LA POLITICA OLIGARCHICA
DEL FASCISMO

I

    Una spiegazione sintetica e unitaria del fascismo è difficile se prima non ci si rende conto che il fascismo è l'insieme di una serie di fenomeni storici, di movimenti di classe, non sempre necessariamente paralleli e concomitanti.

    È dubbio che numericamente la prevalenza del fascismo sia di elementi piccolo-borghesi, secondo la tesi di Luigi Salvatorelli.

    Buona parte degli squadristi venne reclutata tra i lavoratori della terra nelle zone tipiche delle ex "baronie rosse" (Mussolini: "Buona metà delle milizie fasciste provengono dalle plaghe rurali". Gerarchia, 25 maggio 1922).

    Ma, anche se si dovesse ammettere che la maggioranza degli elementi fascisti appartiene ai ceti piccolo-borghesi, resterebbe da farsi l'esame della relativamente maggiore o minor importanza dei singoli fenomeni, momenti, elementi, il cui insieme va col nome generico e generale di "fascismo", e che sono espressione di interessi e di collisioni di ceti non sempre e soltanto piccolo-borghesi.

    Qui la questione può essere, in gran parte almeno, di punti di vista. È innegabile che lo studio della parte avuta dai ceti medi nello sviluppo del fascismo, ne spiega quasi definitivamente alcuni momenti. Non ne spiega invece altri che sono forse di non minore importanza: per esempio lo sfacelo operato nel campo dell'organizzazione operaia socialista (specialmente dei lavoratori della terra), il carattere del movimento corporativo nazionale, la prevalenza dello squadrismo sull'organizzazione di partito; ed in generale tutti gli sviluppi successivi al colpo di Stato dell'ottobre 1922.

    È curioso, a questo riguardo, ciò che scriveva lo scorso giugno Aldo Valori nel Resto del Carlino, Mentre Luigi Salvatorelli non fa distinzione tra il movimento fascista fino al colpo di Stato e la successiva azione di governo pure esercitata in nome del fascismo, ed implicitamente riconosce nella dittatura del Partito Fascista la forma politica tipica corrispondente agli interessi ed alle ideologie dei ceti medi di cui è espressione, il Valori spiega l'opposizione liberale del Corriere della Sera al governo fascista proprio come l'opposizione tipica della piccola borghesia, mediocre e pigra, al governo "dinamico e rivoluzionario" attuale:

    "La verità si è che la forma mentis della borghesia coincide in modo perfetto con le iniziative editoriali del Corriera della Sera, e non è più liberale di quanto non sia fascista; è però sempre all'opposizione di qualunque governo che voglia farle cambiare strada, darle un compito diverso e più alto, chiederle sacrifici maggiori del solito e sopra tutto impedire di ciarlare e di credersi, attraverso le chiacchere, detentrice di ogni verità e indispensabile alla fortuna della Nazione.





    Il liberalismo è quello che ci vuole per questa classe necessariamente amorfa per la sua stessa estensione. Esso non significa nulla di preciso, ma adombra nella sua onomatopeia una vaga speranza di poter far il comodo proprio e di seguire in letizia il proprio egoismo. Inoltre esso si richiama alle memorie d'un passato non troppo lontano, in cui l'Italia viveva una vita moralmente meschina, sia pure, ma tranquilla e provincialmente sicura. Allora, le teste esaltate anelavano a domicilio coatto; ora sono al potere o vicino al potere: sorpresa terribile per il piccolo borghese, il quale ascolta con orecchio inquieto discorsi di tono troppo diverso da quelli d'un tempo; e ne deduce una minaccia per la sua libertà: libertà di vegetare senza troppi grattacapi".

    Non si può neanche affermare che la tesi del Valori sia assolutamente in contraddizione con quella del Salvatorelli. La verità è che quando si dice "ceto medio", "piccolo borghese", ecc. ponendo tali termini vaghi in relazione ai concetti ben precisati di classe e di lotta di classe, si cade nella imprecisione già deplorata più innanzi.

    La piccola borghesia, i ceti medi, piccolo borghesi, ecc. non formano una classe. Essi sono denominati secondo la caratteristica loro più spiccata: quella di essere intermedi rispettivamente alla borghesia capitalistica ed al proletariato. Ma questa sommaria indicazione topografica non basta ancora ad assegnare ai vari (e tra loro diversissimi) ceti intermedi, la caratteristica di classe, necessariamente una ed omogenea.

    I socialisti considerarono quasi sempre la lotta di classe come sviluppo di due sole classi ben definite e separate tra di loro: borghesia e proletariato. Sarebbe deplorevole che al malinteso dicotomismo di un tempo si aggiungesse oggi l'errore di ritenere la società nettamente divisa in tre classi, omogenee per interessi ed ideologie, in lotta tra di loro.

II.

    Del testo lo stesso Salvatorelli sembra accorgersi della possibilità di un equivoco, e, dopo di aver riferito alla piccola borghesia ed al fascismo i termini di classe e di lotta di classe, spiega come il "mito-Nazione (sia) per la piccola borghesia il vessillo della sua rivolta; la sua lotta di classe contro capitalismo e proletariato (consista) nella negazione del concetto stesso di classe, e nella sua sostituzione con quello di Nazione". In ciò è il riconoscimento, poi esplicito, che "la piccola borghesia (è) troppo debole e inconsistente come classe organica - cioè detentrice di un potere e di una funzione economica -- per poter lottare sul terreno classista contro le altre due, e per portarsi una sua ideologia".





    Quali strati sociali, quali ceti comprende la piccola-borghesia? Salvatorelli la distingue essenzialmente in due categorie, piccola borghesia tecnica: "i professionisti tecnici, che fanno parte dei processi produttivi ed aderiscono, quindi, intimamente alla struttura della società capitalistica" e piccola borghesia umanistica: "impiegati dello Stato e degli altri enti pubblici, minori esercenti le cosiddette professioni liberali, ecc.", la cui mentalità "si riassume in una parola sola: retorica". Queste due distinzioni possono essere accettate benissimo, ma certo sono ancora insufficienti. Ci sotto vasti strati sociali non capitalistici e non-proletari che non vi trovano classificazione: i piccoli commercianti, i piccoli e medi proprietari agricoli, ecc. Ma già la stessa distinzione fatta da Salvatorelli ci presenta non una piccola-borghesia divisa in due categorie, ma due distinti e caratteristici strati sociali, aventi tra loro moltissimi punti di differenziazione e pochissimi comuni. Giovanni Ansaldo ha fatto risaltare questa fondamentale differenza descrivendo minutamente i due tipi presentati dal Salvatorelli. (Lavoro, 3 giugno 1923).

    È difficile distinguere con termini rigorosi la borghesia propriamente detta, od alta borghesia, dalla media e dalla piccola. Il Salvatorelli esemplificando, ci dice soltanto che per il piccolo borghese si deve intendere il professionista a "clientela ristretta e meschina, perché i grandi avvocati o i grandi medici rientrano nell'alta borghesia e ne posseggono la mentalità".

    Ci pare che il Salvatorelli si accosti per questo punto al Proudhon. Le classi non sono soltanto delle categorie economiche, come sostiene Marx, ma un fatto morale. Ma, ed allora? Quale distinzione tra borghesia e piccola-borghesia? Dov'è la borghesia? Le poche centinaia di finanzieri che dirigono l'accumulata ricchezza delle nazioni non formano una classe. Credo che sia utile risalire ai precedenti storici. La rivoluzione francese infranse gli "stati" separando violentemente il vincolo giuridico comune di borghesia e di popolo, ancora più odioso alla borghesia che la forzata distinzione della nobiltà (Tocqueville). Il progresso economico ed il regime politico democratico favorirono il rapido crearsi di nuove distinzioni in seno alla borghesia. I nuovi ceti non avevano più il carattere corporativo rilevato nella borghesia dell'antico regime dal Tocqueville, ma erano prodotti dalla tendenza osservata poi da Marx e teorizzata nel Manifesto Comunista. Parte della borghesia dell'antico regime, colla rivoluzione assunta la direzione dell'attività capitalistica, venne creando gli attuali ceti "alto capitalistici" od "alto-borghesi". Quell'altra parte, cui l'esiguità del capitale "non basta all'esercizio della grande industria e la concorrenza dei maggiori capitalisti li schiaccia" le cui "attitudini tecniche hanno perduto valore coi nuovi metodi di produzione", tende a cadere sul proletariato, e vi cade quando non trova più posto nell'apparato complesso del potere borghese (nel commercio, nell'organizzazione politica, ecc.).





    Lo sviluppo economico favorendo il sempre maggior accentramento in poche mani del capitale, lascia tuttavia un margine che permette ai vari ceti piccolo-borghesi di resistere alla caduta nel proletariato. Ma è dovuto anche al tendenziale accumulamento capitalistico ed alla resistenza dei ceti medi se si ripete un'altro fenomeno già osservato nelle classi dell'antico regime: la rassomiglianza tra gli appartenenti ai ceti alti e piccolo-borghesi. Tocqueville notava che alla fine del secolo XVIII "in fondo tutti gli uomini posti al di sopra del popolo si rassomigliavano, nelle idee, nelle abitudini, nella cultura, nelle tendenze, nei divertimenti e nella lingua". Oggi è difficile distinguere un alto da un piccolo borghese nelle idee, nella cultura, nelle tendenze. Sola distinzione è quella economica, pur essa insufficiente.

    Se è vero, come dimostra di credere il Salvatorelli, che la distinzione tra le classi è cosa più complessa della catalogazione marxista secondo la divisione del lavoro, è vero anche che una profonda, sostanziale differenza - ai fini della lotta politica - non esiste tra alta e piccola borghesia.

    Il borghese, anche se non proprietario, partecipa ugualmente della mentalità di questi, e difende l'attuale regime che può portarlo alla proprietà, che gli dà o che può dargli un potere nello Stato, sia sotto forma di mandato rappresentativo, o di potere esecutivo, burocratico, poliziesco, ecc. La distinzione di "piccola borghesia" nacque dunque dallo sviluppo economico, nel seno della borghesia propriamente detta; ed il termine di classe media fu adottato come conseguenza della concezione dicotomistica proposta dalla propaganda socialista.

    Ma c'è una tesi di Marx che è in stretta relazione con quanto abbiamo sopra detto e che interessa particolarmente dal punto di vista della identificazione del fascismo colla lotta di classe della piccola borghesia. Scriveva Marx (Das Komm. Man., Cap. I):

    "I ceti medi, piccoli industriali, piccoli mercanti, artigiani, agricoltori, combattono tutti la borghesia per conservare la loro esistenza di medio ceto. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori; più ancora sono reazionari. Se mai sono rivoluzionari, non lo sono che in quanto si sentono minacciati di cadere nel proletariato, ed allora non difendono più i loro interessi del momento, ma quelli dell'avvenire, e abbandonano il loro proprio punto di vista per adottare quello del proletariato".





    In termini elementari poniamo ora un problema che ci pare fondamentale nella critica del fascismo. L'importanza che la piccola borghesia ha nella lotta politica e nella vita sociale è come fattore d'ordine. I ceti piccolo-borghesi sono per tradizione conservatori e per tendenza spontanea collaborazionisti, riformisti, parlamentaristi. (Vedi Sorel nelle sue Réflexions). Solo quando si sentono minacciati dalla tendenza fatale alla proletarizzazione, quando una crisi sociale li sovrasta, essi hanno la forza di ribellarsi e tentano difendersi con tutte le armi, "abbandonando - secondo Marx - il loro proprio punto di vista per adottare quello del proletariato", quasi dimenticando i loro interessi di ceto e di classe "per difendere quelli dell'avvenire", della classe che li attende.

    Ammesso dunque che il fascismo rappresenti la rivolta (i mezzi violenti, la caoticità sono spiegabili colla disperazione della lotta e colla tipica immaturità classista dei ceti piccolo-borghesi) della piccola-borghesia contro la minaccia della spaventosa crisi succeduta alla guerra, come si spiega che la piccola-borghesia abbia rivolto le armi del suo odio contro il proletariato anziché contro l'alta borghesia? Si tratterebbe di un particolare contingente, dovuto alla mancanza di abilità nei dirigenti del proletariato che non seppero mantenere il dovuto contatto coi ceti piccolo-borghesi, od è la tesi marxista che si dimostra fallita alla prova? Molti propendono per il primo corno del dilemma, e tra questi gli esponenti dell'Internazionale Comunista.

III.

    Il primo periodo piccolo-borghese del fascismo va fino agli incidenti di Palazzo Accursio a Bologna, e di Castello Estense a Ferrara, comprendendo in esso l'impresa di Fiume. Poi comincia il periodo negativo, di sfasciamento delle organizzazioni dei lavoratori della terra, pagato spesso dagli agrari, favorito dallo Stato nella speranza che la violenza fascista riesca a debellare il massimalismo ed indurre i socialisti riformisti alla collaborazione. Le organizzazioni non si sfasciano solo sotto i colpi dello squadrismo, ma anche per reazione spontanea di parte degli organizzati contro l'inconcludenza rivoluzionaria del massimalismo. Compiuta quest' opera coll'aver costretto il movimento operaio dall'offensiva alla difensiva, nasce la crisi tra fascismo urbano e fascismo rurale, tra democrazia repubblicana e conservatorismo reazionario. Il sanguinoso natale fiumano non ha grande eco nel fascismo, perché esso comincia a scorgere maggiori obbiettivi. D'Annunzio ha ceduto il posto a Mussolini, il garibaldinismo alla politica. È il periodo che si conclude nei tentativi di pacificazione, favoriti dalla Stato che vede dal crollo del massimalismo sorgere un nemico assai più pericoloso; voluti da Mussolini e dagli altri capi del fascismo urbano, piccolo-borghese, che temono il pericolo di essere ridotti a strumento di guardia bianca del capitalismo, alla funzione antipatica ed impolitica di manganellatori e distruttori del movimento operaio per conto della plutocrazia agraria e industriale, e vedono nel patto coi socialisti un rinnegamento dei fini rivoluzionari di classe da parte di costoro, senza alcun serio corrispettivo.





    Il prevalere della tesi mussoliniana fa costituire il Partito, che permetterà poi un disciplinamento dello squadrismo. Continuano le violenze agrarie ed antiproletarie, ma da questo punto l'essenziale del fascismo è negli sforzi di riorganizzazione e d'indirizzo politico autonomo, nella ricerca affannosa del programma, dei programmi in materia economica, politica, religiosa, come se il nuovo movimento sentisse in sé tanta forza da poter trasformare l'universo sul modello degli ancora embrionali gruppi di competenza. Il fascismo riacquista una caratteristica unitaria, piccolo-borghese (forse più apparentemente che nella sostanza) ed in prevalenza urbano, ma deve il suo successo, senza possibilità di equivoco, all'opera svolta nelle campagne dallo squadrismo, pagato dagli agrari, favorito dallo Stato, movimento reazionario, tipicamente conservatore, che ha preoccupato la piccola borghesia, anche fascista, prima di indurla a farsene un titolo di vanto ed a servirsene ai fini suoi particolari.

    Il "corporativismo nazionale" iniziatosi sotto gli auspici degli agrari diventa meno uno strumento di questi, e più un mezzo di propaganda politica del Partito come lo sarà più tardi del Governo fascista; lo squadrismo si ordina a milizia. La forza armata si dirige verso le città, che vuol parte sedurre e parte intimidire colla corografia guerresca, si disciplina pubblicamente. A questo punto - maturatosi parallelamente il processo di dissolvimento dello Stato, l'infiltrazione fascista nell'esercito e nella burocrazia politica: prefetture e questure - il fascismo non è più uno strumento di nessuno e neppure più, specificamente, l'organo di alcuna classe o ceto. È forza autonoma di una aristocrazia di giovani audaci fino alla temerarietà, animosi fino al fanatismo, ciecamente disciplinati alla gerarchia instaurata da un capo che ha su di essi ascendente enorme.





    Questa nuova fisionomia sarà conservata dal fascismo fino al colpo di Stato e dopo. Il Partito e la milizia si disciplinano nello sforzo che tende a realizzare i voti della "nuova nazione ", della giovinezza "della patria", ecc. tutte espressioni tipiche di questo periodo mistico ed eroico, che culminano nel regolamento della milizia dettato dal De Vecchi per inebriare le camicie nere, preparandole nell'attesa messianica della marcia su Roma, di cui non si fa mistero.

    E dopo la marcia su Roma chi può affermare che la politica di Mussolini sia ispirata dall'interesse dei ceti piccolo-borghesi? Soltanto tenendo ben presente che il fascismo al potere si considera superiore alle classi, investito in nome di Dio dalla forza dei manipoli, una aristocrazia di "qualità", si può comprendere lo spirito che ne anima i primi atti. Il fascismo è più e meno di un Partito, e le discussioni, che si stanno oggi svolgendo sulla maggiore o minore opportunità di sopprimerlo senz'altro, dimostrano come non coincida coi suoi quadri l'élite che governa lo Stato italiano. Il fascismo è un'aristocrazia chiusa, cui si può accedere soltanto apportando prestigio all'élite dirigente, ma non per partecipare gratuitamente agli utili della redditizia impresa. Difatti oggi non si accettano più domande di iscrizione al Partito Fascista, ma sono gli organismi quest'ultimo che invitano determinate personalità, ed individualmente, ad aderirvi. Così si dà il caso di persone, come il Gentile, che appena iscritte al Partito, sono automaticamente chiamate a sedere nel Gran Consiglio, in considerazione del posto che occupano nella gerarchia statale; così si spiega l'esistenza sopra il Consiglio dei Ministri del Gran Consiglio fascista; il legame strettissimo che unisce tuttora il Partito alla Milizia Nazionale, per cui si decade automaticamente dalla più alta carica coperta in essa, organismo dello stato, uscendo dal Partito fascista.

    La politica del governo fascista è quale spetta ad un'oligarchia del genere sopra indicato; determinata dalla preoccupazione di mantenersi al potere e di consolidarlo: largendo premi e protezioni ai ceti capitalistici, colpendo le imposte ed abbandonando alla mercé dei padroni di casa i piccoli borghesi che si accontentarono di belle parole, di bei gesti in politica esterna e in propositi inflessibili di risanamento finanziario; favorendo in ogni modo lo sviluppo del corporativismo fascista che, coi socialisti riformisti in via di addomesticamento, dovrà assicurare l'appoggio di alcuni ceti operai e contadini al governo. La sostituzione che quest'aristocrazia fa del mito di classe con quello di nazione si spiega in sé, è la giustificazione e la difesa ideologica del proprio potere, più che non un'affermazione tipicamente di classe della piccola borghesia, come vorrebbe il Salvatorelli.

ANDREA VIGLONGO.