LO SPIRITO GIRONDINO
CANDIDO - L'altro giorno poi non mi spiegaste più perché sembravate interessarvi dei modesti ed alquanto goffi conati del nostri improvvisati "Girondini". Mi diceste che a spiegare la cosa sareste andato per le lunghe. Ma io ho pensato: - Per spiegarsi le irrequietezze di certi déclassés della politica non occorrono molte parole, e l'amico Pococurante, per tradizione atavica, è abbastanza fornito di quell'eccellente sedativo di scetticismo, che fa tanto bene contro i calori di testa. Cosa potranno essere i lunghi discorsi di Pococurante? Tutto ciò mi ha molto incuriosito. POCOCURANTE - Vi ringrazio del - diciamo così - voto di fiducia, e sono confuso per aver stuzzicato la vostra curiosità senza volere, credetelo pure. È difficile ora che possa soddisfare la vostra aspettazione, presentandovi alcune idee, così come mi sono venute in mente in diverse occasioni, senza nessuna elaborazione. E comincerò col dirvi, per mettervi in pace col vostro "voto di fiducia" su di me, che non avevo preso equivoco sui nostri camuffati Girondini, lasciati meritatamente nella generale indifferenza; ma avevo avuto un semplice movimento di curiosità, in quanto che da alcuni mesi andavo studiando il fenomeno storico dei Girondini con un modo di vedere alquanto diverso, e, secondo me, più complesso di quello che non avessi adoperato finora. CANDIDO - Lo vedete dunque che avevo ragione d'incuriosirmi. Perdonatemi, vedo che è necessario intervistarvi. POCOCURANTE - No, per carità! Parlerò da me, se così volete. Allora togliamoci dalla folla. Andiamo verso i Frari, se non vi dispiace. Bisogna dunque che vi parli ancora di me. Questa mia idea circa una comprensione più contemporanea del fenomeno girondino, e quindi sulla eventualità d'invocare una "rinascita girondina", è sorta in me come un corollario della sfiducia, accresciuta e consolidata dalla esperienza degli ultimi anni, per tutte le varie specie e sottospecie di regimi di socialismo di stato (patriarcalismo, paternalismo, ecc.), come per le varie specie e sottospecie di frantumamento dello Stato (baronie mercantili, sindacati, dittature, ecc.). Una revisione non poteva tentarsi che risalendo da queste ultime esperienze alle origini comuni, dei presenti regimi... CANDIDO - Permettete una breve interruzione, tanto per intenderci meglio. Voi sapete che alcuni si sforzano di dare un grande valore di reazione anti-democratica a certi avvenimenti del dopo-guerra e quindi di negare quella "origine comune" riportata al l789, alla quale mi pare che voi accennavate come un datum storico. POCOCURANTE - Non ho nessuna esitazione a dichiararvi più apertamente che tale resta la mia opinione anche dopo aver vagliato quei tentativi da intellettuali di terz'ordine. È cattiva letteratura, nutrita di poche e confuse conoscenze storiche. Prima della guerra c'era l'impero dello Zar e per qualche aspetto lo stato tedesco, ai quali si potevano attaccare certe nostalgie. La guerra (è una constatazione, non è una frase tribunizia) ha fatto sparire gli ultimi grandi regimi basati su principi contrari a quelli della Rivoluzione francese. Ci sono dappertutto, più o meno violenti e anarcoidi, ma tutti con una medesima aria di famiglia, ristretti di numero e di mentalità, partiti reazionari e letterati che sentono influenze snobistiche, i quali di conserva fanno professione di anti-democrazia; ma la costituzione statale dell'Europa di oggi è tutta democratica, poiché si fonda dappertutto sul principio della sovranità popolare stabilito nei diritti dell'uomo. CANDIDO - Bisogna però tener conto del fenomeno russo, dove il regime reazionario dello Zar ha dato luogo ad un altro regime, che può dirsi anche reazionario, nel senso che è fondato su di un principio anti-democratico. E poi ci sono i generaloni spagnuoli. POCOCURANTE - Sì, però bisogna anche aggiungere che quell'unico tentativo serio di reazione anti-democratica è oramai anch'esso fallito, in quanto applicazione di un principio politico. Lo ha riconosciuto anche Lenin. Quanto ai generaloni spagnoli, va dato loro il merito della coerenza. Appena al potere, hanno esautorato Re e Senato ed hanno chiuse le Cortes. Viva la coerenza e la sincerità; ma per quanto? Perché finanche la Spagna si mostra oggi diffidente verso queste imprese. E dico "anche la Spagna", perché è il paese, che, insieme con la Russia, è stato il più refrattario ai principi della Rivoluzione francese. Russia e Spagna furono i due scacchi di Napoleone, Russia e Spagna hanno conservato caratteri spiccati dell'Ancient régime. Non è stato abbastanza notato come la Spagna prima della Russia abbia presentato un fenomeno di soviet (soviet borghese invece che proletario, ma questo non muta il suo carattere essenziale) in quelle juntas degli ufficiali, che sono le vere padrone dell'amministrazione militare e in parte della vita politica del paese. Ad ogni modo simili fenomeni sporadici non costituiscono una seria obbiezione alla constatazione iniziale. Anche dove partiti reazionari (e per intenderci una volta per tutte, dico reazionario per anti-democratico, di qualsiasi colore: cioè negatore dei principi della Rivoluzione francese, che reggono la nostra vita pubblica) hanno raggiunto il potere, si è visto che non avevano in testa nessun principio da sostituire a quello che volevano abbattere. E siccome essi hanno potuto conquistare il potere solo in quei paesi, nei quali lo Stato (democratico) attraversava un'ora di crisi; non essendo riusciti a risanare e rinvigorire lo Stato con un principio nuovo, si sono acconciati a vivere nella vecchia casa, sfogandosi, indispettiti e brontoloni, a mutare e rimutare posto ai medesimi mobili, a chiamar su una schiera di tappezzieri per ricoprirli di nuove stoffe vistose, per attaccare portieri ed arazzi sgargianti... Non dico che sia tutto male. Dovunque questo è avvenuto si tratta di paesi ancora agitati da complicate crisi economiche e morali del dopo-guerra. Coloro che hanno preso il potere in tali circostanze, si sono dovuti addossare pesanti fardelli. Ciò non bisogna dimenticarlo ed aiuta ad un sereno giudizio sull'opera svolta da questo o quel governo. Ma il giudizio analitico sui provvedimenti di governo è un altro discorso. Nel dare invece un giudizio sulle direttive, sui principi vitali di queste malcerte tendenze reazionarie sviluppatesi in Europa dopo la fine della guerra, bisogna riconoscere che esse o sono cadute nel vuoto, o, raggiunto il potere, non sono state in grado di individuarsi e di esprimere il loro intimo spirito di reazione, per cui si dicevano nate. Ora questa non è una circostanza trascurabile nella considerazione degli avvenimenti contemporanei in Europa, ma anzi sarà il fattore determinante del prossimo avvenire. Ci troviamo di fronte a casi tipici di "peccati contro lo spirito", peccati che non hanno rivalsa non solo in materia di fede, come insegna l'Evangelo, ma anche in quello che deve diventare materia di storia. Ad ogni modo non voglio soffermarmi nel giudizio. Tirando le somme dei fatti, che ho presentati alla vostra attenzione, mi pare che si possa concludere che una conseguenza politica della guerra è stata una definitiva affermazione delle forme democratiche in Europa (meno una parziale riserva per la Russia). Se si fermano a questa constatazione pura e semplice i fautori della "guerra democratica", i wilsoniani anglo-sassoni, i bissolatiani fra noi, possono gioire di una vittoria. Essi per altro si dimostrano osservatori troppo frettolosi, se si accontentano di una prima constatazione formale, esteriore, da Almanacco di Gotha. Per giungere a conclusioni apprezzabili bisogna mettere l'occhio più dentro, e si constaterà un fenomeno, probabilmente correlativo, dato il moto tumultuario con cui le forme democratiche si sono affermate: e cioè che il primo fenomeno di diffusione degli istituti democratici è stato accompagnato o immediatamente seguito da fenomeni d'impoverimento, di confusione, di disorientamento dello spirito democratico. Bisogna pensare che nell'ultimo ventennio, e con moto più celere negli anni di guerra, la crittogama del socialismo di stato si è diffusa dappertutto, e con esso il doppio sindacalismo, quello dei trust e quello dei sindacati operai. Sopra situazioni così gravemente compromesse si sono dovute adattare a vivere le forme democratiche. Si sono verificati i più strani connubi. Le generazioni giovanissime, che si sono slanciate nella lotta politica, non se ne avvedono, perché (conseguenza di guerra anche questa) la inesperienza comune in tutti i giovani è resa più vacillante per enormi deficienze di cultura. Però quei connubi, quelle contraddizioni intime, tolgono la possibilità di un consolidamento degli istituti democratici. L'Europa si può dire ormai tutta democratica, ma non tutta sana, anzi in molte parti seriamente malata. Ma intanto, come abbiamo visto, non appare nulla di meglio per sostituire ab imis i regimi democratici, che, bene o male, ci reggono. Allo stato delle cose sarebbe una vera pazzia gridare il Delenda Cartago alla democrazia, per offrire cosa? Dunque non ci suicidiamo e cerchiamo di vivere meglio. CANDIDO - Come sarebbe a dire? Volete o non volete che questa "grande malata" si salvi?. POCOCURANTE - Certamente che si; ma non credo neanche in medicina alla potenza salvatrice della taumaturgo e dello specifico: figurarsi in politica! Non c'è quindi altro rimedio che aiutare il ristabilimento di condizioni igieniche di vita sociale, spingere l'opinione pubblica ad una considerazione più sana della lotta politica e rafforzare la sua volontà per conseguire quello stadio più dignitoso di vita civile. Finché vive il principio della sovranità popolare non si può dichiarare buono l'albero e cattivi i frutti; bisogna quindi accettare le conseguenze e cercare di agire sull'animo della collettività, per ottenere la maggiore quantità di comprensione e il maggior numero di consensi. Chi, come noi, non ha qualità e disposizioni di propagandista può agire utilmente non con gesti incomposti, ma mettere a profitto quel tanto che si possiede, (cercando di preparare coi propri studi il terreno su cui lavoreranno gli uomini politici di professione. Lavorando appunto su questa strada sono risalito alla rivoluzione francese, cioè al vivaio delle ideologie, che ancora ci alimentano. Ora in questa occasione - come del resto già altre volte - mi è accaduto di dover riconoscere come capiti spesso agli artisti di avere una intuizione rivelatrice della realtà non solo come materia d'arte, ma anche in se stessa, come materia di tatto. Ripreso in mano il vecchio poetico Lamartine, tenendo d'occhio il valore documentario più che il valore artistico della Storia dei Girondini, ho dovuto riconoscere che il poeta ha intuito - anche se poi non è riuscito a sviluppare - meglio degli altri storici contemporanei che la crisi girondina è il nodo centrale, in cui si può ricercare il significato più profondo della Rivoluzione. Egli poi non spinge fino in fondo l'esame, si immerge troppo spesso nell'eloquenza, e non sa spiegare neanche a se stesso le proprie impressioni. Però dà da riflettere. Non riuscì a chiarirsi a se stesso. Egli intuì la fatalità del conflitto tra Girondini e Giacobini, come risultato di un'antitesi storica, che non poteva avere altro sbocco; ma questo quid che costituiva il nocciolo della ricerca, egli non riuscì a sceverarlo dalla folla degli avvenimenti; sicché un lettore poco attento o mal prevenuto può trovare che anche Lamartine non è uscito dall'ambito di un dramma, in cui sono in gioco più le passioni umane che alcune grandi forze storiche. In sostanza Lamartine riconosce che i Girondini si comportarono inconsideratamente e che si addossarono le principali responsabilità morali di tutta la Montagna. È costretto ad invocare le attenuanti, come altri storici. Con queste premesse la conclusione, per un liberale moderato, non poteva essere più un'apologia, e il libro non avrebbe quasi ragione d'essere. Ma un segreto istinto si ribella e suggerisce allo scrittore una qualche altra cosa, che egli non riesce a scoprire consapevolmente, ma che rivela a tratti tra i lampi di una commossa eloquenza. Così attraverso il pathos dell'artista il libro si tradisce per una apologia. Apologia di che cosa? Forse lo potremo scoprire meglio in seguito a qualche altra riflessione. Una, per esempio, potrebbe essere questa: Gli storici, che tendono a rendere compatto ed omogeneo il pensiero della Montagna, si sono soffermati ad osservare le profonde differenze negli aspetti della lotta tra Girondini e Giacobini e di quella tra Dantonisti e Robespieriani? La ragione e quasi tutta in ciò che Danton e Robespierre erano sul medesimo terreno ideologico. Robespierre, più logico, portò il pensiero giacobino alle sue ultime conseguenze; Danton, più passionale e meno coerente, non volle fare l'ultimo passo, e fu perduto. Questa omogeneità di terreno teorico non c'era fra Giacobini e Girondini, e perciò la lotta acquista un aspetto del tutto differente: nel primo caso è lotta dì temperamenti, nel secondo caso è lotta di tendenze nel concepimento dell'idea rivoluzionaria. Non ho bisogno di ricordare a voi su quali argomenti si palesò il dissidio e su quali basi si svolsero le elezioni per la Convenzione, che consacrarono la inconciliabile separazione. Gli storici ai quali alludevo poco fa tendono a ridurre a zero il contenuto d'idee della Convenzione, e quindi il dissidio si verifica per questioni di tattica; Albert Sorel tende ad accentuare il dissidio psicologico tra ideologi (Girondini) e realisti (Giacobini). Ma anche i Giacobini erano zeppi di ideologia, così bene colta da Anatole France nei Dieux ont soif. Son dunque due ideologie di fronte. Ed esse si trovano di fronte, alla lettera, nella piazza del Carosello, il 2 giugno 1793 da una parte Herault, magistrato dal passo solenne, che guidava circa trecento deputati della Convenzione, dall'altra un mercante di acquavite vestito da generale, che, dopo poche parole, comandò:- Cannoniers, à vos pièces. Il contrasto raggiungeva i culmini della tragicommedia, per risalire, in verità, un mese dopo, col sacrificio dei Girondini, a quelli della tragedia classica. CANDIDO - Intendo dove andate a parare. Se non che vi si potrebbe obbiettare che a questo modo, per uscire dall'episodico, in cui cadono gli storici, coi quali avete idealmente polemizzato, avete ricacciato il contrasto troppo in alto, in una generalizzazione, che può essere di tutti i tempi. POCOCURANTE - Eh no. Bisognava precisare: di tutti i tempi dal 1789 in poi. Ma vi ho detto anch'io, al principio della conversazione, che noi siamo ancora nell'atmosfera ideologica della Rivoluzione francese. La distinzione del legislatore e dell'esecutivo, e sopratutto la loro convivenza in istato di equilibrio sono opera della Rivoluzione, e sono tuttora il nostro ambiente politico. CANDIDO - Ma allora permettetemi di trarre alcune conseguenze. Vorrà dire che nella società contemporanea sopravvivono Girondini e Giacobini, le anime dei quali sono risorte dietro ai patiboli, per tornare a battagliare una battaglia, che non si estinguerà che con l'estinguersi di questi nostri regimi; e in sostanza vinti e vincitori di quella tragica lotta avevano ragione, e lo spirito sopravvivente degli uni e degli altri ha sempre la sua ragione d'essere. POCOCURANTE - Non ho nulla da obbiettare, solo qualche cosa da chiarire, per spiegare meglio il mio appello iniziale alla rinascita di spirito girondino. Per riassumere il mio pensiero: i numerosi fattori ideologici che confluirono nella Rivoluzione si possono raccogliere in due larghe correnti: quella rousseauiana e giusnaturalista o più generalmente naturalistica, che dà il contenuto ideologico ai Diritti dell'uomo, alla Sovranità popolare, infine al culto del popolo legislatore; e quella illuministico-teocratica, alimentata inconsapevolmente di spirito ugonotto, la quale, ricacciando ad una semplice premessa logica, e poi ad un sottinteso, 1'assioma indispensabile della sovranità popolare, giungeva all'affermazione dello Stato sovrano, e, per trapasso fatale, al regime di Salute pubblica. Queste due correnti costituiscono tuttora il sostrato teorico e ideale della nostra vita politica, né è possibile assorbire l'una nell'altra. Il contrasto si ripete ogni giorno, e lo si ritrova nella più trascurabile interrogazione alla Camera dei deputati, come nella più modesta lettera ufficiale vergata dal più modesto segretario ministeriale. Ottimo regime liberale (quale discendente della Rivoluzione) è quello che, senza illudersi di fare uno quello che è naturalmente due, e neanche di conciliare due forze naturalmente antinomiche, sappia stabilire un sistema di equilibrio di forze in continuo movimento. L'impresa è difficile, tanto più che non ci sono formule; pure non c'è altra strada. Quando l'equilibrio si rompe, si ripete il cozzo, e il giacobinismo, per il suo carattere, per la sua ideologia semireligiosa, per la materia di cui si serve e su cui si consolida, schiaccia, di regola, il girondinsmo. Ma quando si è tolto davanti quello che gli pareva il suo avversario ed era il suo contrappeso, invece di un incontrastato dominio, trova un depauperamento di forze ed un'intima degradazione. Le democrazie decadono, degenerano e si abbandonano sfiduciate ad oligarchi, dittatori, ecc. Non per caso Napoleone proveniva dai clubs giacobini. Il giacobinismo soffre del male originario, di cui soffre, per colpa sua, tutta la nostra "civiltà rivoluzionaria", cioè che, esprimendo lo spirito di catecumeni, non riuscì a fondare una nuova religione. Il gesto abortito e semiserio di Robespierre fu un fallimento irreparabile. Se ne accorse bene Napoleone, pochi anni dopo, che vide ergersi al suo livello una figura di papa come Pio VII, personalmente di così modesta taglia, ma che rappresentava una qualche cosa che non si poteva conquistare con una battaglia vinta. Tutti i tentativi seguenti, culminati nella formula dello "Stato etico", hanno avuto origine, consapevolmente o no, da quel primo fallimento e dal bisogno avvertito di ripararvi. Ma il momento era passato, e non si è avuto che da constatare altri fallimenti. I paesi anglo-sassoni, più ricchi di esperienza di vita sociale e quindi più diffidenti verso gli schemi teorici, hanno evitato quelle esperienze pericolose; la Germania ci si mise d'impegno, sotto la guida di Treitschke, eccellente maestro, ma sordo, notate bene - cioè distaccato dalla vita d'intorno - ,ed il successo, come sapete, non è stato brillante neanche questa volta. Ma, lasciando stare l'esemplificazione che ci porterebbe in lungo, quello su cui intendevo di insistere è che la Rivoluzione francese si è mossa con questa tara intima: di non esser giunta a fondare una riforma religiosa, ché era implicita nei suoi presupposti ideologici giacobini. Se ci fosse riuscita, allora il giacobinismo avrebbe schiacciato, oltre che tutti i fondamenti ideali dell'Ancien régime, anche il girondismo, ed avrebbe costituita la nuova teocrazia. Non essendo riuscita, bisognava prima ricercare una possibilità di convivenza con gli elementi rimasti vitali dell'Ancien régime(quindi concordato del 1801 e Carta borbonica: onde la grande importanza della figura di Talleyrand, tanto poco capita); e poi, per non rimanere a propria volta schiacciati dagli elementi risorgenti del vecchio mondo, riaprire le porte dell'ideologia rivoluzionaria allo spirito girondino, che solo può far risalire la Rivoluzione dalla depressione della Carta borbonica alla riscossa delle giornate di luglio. Perciò giustamente la rivoluzione del 1830 fu sentita fin dalla prima ora come il suggello finale della Rivoluzione francese. Fu tale sopratutto perché, essendo mancato il nuovo edificio teocratico, le due forze inseparabili della Rivoluzione riprendevano la loro strana e faticosa convivenza. Questo esempio classico si è ripetutamente seguito, in Francia, nel periodo 1848-1870, ed altrove, coi medesimi risultati, salvo il diverso aspetto dei paesi. Nell'Europa dal 1880 in giù si è verificato un altro squilibrio, prima quasi insensibile, poi sempre più grave, fino a provocare (fu una delle cause più potenti) il laceramento della guerra, che ancora non è rimarginato. Come sempre, quest'ultimo squilibrio si è prospettato con il primo fenomeno di depressione dello spirito girondino. Da una parte riprendeva sopravvento il giacobinismo, sottinteso più o meno chiaro nella mente dei nuovi teorici della statolatria; e che in pratica si traduce nelle pesanti macchine burocratiche di socialismo di stato; dall'altra prendeva piede, approfittando della crisi, uno degli elementi superstiti dell'Ancien régime, il corporativismo, sotto le truccature moderne di trusts padronali e di sindacati operai, buoni compagnoni, pronti a liticare davanti al bottino, ma in accordo perfetto a ricacciare la società verso forme medioevali, come si può vedere oggi in Russia, per quel tanto che ancora é rimasto in piedi dell'ideologia sindacalista. Perchè questa ideologia, che si atteggiava rumorosamente come la grande antagonista del "mito borghese", si è sgretolata al primo cozzo con la società borghese. L'unico esperimento degno di esame é avvenuto in Russia, ma 1'esame porta a concludere che l'unico risultato positivo sarà il sorgere di una media e piccola borghesia terriera. Altrove sono pietosi sbandamenti al primo odore di polvere o di ragoût. Però, se alla prova queste forze si sono dimostrate fiacche, incomposte e senza valore costruttivo, hanno avuto invece il loro bravo valore negativo, disgregante, provocando o almeno affrettando ed acuendo il disquilibrio dello stato liberale, che s'è trovato in condizioni di decadenza e di disorientamento di fronte all'enorme compito impostogli dalla guerra. Così è che ci troviamo oggi a consulto davanti al letto della "grande malata". Ma questa lunga chiacchierata, comunque la vogliate prendere, giustificherà per lo meno la mia prima asserzione, che non c'è ricetta. Dal riconoscimento, anzi, che tutti gli specifici e tutti gli specialisti, dalla fine della guerra in poi, hanno mancato al loro scopo, allo stesso modo come gli architetti di nuovi sistemi sociali, bisogna prima di tutto accogliere con modestia la conseguenza, oramai innegabile per chi abbia occhi sulla fronte, che la guerra, quantitativamente ricchissima, fu stata qualitativamente assai povera di eventi, e mentre ha prodotto numerosi sconvolgimenti geografici, demografici, economici, non ha prodotto che turbamenti e squilibri nell'intimo delle coscienze, ma poco o nulla ha mutato, e certo non ha partorito quel mondo nuovo che molti si aspettavano. La riprova, se occorresse, è data dall'altro fatto, ormai evidente, che i paesi che sono usciti meno malconci dalla guerra, dopo il loro breve periodo di turbamento e di squilibrio, hanno ripreso il loro viaggio sulle vecchie rotaie. Con ciò non è detto che si continuerà sempre così e che una volta o l'altra non si abbia da cambiare strada e vettura. Nulla è immutabile nella nostra travagliata storia; ma nulla muta secondo il nostro gusto e all'ora segnata dall'orologio che caviamo dal taschino. Guardiamoci un po' intorno e potremo senza grandi difficoltà schizzare una geografia politica di Europa. I paesi più sani, quelli percorsi da minori crisi, mostrano di avere digerita la sbornia economistico-sindacalista ed ammoniscono con l'esempio della loro floridezza e della loro superiore autorevolezza che, quale che possa essere il sostrato economico (innegabile, per altro) nella storia, però la lotta politica colora la vita dei popoli e dà ad essi la fibra e la fisionomia morale. I paesi vinti o usciti dalla guerra in condizioni critiche vivono ancora una vita agitata ed incoerente, anacronistica, sciupando ancora tempo ed attività per mettere insieme mezza barba di Carlo Magno e mezza barba di Carlo Marx (quest'ultima sterilizzata) per truccare debitamente il nuovo Leviatano di cartapesta. Si tratta di ritardatari. Essi s'immaginano di affrettare il compimento di cose, che una ventina d'anni fa parevano ad alcuni grandi profezie, ma che alla prova dei fatti si sono dimostrate poco solide e sono state superate dagli eventi, che non hanno sostanzialmente deviato. Il povero Sorel che s'era tanto riscaldato contro i socialisti "politicanti", perché patteggiavano con la vile democrazia borghese e si dimenticavano di fare la rivoluzione integrale, e vide all'ultimo il suo bagaglio ideologico maliziosamente sfruttato dai politicanti di destra e poi gettato via come limone spremuto, é uno di quei casi ironici che presterebbe materia di infiniti scherzi, se la pura ingenuità di Giorgio Sorel non imponesse silenzio. Ma è impossibile non constatare che dopo il fallimento dell'esperienza russa Sorel aveva avuto torto su tutta la linea ed era un sopravvissuto. Coloro che si abbandonano al passatempo di disporre in altro modo i mattoni della casa crollata di Sorel sono due volte sopravvissuti. Oramai sul cartellone c'è la striscia verde, che ci annunzia che la rappresentazione non si farà. È inutile rimanere col naso contro il cartellone, come provincialotti che non sanno decidersi. AUDITOR TANTUM.
|