Del Giornalismo in Italia

II.

TORINO E "LA STAMPA"

    La storia della Stampa è breve a narrarsi e poco avventurosa. Senza mutare sostanzialmente lo spirito che aveva, quando era, col Roux, giornale di scarsa diffusione e sconosciuto fuor della provincia, la Gazzetta Piemontese (sotto la direzione di Frassati) è diventata quasi di colpo un giornale italiano, uno dei più letti tra i giornali della penisola. Ha conservata, pressoché intatta, la fisionomia regionale: i pregi e i difetti. L'organo (come fu detto) della gente nova e dei subiti guadagni, ha invece una faccia singolare ed antica, attaccata con solidi legami alla sua terra. Ha portato in un ambiente nazionale, italiano, la voce d'una razza, fastidiosa per molti, a quasi tutti straniera. Converrà fermarsi e riconoscerla, per poter intendere come sia nato ed abbia saputo imporsi questo giornale, pur conservando, con le qualità, le deficienze della sua vita provinciale e cittadina.

    La qualità fondamentale e presso che unica di quello spirito piemontese, che altri oggi vorrebbe reintegrato negli antichi onori, è forse soltanto la volontà tenace e tradizionale di "spiemontizzarsi". Alfieri l'intese come necessità d'educazione linguistica e letteraria: volle inserire la sua barbarie in quella mirabile epopea di forme che l'affascinava, e concepì il proposito di "disceltizzare", come il suo sermone, la sua coscienza. Dopo di lui, il Piemonte ebbe, nel Risorgimento, funzione direttiva e sovrana, coordinando gli sforzi e realizzando le aspirazioni dei rivoluzionari d'ogni parte d'Italia. Ma il senso della naturale inferiorità non venne meno negli animi. Il conquistatore si riconobbe tanto più barbaro, nel vano possesso d'una civiltà che gli era rimasta, per secoli, quasi del tutto straniera. Graecia capta ferum victorem cepit. Alla forza del vincitore gli Italiani guardarono per molto tempo con paura, alla stranezza della sua educazione con mal celato riso. Differente e strana davvero la cultura dei piemontesi; non del tutto trascurata, e neppure rozza. Cultura militare e politica (amministrativa e statale). Poco Machiavelli; non moltissimo Voltaire: piuttosto Montesquieu e gli economisti d'Inghilterra. Da questo ceppo derivarono le opere di Balbo; gli articoli di Cavour nel Risorgimento. Era una grande tradizione, che si doveva continuare. Ma, dall'altra parte, il mito d'Alfieri, isolato e pericoloso, traeva con sé molti cuori verso la terra promessa. Dura ancor oggi la fatica dei Piemontesi per conquistarsi un posto in Italia. Questi sforzi e questi propositi, così sinceri, dolorosi e insistenti son certamente, nel fondo comune, cose serie e da non prendersi a gabbo; ma le facce di tutta quella gente, che si propone d'introdurre fra Piazza Castello e via Roma i modi della civiltà millenaria d'Italia, o Dio! quanto furono e sono ridicole! Manserunt hodicque manent vestigia ruris. Pastonchi al posto di D'Annunzio: Thovez, contro Croce. Non potendo diventare sede di scuole letterarie e di accademie artistiche, Torino è riuscito ad essere il centro della moda: degli abiti e delle cravatte: la succursale di Parigi. Questo si dice per ridere: ma è certo intanto che la via maestra da percorrere ha un'altra direzione e un'altra meta; non per mezzo di sforzi superficiali e di generiche imitazioni, bensì la si ritrova animando i fattori e raccogliendo i risultati d'una esperienza antica e singolare. I Piemontesi si riconoscono discorrendo di governi e di bilanci, d'agricoltura e di ferrovie. Ma son privi di bello stile, e spesso anche della più magra eloquenza. Sotto le apparenze povere, grette e filistee, riposa un sentimento umano, lucido e fattivo, degli eventi, fondato in una pratica secolare delle virtù militari e civili.





    In quest'ambiente è cresciuta la Stampa: e per capire certe debolezze e meschinità e provincialità del giornale torinese, come per definire l'ingegno chiaro e positivo, la moderazione, il realismo, il tono spregiudicato, che son tutte le sue forze ideali, potrebbe bastare anche questo discorso generico sulla razza. Ma non sarà inutile insistere su certi dettagli: perché il giornale ha dei caratteri tutti suoi e spiccati, e mentre ne deriva, ha pure contribuito a formare e illuminare di nuova luce la parte migliore di quello spirito piemontese, che abbiam tentato, sebbene estranei, di descrivere. Vano sarebbe certamente fermarsi ad elencare le deficienze, che son parte, seppur non trascurabile né effimera, secondaria; e son tali d'altronde che ciascuno le può vedere, appena sfogliando qualche numero a caso. Pensiamo alla terza pagina, dedicata (perché così voglion le consuetudini) alle belle lettere e alla critica: certi nomi di bravi giovani, che la fama passeggera d'un salotto cittadino ha esaltato: Curio Mortari, Marziano Bernardi.... Più alto scanno è riservato a Cajumi, collaboratore frequente, buon informatore, ma pieno di pregiudizi e di noia, ed al bonario Bassi, specialista di strategia, con quale ricordo degli anni in cui ascoltava le lezioni di Graf. Sopra tutti pontificano, con le loro poesie e novelle, le fame paesane di Pastonchi, della Prosperi e della Guglielminetti. Accanto a costoro, sempre nella terza pagina, si può trovare qualcosa di più positivo e degno di lettura: di tanto in tanto la politezza amabile, se pur un po' superficiale, di Ambrosini, il quale ora è ritornato, come dice, alle lettere, ma anche lui riusciva meglio discorrendo di politica (e basti ricordare gli articoli del'22 dall'Emilia); e tra i collaboratori scelti (non sempre bene) fuori di Piemonte, la prosa abbastanza pregevole, quando non sia soverchiamente tecnica, di Tilgher. Ma le cose migliori che si possan leggere sulla Stampa, per questa parte, sono gli scritti di Luzio, diligenti e bene educati, e riposanti nel coro delle voci più giovani e così sfacciate.

    Del resto tutto ciò ha, per fortuna, scarsa importanza nel giornale di Frassati, del quale, volendo definire i limiti e le dualità, bisogna tener d'occhio quasi soltanto i collaboratori politici. La storia in questo campo si fa più interessante, e più ricca di lodi. Non che svaniscano del tutto certe grettezze provinciali e torinesi: la concorrenza con altri giornali; i connubi col "Mattino" di Napoli e col "Matin" di Parigi, che altri ebbe a deplorare; la réclame dei propri redattori e collaboratori ed amici; certi modi e gesti, insomma, che fuori di Torino vennero considerati, non a torto, abitudini da parvenus. Ma intanto è giusto riconoscere che questi malumori son quasi tutti spariti o diminuiti oggi: e, negli anni in cui nacquero e fiorirono, derivavano soltanto da quella paura tutta torinese d'essere fuori strada, da quel sentimento di solitudine diffidente dei Piemontesi in Italia, che - nella mente del biellese Frassati - era anche bisogno di crearsi un posto, una voce degna della vecchia capitale, fra gli altri giornali già forti e ben avviati. Era un istinto commerciale; ma era anche una qualità morale, che non aveva trovata ancora la sua maturità, il suo punto d'appoggio, e perciò più facilmente era sviata, dietro méte illusorie, in tentativi vani e incoerenti. Ma oggi il punto d'appoggio è da molto tempo conquistato: come il bilancio finanziario è ottimo, e le cifre che misurano la diffusione nel gran pubblico regionale e nazionale son soddisfacenti, così la voce della Stampa ha acquistata un'autorità nuova e rispettata. Che non doveva avere, probabilmente, nè tempi, non lontanissimi, quando l'editoriale poteva essere senz'altro sostituito da un qualsiasi "bellissimo articolo del nostro Bergeret" sul paese delle scimmie (ch'era, manco a dirlo, l'Italia). I vecchi, che si ricordan di queste e altre cose, serbino in fondo al cuore una certa diffidenza: e insisterebbero volentieri su taluni sintomi di ciarlataneria, che permangono tuttora. Noi siamo nati più tardi, e naturalmente possediamo una più larga dose d'indulgenza per i difetti ormai superati: vediamo la floridezza e il fasto presenti, senza preoccuparci troppo delle debolezze, delle meschinità, dei ripieghi d'altri tempi. Del resto, registriamo le opinioni, e le impressioni, d'oggi: fedelmente, quasi con indifferenza. E, come suole accadere, anche questa volta, le umili origini non valgono ad offuscare, nel giudizio della folla, i meriti dei nipoti.





    Vero è poi che, allargando i confini del nostro quadro, le origini appaiono subito, in questo caso, non umili, ma grandi: antiche, come già dicemmo, e tradizionali. C'è dietro l'attuale fortuna, come dietro gli antichi difetti, lo spirito d'una razza, che dimostra, di tanto in tanto, con nobile dignità e pacatezza, la sua forza, appena un poco accennando alla sua storia, e riprendendo, senza parere, le linee d'una tradizione che pareva assopita. Un liberalismo oculato e sagace, più di governo che di partito, senza molto rispetto, in fondo, per le teorie; un'ammirazione sconfinata, ma tendenziosa, per l'Inghilterra, che insiste sugli atteggiamenti democratici, e trascura quelli conservatori, o meglio li confonde sapientemente coi primi; l'aver creata, si può dire, la popolarità attuale di Giolitti, e sfruttata ed esaltata la fatica d'Agnelli, che rappresentano in qualche modo, certi Piemontesi, la coscienza delle loro possibilità nel futuro: son tutti spunti felicissimi, e organizzati con abilità, ciascuno dei quali basterebbe a spiegare la fortuna del giornale. Prendiamo un numero qualsiasi della Stampa: è ben vero che solo di rado ci accadrà di trovare, in terza pagina, una corrispondenza d'Ansaldo, o di Pettinato, o di Gayda, o un articolo di Luzio, e più spesso incontreremo una nota viennese di Caputo, o uno sfogo di Manacorda, o magari (Dio ci scampi e liberi!) una cronaca letteraria di Tonelli. Ma ci sono, d'altra parte, e dove più importa, dei punti solidi, delle parole che si ricercano con interesse e piacere sempre uguali. Nell'articolo di fondo, possiamo essere certi, troveremo una valutazione originale, elevata e perspicua degli avvenimenti; una nota superiore, come di chi avesse compiti e abitudini diplomatici e ministeriali; che se questo tono vieta talora l'arguzia, e introduce un accento di pedanteria, bisogna riconoscere che si tratta sempre d'una pedanteria, che sa imporsi, come deve, all'attenzione del pubblico. E poi ci sono, che basterebbero da sole a compensar la perdita di tutto il resto, le cronache londinesi di Marcello Prati. Dove Londra, e il governo britannico, e la Camera dei Comuni, e le relazioni dei partiti inglesi, sembrano quasi cose create per servire di modello a tante ed altrettali istituzioni italiane. Gli atteggiamenti dei laburisti sono proposti alla meditazione dei socialisti nostrani, la politica di quei conservatori messa in opposizione con la teoria dei liberali milanesi; e tutto è trattato come materia paesana, con un tono che si direbbe confidenziale. Cronaca più tendenziosa, e nello stesso tempo meglio informata, e più divertente ed arguta, come non la si trova facilmente in altri giornali del nostro paese, sarebbe difficile anche immaginarla. In grazia di questo spunto, perdoneremo volentieri altre meno simpatiche conseguenze dell'atteggiamento anglofilo della Stampa; e persino gli articoli di Lloyd George, sull'alcolismo o sulla Lega delle Nazioni, che da qualche tempo si pubblicano, ogni sabato, al posto d'onore.

    Il fondamentale tono protestante, vale a dire pedagogico e moralista, del giornale di Torino (che si distingue tuttavia dallo spirito d'altre correnti affini, per un singolare attaccamento alla realtà, e danno magari della dottrina), mentre par che si impoverisca e metta in luce la sua parte di grettezza, nei periodi in cui trionfano le idee sostenute prima con accanimento (quando regna, per esempio, Giolitti): acquista una risonanza profonda e un valore nuovo nei momenti difficili, quando si trova, senza violenza neppure retorica, all'opposizione. Chi non ha in mente, per citare gli esempi ultimi, l'atteggiamento della Stampa prima e durante la guerra, e nell'immediato dopoguerra; e infine nè tempi che videro prepararsi e trionfare il colpo di stato fascista? In questi momenti la Stampa continua mirabilmente le tradizioni liberali e ministeriali del Risorgimento torinese, che le stanno a cuore: è quasi il Piemonte, che governa di nuovo, spiritualmente, l'Italia: un governo, secondo il costume di quel popolo, senza partecipazione d'affetto, riservato anzi, diffidente, e quasi arcigno, ma sempre nobile ed elevato. Anche se i principali redattori fossero, in quell'ora, per caso, non piemontesi: c'è pur dietro di essi tutta una forza tradizionale che li costringe e li ispira. E c'è Frassati, nume tutelare e segreto, che impone a tutti, senza che il pubblico se ne accorga, la sua fisionomia; e adatta, con astuta sapienza, l'opera di ciascun collaboratore a' suoi scopi.





    Fu una fortuna, per esempio, che ci fosse Frassati durante la polemica per la pace ed il trattato di Versailles, e nella difficile situazione interna di quegli anni subito dopo la guerra. Il prof. Umberto Cosmo, ottimo dentista e studioso di cose francescane, venne alla Stampa dopo una esperienza socialista un poco sentimentale: con un gran desiderio di sfogare il suo animo esacerbato dalle nequizie dei reazionari d'ogni paese. I suoi istinti lo portavano a discorsi dottrinari di palingenesi. Frassati li inquadrò, senza cattive intenzioni, nel suo sistema: e conferì ad essi un tono e un significato, probabilmente diverso da quelli che c'erano nella mente dell'autore. Il biellese fece servire la democrazia cristiana e francescana dal suo collaboratore per gli sfoghi contro Clémenceau; le sue attitudini messianiche per creare nel pubblico uno stato d'animo di rivolta contro certe abitudini e certe mentalità: in quei giorni la prosa infiammata e religiosa del letterato serví (con un po' d'esagerazione e di misticismo) a rappresentare un atteggiamento insieme transitorio e tradizionale dello spirito piemontese: che, com'era stato prima contro la leggerezza e la retorica degli interventisti, dimostrava allora un'uguale antipatia di fronte a tutte le forme del nazionalismo rinascente.

    Oggi, alla Stampa, domina Salvatorelli: che s'è rivelato, in pochi anni, una delle figure più vive e singolari del giornalismo italiano. E volentieri vorremmo attribuire a lui tutto il merito d'aver creato intorno al giornale di Torino un più vasto consenso, o rispetto, o interesse. In verità egli non s'allontana dalle tradizioni e se sfugge, per la forza del suo ingegno, all'influenza specifica di Frassati, non le contrasta; mentre d'altra parte ha subito volentieri il fascino d'un ambiente squisitamente politico e di una tradizione storica illustre. (Pensiamo alla differenza che passa tra i primi scritti di lui sulla Stampa e, gli articoli di fondo, che oggi leggiamo con tanto diletto). Anche Salvatorelli é venuto al giornalismo dall'alta cultura, e più precisamente da una cattedra di storia delle religioni. Ha portato, nel suo nuovo ufficio, certi modi dell'antico: l'abito del parlar filosofico e dogmatico, e spesso uno scetticismo appena velato, come di chi tenga un dibattito, spassionato, all'accademia. Ma la filosofia di lui, a differenza di quella che oggi appesantisce e ammorba i tre quarti del giornalismo italiano, si fa leggere e piace: e tutti quei residui accademici, del resto, servono a fornire a' suoi scritti uno stile disadorno, chiaro e preciso, mirabilmente adatto all'ufficio pedagogico, che gli è toccato in sorte. Nella polemica antifascista (coadiuvato, con molta intelligenza, per la parte economica, da Cabiati), e nella discussione dei problemi di politica estera (col sussidio delle lezioni d'inglese, sapientemente impartite da M. Prati), Salvatorelli ha mostrato quella attitudine a ragionare con signorile accorgimento e quella riserva di scaltrezza dialettica, che son le sue doti precipue. Ricollegando il commento delle avventure italiane a tutta una serie di sintomi internazionali; abilmente mettendo in luce certi fenomeni, esagerando il significato e l'importanza d'altri; discutendo ogni fatto al lume d'alcune idee precise e solide: è partito in campo, movendo da uno stesso centro ideale, contro diversi obiettivi; e ha dato, senza parere, una specie d'unità sistematica agli sparsi elementi della politica tradizionale della Stampa.

    Se ripensiamo al piacere che, quasi ogni giorno, ci arrecavano quelle sue polemiche argute e quadrate, non sapremmo terminare questo discorso sul giornale torinese, senza offrire a Salvatorelli, quasi a nome di tutti, un pubblico ringraziamento. In quella discussione moderata e quasi astratta, fatta d'arguzia senza violenza e senza volgarità, col tono di chi s'accontenta di far sentire, attraverso un sorriso appena abbozzato, la superiorità della sua educazione: in quella pacata lezione di buon costume c'è ancora un segno di quell'aristocrazia piemontese, che l'Italia nuova farà bene a non trascurare.

(Continua). S.