DELL'UNANIMITÀ IN POLITICA ESTERA
Dai tempi di Machiavelli in poi le persone evolute sanno che i contrasti delle classi e dei partiti sono inevitabili e necessari alla vita di uno Stato: ma i secoli non hanno potuto dar loro una certezza così sacra da relegare questa verità fra quelle assolutamente ovvie e da rendere inutile qualsiasi altra dimostrazione: basti per convincercene ascoltare i discorsi consueti intorno a qualche argomento di politica estera.
La vita di uno Stato è alimentata dalle forze contrastanti delle classi e delle categorie: ed è perciò necessario che ognuna di esse abbia il posto che le spetta: ma al di fuori di questa lotta, in una sfera superiore, se ne svolge un'altra ben più vasta e importante: gli attori ne sono, non le classi, ma le nazioni: e dinanzi alla maestà della Nazione gli interessi particolari non possono far altro che tacere. Questo il ragionamento comune: e di qui la, concezione di una politica estera a cui partecipa la nazione unanime: di qui la condanna di reproba o di traditore per chi guasti in qualche modo quella armonica e necessaria unanimità.
Eppure quell'unanimità, senza la quale sembra che un capo di governo non possa svolgere un'azione proficua, si rivela in pratica inutile o pericolosa. Perché tanta distanza tra le opinioni e i fatti?
Tutti devono volere il bene della Nazione: e se il bene si potesse conoscere altrimenti che facendolo, questa verità alquanto lapalissiana basterebbe a guidare la politica di un popolo: chi dubita che se esistesse un bene per una Nazione evidente agli occhi di tutti i cittadini, questi esiterebbero ad unire le loro forze per acquistarlo? Ma il mondo, come si sa, é un poco più complicato: donna Prassede sola era sicura di secondare con la propria opera i voleri del cielo. Al resto dei mortali, invece, non è così facile interpretare la volontà di Dio: non resta dunque loro che scegliere essi stessi il bene. E come è possibile che in una nazione i cittadini si trovino d'un tratto concordi nella scelta della migliore politica nazionale? Rinasce dunque il dissidio che si era voluto limitare alla politica interna: le classi e i partiti non possono anche in questo campo non far sentire le loro diverse esigenze.
E se non esiste per una nazione un bene di assoluta evidenza, a cui debba tendere, non esiste neppure un fine prestabilito, quasi assoluto, al di fuori dei quale essa non riconosca salvezza. Il fine unico è la grandezza della nazione, e questo fine può essere perseguito con, tanto grande varietà di mezzi da, rendere possibili le politiche più differenti. Infelice quella nazione che è capace di una sola politica! Ma la libertà di scelta necessaria all'uomo di Stato per adattarsi al continuo mutare delle cose, il rinnovamento di metodi e di fini, che gli è imposto spesso dalle esigenze ferree della realtà, come sarebbero possibili se non esistessero nel paese tendenze diverse ed imposte anche per la politica esterna?
E come potrebbero queste tendenze formarsi se non fosse concessa libertà di critica e se la nazione dovesse sempre seguire unanime l'azione dei suoi governanti? L'uomo di Stato non crea dal nulla; si trova di fronte a un complesso vivente di volontà a tendenze chiare e ben definite come a sentimentali "filie" che sono pure rudimentali tendenze politiche. Fra queste volontà egli deve scegliere quelle di cui può giovarsi. Né questi cambiamenti di metodi e di fini, che la politica impone, sono semplici trasformazioni di concetti e di sintesi: si tratta di qualche cosa di ben più vivo per un uomo e per un popolo.
Talora un uomo di Stato può rinnovare la sua politica sostituendo abilmente altre forze a quelle su cui sì appoggiava: altre volte invece, poiché un uomo è troppo legato all'opera sua, carne della sua carne, ed è inevitabilmente di capacità più limitata dell'intera sua nazione, è necessaria anche una sostituzione di uomini: talvolta ancora è inevitabile una sostituzione di classi. Quanto più in una nazione i cittadini hanno coscienza del posto che loro spetta, quanto più le correnti sono differenziate, tanto maggiori possibilità, offre a chi la governa, tanto più è capace di rinnovamento e, quindi più potente e più grande.
- Dunque, durante una guerra, i cittadini dovranno continuare a discutere per rendere più facile la vittoria? - Ma la guerra è uno stato eccezionale, né è utile curale i sani, come gli ammalati.
- Non è pericolosa anche in pace questa libertà di critica intorno ad argomenti così delicati? non sono pericolose le divisioni dei partiti su argomenti di interesse nazionale? - Così continuano i pavidi: ma i grandi uomini di Stato sanno giovarsi anche dell'opposizione, e sanno che i partiti non nuocciono, sicché non diventano, per dirla col Macchiavelli, "sette". E che i partiti non si trasformino in sette, non dipende tanto dai governati quanto dai governanti.
Del resto più che la libertà di critica, è pericolosa anche in politica estera, l'unanimità dei consensi. L'unanimità dà il carattere di assolutezza a ciò che per sua rottura è provvisoria; una questione politica, quando il popolo segue unanime il suo capo, diventa questione morale, peggio questione religiosa. E non è certo l'ideale per un uomo di Stato l'essere prigioniero dei propri governati e privo di libertà di fronte ai capi degli Stati rivali.
m. f.
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