IL MEZZOGIORNO
DOPO LA GUERRA

    A chi non si lasci ingannare dalla parvenza delle cose non potrà non apparire che la vita politica meridionale si mantiene, da dieci anni a questa parte, identica: si possono rilevare dettagli che precisano il quadro. Una ignoranza di popolo, che trova giustificazione nell'incuria governativa: una mortificante inattività delle classi alte, liete di conservare un predominio quasi feudale, intente a ricostruirlo con estrema rapidità, quando possa sembrare in pericolo.

    Pervade tutta la vita pubblica con i suoi tentacoli multiformi l'amministrazione, che trasforma ed attenta continuamente le conquiste elettorali.

    Mancano i partiti: prevalgono le sette, che si contendono con feroce accanimento il municipio e le congregazioni di carità.

    Poco sviluppato è il controllo finanziario, che ha rappresentato presso tutti i gruppi sociali il primo tirocinio popolare al governo della cosa comune. Diffuso è lo spirito d'intolleranza nel campo religioso, politico, morale.

    Arretrata, insufficiente la coltura: arma anch'essa di privilegio per le classi dirigerti, che si sforzano di derivarne quasi un nuovo diritto divino al potere.

    Tale paurosa visione trova complemento naturale nelle ugualmente adamitiche condizioni della società. Primitiva l'economia: cassaforte la pignatta murata: mitiche le comunicazioni: appena iniziato il commercio. Solo da poco, e per eccezione, é apparsa la donna nella lotta economica. Il proletariato non è ancora uscito dall'originario bozzolo della plebe. Nemmeno si accenna quello svolgimento sociale, che, col porre problemi più ampi - cui non risoluzione di sette può suffragare, ma azione di partito - slarga l'orizzonte politico agli individui ed ai gruppi.





    Mitico è il concetto dell'autorità, cui contribuiscono a vicenda due istituti non ancora ridotti al senso naturale delle cose: l'esattore delle imposte ed il birro. Pavido ed incerto è lo sviluppo della libertà, concepita sempre in funzione di una sciarpa tricolore o d'una stola.

    Una gigantesca rete di appaltatori involge le province: esercito di galoppini elettorali, cui, molto spesso, si concede in ricompensa il diritto di esser ladri.

    Tutta la politica viene osservata attraverso l'angolo visivo delle persone: tutta la lotta infuria intorno ad esse. Il cozzo di due uomini non solleva nemmeno casualmente una questione di principi. Un approccio di gruppi non determina altro che sostituzione di uomini nel seno delle Commissioni. È un feudalismo politico che ora si giova dei cittadini contro i provinciali, ora di questi contro quelli, e sempre per distruggere le autonomie degli uni e degli altri.

    In tale condizione di cose è facile intuire quale funzione eserciti la borghesia meridionale.

    Anzitutto occorre preliminarmente sgombrare il terreno da un pregiudizio che, ripetuto tradizionalmente, ha ora avuto la consacrazione ufficiale nell'ultimo discorso parlamentare dell'on. Mussolini.

    Il pregiudizio cioè che esista una "borghesia di professionisti prodi ed intelligenti che nell'Italia Meridionale rappresenta una classe definita storicamente, politicamente, moralmente".

    La borghesia dei professionisti meridionali che è poi quasi tutta la borghesia meridionale appare economicamente come parassitaria, non ha alcuna consistenza di classe politica, sia perché non lotta unita contro le altre classi, sia perché si fraziona per fornire contro le maggioranze i condottieri delle invide minoranze.

    Si può dire, anzi, senza tema di errare, che alla borghesia meridionale debba farsi risalire intera la responsabilità delle condizioni politiche del Mezzogiorno, perché essa, piuttosto che comprimere energicamente lo sviluppo politico delle altre classi sociali - braccianti, contadini, piccoli proprietari, artigiani, piccoli merciai rurali - ed impedire che possano assurgere ad una visione autonoma della lotta politica. I suoi membri, in lotta eterna fra di loro per il predominio locale, forniscono l'inizio di tutte le sedizioni, e sono sempre pronti - con la violenza e con la frode - a far credere alle plebi che esse lottano per ideali propri.





    Dovunque è il partito del medico-condotto contro quello del farmacista, o del segretario comunale contro quello del maestro fiduciario: una lotta di feudalismi per impadronirsi del municipio e di là favorire i fedeli ed opprimere gli avversari.

    Tutta la lotta è, dunque, intorno alla cassa del Comune, e, poiché essa si svolge entro l'orbita delle leggi dello Stato, finisce quasi sempre per rasentare il Codice penale e sugli addebiti amministrativi la Prefettura riesce ad innestare una serie di ricatti legali a favore dei partiti dominanti.

    È perciò che tutti i partiti meridionali sono, per lo meno tendenzialmente, ministeriali. Se essi sono al potere debbono essere ministeriali per evitare le noie delle inchieste amministrative, se, invece, all'opposizione, aspirano al favore del Governo per poter detronizzare gli avversari, e sottoporli al vaglio dell'esame degli atti amministrativi.

    È tutta una serie di ricatti che risente della ristrettezza dell'ambiente, in cui si producono, e che deriva dalla pura meccanicità del voto delle masse.

    Sono ormai sessanta anni che si è costituita, l'unità d'Italia e le condizioni della lotta politica nel Mezzogiorno permangono le stesse.

    Creata questa unità da ideologi in continua contemplazione degli stati, sorti dalla maturazione nazionale dei diversi popoli europei, sacrificò completamente la complessa varietà politica e culturale delle varie genti italiane, senza riuscire a darle anima unitaria.

    Da allora il problema politico meridionale si condensa tutto in una mediazione continua tra i vari governi succedentisi al centro e le inerti masse meridionali, assenti dalle istituzioni: mediazione esercitata da deputati meridionali, che portano ai governi in carica i voti e la tranquillità delle masse meridionali e ne ricevono favoritismi ed impunità per i propri protetti.





    Così avviene che il popolo il quale crede, deponendo una scheda, di compiere un atto rivoluzionario, finisce per votare i suoi aguzzini perché il deputato è, quasi sempre, soltanto eletto dal Sindaco, e il Governo in carica per ottenere il voto del deputato deve proteggere il sindaco.

    Così interessi puramente nordici trionfano in Parlamento mercè il sussidio dei voti meridionali.

    Sorge, quindi, nel paese - e se ne vede storicamente la giustificazione - il trasformismo, perché esiste, in ogni momento, nel Parlamento una massa di votanti, ansiosi del favore ministeriale, necessitati dallo stesso sistema elettoralistico, di cui sono l'espressione, a chiedere sussidio per i pochi interessi privati che rappresentano; ed esiste, in ogni momento, anche per governi, che nel paese sono in nettissima minoranza, la possibilità di creare durature combinazioni politiche, cementando, attraverso una sintesi non hegeliana, gli interessi di qualche gruppo del nord con gli interessi di tutti i ladruncoli dichiarati contabili nel sud.

    Ne si può uscire da questo sistema votando per le opposizioni, perché queste, prodotto dello stesso clima storico e sociale, non aspirano ad altro che a soppiantare i deputati di maggioranza nella loro funzione trasformistica.

    Si comprende ora perché siano falliti i pochi tentativi fatti per iniettare una vita nuova nelle stanche vene delle classi politiche meridionali.

    Il disagio di tale ordine di cose è stato notevolmente aumentato dalla guerra.

    A chi imprenda a studiare con animo scevro da preconcetti e da miracolismi l'influenza che questo grande fatto storico ha esercitato sulla questione meridionale, non potrà sfuggire che, mentre la guerra - pur avendo seminato qua e là germi eminentemente rivoluzionari - non è riuscita a dare la spinta perché il popolo meridionale entrasse finalmente nel quadro della vita politica nazionale, tuttavia ha lasciato confusamente intravedere alle masse che la vecchia immobilità era non soltanto indecorosa, ma addirittura dannosa.





    Difatti, se da una parte la guerra ha rappresentato un grande fatto unitario, e, perciò, sotto un certo profilo, antimeridionale, ha però dall'altra parte contribuito, con l'obbligatorietà del servizio militare, ad elevare in più vaste categorie di cittadini il tenore generale della vita e quindi a provocare fermentazioni nuove che non potevano non avere riflessi anche nel campo della politica.

    Ma, siccome tali fermentazioni non corrispondevano a maturazione di vecchi, oppure a formazione di nuovi ceti sociali, ma ad un indistinto bisogno dì novità, mentre non riuscivamo a sboccare in nuove manifestazioni politiche sentivano tutto il disagio delle vecchie forme, da cui erano impotenti di sollevarsi.

    Tutti i movimenti sviluppatisi nell'immediato dopo guerra, per il semplice fatto del loro verificarsi, hanno dato la sensazione di un'oscura coscienza politica meridionale, tuttora in formazione, ma hanno riprodotto nel loro caratteristico atteggiarsi la vecchia forma trasformistica, che si dimostra così, espressione fedele di un ciclo storico e sociale, non peranco superato dagli sforzi delle nuove generazioni, affioranti alla vita pubblica.

    Ed infatti, basta prendere in esame i primi movimenti sviluppatisi nel Mezzogiorno - azione del P. P. I. e movimento dei combattenti per convincersi della verità di queste proposizioni.

    Nessun partito aveva sulla carta maggiori probabilità di successo del Partito Popolare Italiano, sia per la profonda cattolicità del popolo meridionale, sia per il programma che un meridionale di genio - Luigi Sturzo - aveva saputo predisporre a contenere entro le sue pieghe riposte, non soltanto le necessità del presente, ma anche le più superbe ed audaci previsioni dell'avvenire.





    Ebbene, che cosa è avvenuto del Partito Popolare nel Mezzogiorno? La risposta è semplice: il giovane partito è stato assottigliato, assorbito, disperso nel trasformismo.

    Si votò per i candidati, divenuti popolari per alchimistiche combinazioni locali, non perché si vedesse in essi i rappresentanti di quelle idee e di quel programma, ma per simpatia personale, o per ragione di contrapposizione, quando non anche per ragioni di favoritismo.

    Egualmente si esaurì l'azione dei combattenti.

    Tornati dalle trincee, questi giovani portavamo nell'animo un vago istinto di novità. Avevano peregrinato per quattro o cinque anni, avevano combattuto contro o a fianco di popoli tra i più civili di Europa, erano, insomma, stati sottoposti ad un'incubazione forzata: nessuna meraviglia, che ad una forma di romanticismo politico, vagamente maturato nei loro spiriti, sembrasse indispensabile la distruzione del vecchio ordine.

    Mentre nelle province settentrionali tutto questo romanticismo politico mirava - per quanto in forme disordinate e tumultuose - a superare la vecchia organizzazione borghese, corrispondentemente al grado di sviluppo ivi assunto dalla lotta di classe, nel mezzogiorno d'Italia mirava a distruggere e superare la concezione trasformistica.

    Ma, siccome non si trattava di un movimento, espresso da una élite di classe, non poteva non ricadere nello stesso inconveniente che imprendeva a combattere.

    Propugnatori del movimento erano sopratutto i giovani ufficiali, in massima parte figli di quei borghesi rurali, contro cui doveva sferrarsi l'offensiva.

    Educati dai loro padri, ed imbevuti durante tutto il periodo d'incubazione, d'idee feudali, essi, per quanto parlassero di "partiti organizzati", di "partiti di masse" ecc., non concepivano che la vecchia, tradizionale lotta municipale contro l'odiato, tradizionale avversario.

    I dissidi di famiglia, le risse per il predominio locale, in alcuni casi durate anni, non potevano in definitiva non permeare anche la nuova lotta.





    Seguaci del movimento non erano già gruppi di giovani, esponenti di una classe definita, solidamente poggiati su interessi specificati, e, perciò, costituenti organismi in grado di controllare le deviazioni dei capi e correggerle, ma era una folla indistinta di giovani artigiani e contadini, sbattuti attraverso l'inferno della guerra, senza nessun corredo di esperienza critica, sicuri soltanto - come i loro padri - dei vantaggi derivanti - anzi crescenti - dall'esercizio del mestiere o della coltivazione del campo, ma anche disposti, per quella serie di residui psicologici, derivanti dalle meraviglie accumulatesi nel loro spirito durante la guerra, a subire gli effetti di una propaganda attaccante soltanto la superficie delle cose.

    È così che la lotta, guidata spiritualmente dai padri, contro cui doveva rivolgersi, combattuta da truppe bendate, non poteva rappresentare altro che un nuovo e maggiore trionfo dell'odiato trasformismo.

    Certo non poco aveva contribuito a fermentare nei giovani spiriti la più vasta conoscenza del nord dell'Italia, il maggior contatto con forme di vita più avanzate nel grado della civiltà; ma questa fermentazione se giustificava la smania delle novità, non aveva approdato alla formazione di una superiore coscienza degli interessi in giuoco, anzi aveva maggiormente contribuito a nasconderli sotto il falso velame delle parole. Incapaci di risalire alla causa fondamentale dei loro insuccessi, riposta appunto nella mancanza di una dottrina politica aderente agli interessi, i giovani reduci attribuivano la colpa della loro mancata azione rivoluzionaria ora a questo, ora a quel capo, ora a questo ora a quell'indirizzo.

    E così aderirono, voltata volta, secondo la cieca logica dell'irrazionale, al partito del Rinnovamento, o alla democrazia, al partito liberale o a quello fascista, rifugiandosi poi di quando in quando, dopo vari insuccessi e delusioni, nella formula dell'apoliticismo, che perciò, era un comodo velo per nascondere tra più intenso anelito di politicità.





    Desiderosi di superare con un atto poderoso di volontà lo stagno mortificante del trasformismo, essi si affannavano a svolgere un'azione autonoma, ma costretti dalla meccanica del movimento ad agire nel campo municipale, e privi, com'erano nella generalità dei casi, di uomini pratici di amministrazione, ricadevamo volta a volta nelle mani dei capi locali, estranei al loro movimento, che si affrettavano ad inserirli nel sistema da distruggere.

    Altrove, invece, i vecchi amministratori sfuggivano la presa, ritirandosi nell'ombra, ed attendevano dalla giustizia riparatrice del tempo e dall'imperizia avversaria un ritorno trionfale.

    Così il movimento, privo di profonde ragioni ideologiche che gli dessero un'anima, abbandonato agli effimeri risultati di una fermentazione naturale, battuto in breccia dalla realtà quotidiana, si esauriva, si disfaceva in conati vani.

    Nel frattempo le vecchie classi trasformistiche correvano ai ripari, e, favorite mirabilmente dalla crisi economica che incombeva sul paese, sbandavano facilmente le esigue schiere dei rinnovatori.

    Le restrizioni dell'emigrazione europea ed ocèanica e la crisi degli studi contribuivano fortemente a mettere alla mercé dei vecchi le nuove schiere dei riformatori.

    Difatti la disoccupazione, che infieriva tra i reduci, mentre accentuava il fermento, era pure la ragione principale di talune sconfitte, susseguentisi a resistenze impossibili.

    Ma, mentre tutto ciò estraniava dalla politica i pochi giovani preparati ad affrontare il problema della vita, contribuiva notevolmente a minare il terreno per futuri incendi. Qua e là, però, il movimento dei combattenti raggiungeva la sua via, assumeva forme che preludevano al possesso di un orizzonte politico; il sorgere del Partito sardo d'azione poteva rappresentare un insegnamento notevole. Difatti, per un istante, il movimento dei combattenti , molisani, arieggiò nel centro dell'Italia Meridionale la magnifica organizzazione dei sardi di Lussu e di Bellieni.

    Sembra iniziarsi la rivolta contro il sistema, che avea signoreggiato l'Italia fin'allora, la rivolta dei ceti rurali del Mezzogiorno contro le oligarchie industriali del Settentrione: sembrava che dentro il ristretto circolo sanguigno della vecchia Italia fossero, finalmente, per proiettarci le nuove correnti meridionali.

    Ma si trattò soltanto di sprazzi ingannevoli che finirono per aumentare le tenebre.

    Intanto le agitazioni e i disagi del Settentrione non potevano non avere riflessi anche nel Mezzogiorno, nel senso cioè di distrarre da un compito rivoluzionario i pochi gruppi che si avviavano ad avere consistenza e dinamismo proprio.

GUIDO DORSO