransigenza campana.

    Infatti di fronte all'insufficienza rivoluzionaria del fascismo al centro, che non riusciva a superare il trasformismo costituzionale prima, e parlamentare dopo, ma si spingeva ormai verso ritorni parlamentaristici attraverso il paese, il Governo non poteva più sopportare sterili conati rivoluzionari alla periferia.





    Se Mussolini avesse potuto, se la meccanica della marcia su Roma non fosse stata soltanto quella di un'insurrezione seguita da una sostituzione di gabinetto, avrebbe egli stesso fatto quelle innovazioni istituzionali che gli sarebbero sembrate più opportune: ma, cessata la prima intenzione, il Governo non poteva sopportare pacificamente che la rivoluzione, fallita al centro, si riproducesse alla periferia, sia perché tutto ciò costituiva sostanzialmente un tentativo rivoluzionario contro il novus ordo che il governo aveva creduto di prescegliere, sia perché nessun governo in Italia può azzardarsi a fare sostanziali mutamenti quando ha il Mezzogiorno in subbuglio.

    Mentre Mussolini mirava, in maniera non larvata, ad adeguarsi quanto più era possibile al regime, sopravvissuto integralmente alla pretesa rivoluzione fascista, il padovanesimo gli creava una situazione politica di una stranezza inverosimile, perché mentre veniva ad attaccare proprio uno dei puntelli del regime, nella persona del Presidente della Camera, lasciava scoperta la posizione del Governo, che si trovava nella incredibile posizione di non poter servirsi del partito padovaniano perché intransigente, e di non poter aderire alle vecchie, ed ancora potenti forze costituzionali perché combattute dal fascismo ufficiale.

    Padovani stava fermo come una diga contro il furore delle acque, che urgevano da ogni parte e si infrangevano schiumanti contro la durezza della pietra.

    Ma, come qualsiasi diga deve finire per soccombere sotto il crescente urto dei marosi, così sul loro entusiasmo giovanile passò la marea. Il fascismo campano fu riassorbito nel partito ufficiale e le preoccupazioni transigenti del Governo ebbero una tregua, Padovani veramente cadde su una questione di disciplina. Egli fu espulso, quasi che la sua intransigenza fosse stata contro lo spirito del Partito!

    È questo uno dei tanti capricci della storia, una delle prove che gli uomini non sempre si accorgono della direzione che essi scelgono nel cammino.





    Il Partito non comprese che Padovani interpretava per suo conto - forse inconsciamente, ma plasticamente - l'unica ragione di vita del fascismo contro il trasformismo di governo, tentava l'unica via contraria all'assimilazione delle nuove forze nel circolo vitale, rappresentava, insomma, la prima trincea su cui cominciava la battaglia del Governo contro il Partito per disintegrarsi da questo e passare a rappresentare altri interessi, ed invece di sorreggere questo giovane, ed integrare il suo sforzo di quel contenuto ideale che forse alla rigidità dell'azione padovaniana difettava, non seppe far altro che espellerlo con un motivo regolamentare, come se si fosse trattato di un sergente dell'esercito punito con la sala di rigore!

    Così il partito non si accorse che consacrava l'inizio della sua decadenza e che dopo Padovani altri capi - rei di aver fallacemente creduto al contenuto rivoluzionario del fascismo - avrebbero dovuto essere sacrificati ai bisogni quotidiani dell'azione governativa.

Le ragioni della sconfitta

    Questa storia campana insieme eroica e grottesca, ingenua ed ironica, non è stata scritta invano, perché se i fatti umani possono servire a qualche cosa ed il loro studio non è un perditempo, debbono consentire che dalla ricerca delle cause si possa trarre ragione di evitare altre e più clamorose sconfitte. Così oggi deve emergere in piena luce agli occhi dei meridionali intelligenti che il movimento padovaniano è fallito perché mentre ogni azione politica unitaria è per definizione antimeridionale, non è possibile fare della politica unitaria differente anzi contraria a quella governativa.

    A parte la dissertazione se la marcia su Roma fu una rivoluzione o soltanto un'insurrezione - come oggi, finalmente, si comincia ad ammettere anche dai fascisti militanti - è certo che tale moto era una risultante di un vasto movimento politico-sociale, rivolto a rinsaldare il dominio dei vecchi ceti dirigenti settentrionali sullo stato italiano, cioè a rinsaldare le ragioni originarie di schiavitù politica del Mezzogiorno d'Italia.

    Ora tale moto non soltanto non andava incoraggiato da parte del Mezzogiorno, ma doveva essere combattuto con una netta affermazione circa la necessità di decentramento politico-amministrativo.





    Il decentramento era ed è tutt'ora l'arma potente che il Mezzogiorno e le isole dovevano brandire contro l'unitarismo delle classi dirigenti, nello stesso istante in cui queste s'indebolivano ed erano costrette dalla meccanica degli avvenimenti ad esercitare una vasta manovra di conversione per sostituire i dirigenti alla ribalta politica.

    Se Padovani avesse conosciuto la storia nazionale, avrebbe intuito che per fare la rivoluzione nel Mezzogiorno occorre ergersi a paladini degli interessi meridionali con programma nettamente autonomista, e forse oggi noi potremmo conoscere quale possibilità di successo abbia questa idea di battaglia nel campo della vita.

    Perché, se è vero che egli in tale ipotesi non avrebbe avuto l'apporto dei numerosi fascisti, che, prima o dopo la marcia su Roma, urgevano intorno al Partito per ragioni di assestamento trasformistico, avrebbe però certamente contribuito a creare un'elite di giovani, che nel momento del collasso nazionale avrebbero bandita la grande idea, e, costretto il risorgente unitarismo settentrionale a venire a patti con le nuove generazioni del sud.

    Invece l'inconsistenza ideologica padovaniana, esasperata dalla brutale malvagità di alcuni suoi seguaci, servì a distruggere qualsiasi germe che avesse potuto fruttificare in tal senso, perché prospettò agli occhi delle popolazioni attonite le vecchie classi trasformistiche come amanti della libertà e della giustizia, tanto che si può sicuramente affermare che non pochi deputati del vecchio regime, già consunti dall'esercizio del potere, hanno riacquistato novelle simpatie appunto a seguito delle stupide e sterili persecuzioni ricevute.

    Insomma, mentre all'agitazione padovaniana è mancato il soffio di una grande idea, perché costretta entro i limiti di un assestamento trasformistico sulla base della fermentazione naturale dei combattenti, ha avuto contro, se non come reazione contrastante, per lo meno come resistenza passiva, l'unica grande idea politica, in nome della quale le plebi meridionali avrebbero potuto irrompere sulla scena della vita nazionale.

Guido Dorso