Studi di storia della scuola

MONOPOLIO E LAICITÀ NEL '70

    Luigi Cibrario, nella Storia di Torino, ci informa che "nel 1335 il giudice ed alcuni savi del consiglio esaminarono maestro Guglielmo di Pene inferiore, che domandava l'ufficio delle scuole di grammatica, e trovatolo sufficiente, gli dier le scuole per un anno", ordinando che "niun altro maestro potesse aprire scuola in Torino" e stabilendo il compenso dovuto dagli scolari. Nel 1346 "ebbe le scuole" per due anni tal Bertramino de Cumini da Milano, al quale il Comune assegnò una casa, essendo le scuole di grammatica specie di convitti, e dodici lire viennesi l'anno di sovvenzione, col patto di mantenere una continua residenza in Torino e di insegnare tutto l'anno e a qualsiasi scolaro. Il Comune stabiliva inoltre il compenso dovuto dagli scolari e decretava: "niuno insegni grammatica per detti due anni in Torino, eccettuato soltanto i preti ed altri che ammaestrano qualche fanciullo". Qui abbiamo la tendenza delle autorità ad estendere la protezione, ma, al tempo stesso, a vincolare la condotta dell'insegnante.

    L'interesse delle autorità a controllare l'insegnamento, interesse che forse era costituito essenzialmente dal desiderio di garantire alle famiglie l'idoneità morale e professionale del docente, e l'interesse dei maestri ad esercitare il proprio mestiere in condizioni di monopolio, coincidevano. Questo protezionismo scolastico faceva della scuola una specie di appalto.





    La libertà d'insegnamento, dal 1400 al 1700, appare, più che altro, lotta tra le Università, tendenti a conquistare, ognuno per se, il privilegio del monopolio.

    Questo hanno capito pochissimi, per scarsa conoscenza storica della questione. Un errore frequente, ad esempio, è quello di ritenere che l'università di Torino fosse una specie di cattedra ambulante, e di dire che si trasferì, in periodi successivi, a Chieri, a Savigliano e a Mondovì. Vero è che emigravano i docenti ed erano seguiti di gran parte degli scolari, ma non si tratta di nomadismo dell'Università di Torino, bensì di concorrenza tra quella e le altre Università. Nel 1421 Chieri aprì uno Studio in concorrenza con quello di Torino, riuscendo a portar via e gli insegnanti e gli scolari. Decaduto le Studio di Chieri, Savigliano fonda uno Studio. Solo nel 1436 Torino riesce a riaprire la propria Università. Lo sforzo dei principi, da allora, fu quello di assicurare all'Università di Torino un certo numero di allievi e di insegnanti. Carlo Emanuele II vieta, nel 1584, ai Collegi di Mondovì di insegnare pubblicamente qualsiasi facoltà insegnata nell'Università di Torino, sotto pena di cento scudi di multa per ogni lezione. Carlo Emanuele II stabilisce con la sua R. Patente (2 ottobre 1674) che nessuno sia ammesso agli esami di laurea senza una dichiarazione dei professori dell'Università di Torino, dalla quale risultasse che l'esaminanda aveva studiato sotto lettori approvati e nella forma prescritta dalla legge.

    Per tutto il seicento assistiamo all'alterna vicenda di libertà e monopolio scolastico nella lotta non mai stabilmente risolta tra l'Università di Torino e i Collegi dì Mondovì, frequentati specialmente da studenti genovesi, e quindi difesi dagli interessi del commercio locale.





    Solo con Vittorio Amedeo II si iniziò una coerente politica di monopolio, laica di fronte al pericolo gesuita. Il suo monopolio non era circoscritto agli alti studi. Per cui l'Università era quello che doveva apparite a Napoleone I: il centro regolatore di tutto l'insegnamento. Dice, infatti, la sua Costituzione: "tutte le scuole della capitale e delle province avranno un'unità, benché alcune vengano mentovate come cose fuori dell'Università solamente a cagione della diversità del sito; epperò tutte le scuole che dalla grammatica inclusivamente fino a tutta la teologia verranno dovunque siasi destinate, debbono considerarsi come diramazioni, parti e membri della Università, e quindi alle stesse disposizioni omninamente soggette". Ai Gesuiti sostituì maestri e professori laici. I metodi di tutte le scuole vennero minutamente prescritti dal governo e non fu lecito scostarsi dal programma ufficiale.

    Si posero le basi della scuola secondaria, che fino allora era stata una larva, fondando, in ogni capoluogo di provincia collegi di istruzione media.

    A questa politica, continuata sistematicamente dai successori di Vittorio Amedeo II, potremmo giustamente rimproverare di aver aggravato il monopolio universitario, ma bisogna tener presente che gli alti studi erano abbandonati all'arbitrio di gente che distribuiva titoli, facendone un mercato, come era dei marchesi del Carretto, signori di Mombaldone, che avendo ottenuto dall'imperatore Leopoldo I l'autorizzazione a creare dottori di qualunque facoltà, e maestri e baccellieri, vendevano i titoli a quattrinai ignoranti.





    Ci troviamo dinanzi a principi riformatori, il cui laicismo tende ad assicurare il loro governo dalle invadenze clericali e a conservare l'ortodossia religiosa compromessa dalle eresie ecclesiastiche. Dietro la figura di Vittorio Amedeo II si nascondono quelle dei suoi ispiratori: Francesco d'Aguirre e Scipione Maffei, autori di relazioni che servirono di base alla riforma scolastica, l'indirizzo anticurialesco dei quali coincideva con gli interessi politici del loro signore, bigotto tanto da sottoporre le scuole pubbliche al più opprimente confessionalismo, conservatore in modo così gretto da non curare minimamente la formazione dell'insegnamento primario e dominato da quello stesso pregiudizio di casta che portava Carlo Emanuele III a render quasi impossibile ai giovani di origine plebea l'adito agli studi superiori. Se in Piemonte i principi, viventi in un'atmosfera militare, burocratica e gesuitica, si decisero a porre mano a riforme che, considerando l'ambiente in cui si effettuarono, non si possono tacciare di eccessiva timidezza, fu perché tutto un vasto movimento innovatore stava maturando.

    Espulsi i Gesuiti nel 1767, Carlo III di Borbone, coadiuvato dal ministro Tanucci, intraprendeva, nel 1770, la riorganizzazione laicale dell'insegnamento medio di Napoli e nelle principali città del Regno delle due Sicilie. Nel Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, sotto il governo di Filippo Borbone, il Du Tillot e il padre Teatino Paciaudi, attendevano all' instaurazione del monopolio principesco su tutte le scuole: proibito l'insegnamento privato, costretti i chierici dei seminari episcopali a frequentare gli istituti pubblici, vietato l'uso dei testi non approvati dalle autorità civili, affidata la suprema direzione di tutto l'insegnamento al Magistrato dei riformatori degli studi. In Lombardia, sotto Maria Teresa e Giuseppe II, ispiratori i Giansenisti, si instaurava un organico ed uniforme regimi degli studi, si perseguitavano le scuole private, e si faceva dello Studio pavese un centro teologico di opposizione alla Curia, romana, in cui erano obbligati a compiere, i loro studi tutti i seminaristi lombardi. In Toscana, Leopoldo I, ispiratore Scipione de Ricci, espulsi i Gesuiti, nel 1773, accentrava nelle sue mani tutte le scuole, abolendo gli istituti privati ed iniziando una ardita riforma, dei seminari.

    Dando un'occhiata alle date vediamo che questo movimento ebbe in Piemonte le sue prime notevoli affermazioni.

CAMILLO BERNERI.