I CONSERVATORI CONTRO
IL LIBERALISMO

    Non vi è modo migliore di precisare posizioni, che contrapporre e riavvicinare figure lontane e caratteristiche; con tutti i pericoli di una necessaria schematizzazione, si pongono tuttavia curiosi raffronti che illuminano la realtà. Eccone uno impossibile, che abbozziamo: Burzio e Labriola.

    Burzio, l'uomo che è riuscito a inquadrare in una linea di quasi classica nobiltà, a larghissimi tratti, la storia italiana dopo il settanta.

    Non le scoperte originali, bensì il tono che assumono i fatti fortemente ripensati fa sì che tutto assuma un'aria nuova di sobria, cosciente e leggermente maestosa progressione.

    L'Italia si scopre, pur tra molte debolezze, una insospettata chiarezza di sviluppo: vediamo l'ultimo quarantennio profilarsi come prudente assestamento ad unità della patria ancora spaurita da una indipendenza improvvisa, debole, organicamente dissociata e priva di classi dirigenti, dopo secoli di frazionamento e di servitù.

    Lentamente, le masse tutelate da una politica sapiente di moderata mediazione si formano a vita politica, cooperando con la borghesia nascente alla progressiva soluzione del problema della unità; fiorisce la vita in un rigoglio che i Savoia istintivamente preveggenti, fermi e tenaci incanalano, che Giolitti, asciutto, semplice e superiormente astuto favorisce smoccolando i rigorismi dei paurosi conservatori, prevenendo con le riforme i tentativi convulsionari dei demagoghi. Una salda e spregiudicata comprensione di tutte le forze naturalmente pullulanti nella società in formazione, una serietà antiretorica aliena dai colpi di testa, e un senso di superiore misura che compone e attutisce le opposizioni violente, deleterie ad un organismo convalescente: ecco Giolitti.

    Ecco l'unità, questo incubo di tutti i politici italiani, in cammino: per la sua unica possibile, ottima via, 1a via della grande politica eterna, inquadramento e freno delle naturali forze vitali per parte dei saggi demiurgi.





    V'è una tale corrispondenza fra la storia effettiva, nelle sue grandi linee, e l'ideale politico dello storico, che ogni condizione è impossibile, e rivela in lui necessariamente, una mentalità di ideologo, di fazioso o di moralista: se Missiroli lamenta la fallita rivoluzione religiosa ed unitaria, e ne incolpa, la politica della monarchia, vittoriosamente gli si risponde con la superiorità del realista sul fabbricatore di ideologia, con la sufficienza dell'uomo conscio della continuità fondamentale di sviluppo degli elementi sociali, sul sognatore inseguente una rivoluzione fantasma.

    In sostanza, la constatazione di debolezza organica del Burzio non è che la constatazione del "fallimento ideale" fatta da Missiroli; ed entrambi ne ricercano la soluzione in un riformismo, che per Missiroli si specifica più concretamente socialismo di stato, e nel Burzio rimane invece indifferenziato e astratto: ciò che crea la opposizione non è che l'urto immediato delle mentalità, il turbamento che il moralismo di Missiroli apporta nella visione del piemontese alieno dalle violente contrapposizioni ideali.

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    Arturo Labriola è invece così immerso nei fatti contingenti, talmente li drammatizza in una minuta analisi di rapporti economici e di piccole passioni, che in tale rapido turbinare è meno facile scoprire la chiara linea politica che Burzio con mente timida ci svela. La sua storia di dieci anni completata, dalle sue note sulle due politiche, fascismo e riformismo, è tutta intessuta di realtà concreta, minuta, episodica. La sua cultura marxista e economica, gli svela subito gli aspetti economici dei fenomeni politici; la sua diretta partecipazione alle piccole gesta della vita parlamentare gli fa dire brutalmente, che "solo gli ignoranti possono avere la superstizione delle idee, le più volgari prostitute, che lo spirito umano abbia partorito".

    Mentre Burzio, con una premura che lo fa giungere ad insoddisfacenti teorizzazioni, cerca di superare il momento economico in una valutazione di ideologie, più a parole che in sostanza, concrete, per sfuggire all'incubo marxista ed alla incombente freddezza sistematica di Pareto, Labriola vi si abbandona senza timore: né questo gli fa perdere il filo centrale degli avvenimenti, poiché egli giunge con la stessa convinzione alla medesima giustificazione di Giolitti e del riformismo, come necessità di una Italia povera e debole.





    Ma il tono è del tutto diverso, la soddisfazione meno completa: i fatti si affollano, urgono nelle sue pagine, non permettono troppo ampie felicità di connessioni generiche e di armonie a distanza; "quella di Giolitti è "una grande scuola politica che, con un vago orientamento progressista, asside un governo vario e volubile degli uomini". Non si cerchi nella sua politica, altro che un saggio prevenire l'ascesa delle masse togliendo loro i capi migliori, approfittando della nullità verbaiola dei capi rivoluzionari, per assumersi il merito delle riforme; sistema che addormentando i politicanti in una placida sicurezza dei nuovi borghesi, satollando le masse più pericolose con concessioni materiali, ha conservato una tranquillità a patto di vietare qualsiasi viva partecipazione di partito alla lotta politica.

    Labriola è dunque cosciente del perfetto conservatorismo della politica giolittiana, nega la esistenza di una opposizione conservatrice che il Burzio immagina in un certo conservatorismo lombardo di cui non si è mai vista la politica efficacia; riconosce che il risultato fatale del metodo giolittiano è la formazione di una nuova borghesia pacifista, accaparrante, mediocre e incapace di sentire la libertà. Lo accetta per un senso di fatale necessità.

    Burzio e Labriola si accompagnano; ma il secondo sente che qualcosa turba e appanna la robusta e serena costruzione, che il primo si è formato.

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    Succede che di fronte alla guerra, Giolitti, malsicuro dei risultati della sua opera (quella guerra scoppiata troppo presto!), prudentemente si arresta: il paese maldestro si butta disperatamente alla ventura e ricerca nella lotta un mezzo violento e convulsivo di unificazione attraverso vittorie e sconfitte comuni.

    Dopo la guerra, la democrazia si gonfia in grandi partiti che adulano le piazze in tumulto poi una ventata di reazione si abbatte su tutto l'edificio costruito negli anni di pace, e in parte lo abbatte; i partiti si sgonfiano e tacciono; alla grande opera mediatrice succede la manganellata di una classe plutocratica sostenuta dal conservatorismo degli agrari e dalla retorica dei piccolo borghesi. Le opposizioni almeno in un primo tempo si polarizzano, ma una milizia di partito le riduce ad esercitazioni verbali. Il corso intero della unificazione sembra interrotto, e le classi dirigenti create dal giolittismo non hanno saputo né frenare la demagogia rivoluzionaria, né dire una parola in difesa della loro costruzione minacciata.





    Ma per Burzio tutto rimane in piedi; per lui l'opera della monarchia continua, Giolitti redivivo dopo l'anatema è egualmente grande, il fascismo non è che un fenomeno a molte facce, fermento vitale in fondo, che una superiore forza statale assorbe nella prosecuzione del cammino unitario.

    Questa superiore serenità, che non si può mai apprezzare abbastanza come segno di complessità spirituale, rivela però contemporaneamente la debolezza intima della critica politica di Burzio; il Giolitti da lui delineato è un suo Giolitti, l'incarnazione di un suo ideale di uomo politico il cui compito superiore consiste nell'accettare in una pura opera di moderazione le correnti politiche e non politiche che affiorano nella vita sociale. La sua monarchia non è che un fantasma il quale ripete nell'ombra la linea politica giolittiana; ma noi ricordiamo soltanto un Vittorio Emanuele II che non sempre afferra la politica di Cavour, un Umberto I che appare sulla scena di Adua e del '98, un Vittorio Emanuele III che, malgrado la probità personale, non si rivela che nella accettazione del fascismo e in certi atteggiamenti dì buona borghesia.

    La politica sociale, il maggiore dei meriti concreti che lo scrittore attribuisca a Giolitti, oltre la solita opposizione a certo conservatorismo lombardo piuttosto evanescente, non costituisce certo l'originalità dello statista poiché era il ritornello comune a tutti i ministri liberali dopo il settanta; la sua antiretorica, il suo carattere, la sua fondamentale onestà che nessuno seriamente può negare costituiscono dati psicologici nitidamente intagliati dal Burzio nelle pagine migliori del suo libro, che non bastano da soli a darci più di una simpatica figura di piemontese asciutto ed astuto.

    In realtà, colorita da un senso delle proporzioni storiche di grandiosità solenne, la sintesi di Burzio è tutta dominata dalla sua personalità che cancella la possibilità di visione delle proporzioni reali; ma lo storico deve sapersi annullare nei fatti e la sua personalità deve rivelarsi soltanto nella forza con cui, dalla contrapposizione dei fatti, sa creare la implicita critica.





    Nessuno nega i meriti di S. E. Giolitti primo ministro, ma prima di giudicarlo demiurgo di alto stile vogliamo conoscere quanto egli abbia portato di impronta originale sua nella vita italiana, quale Italia abbia saputo formare. Favorire il rigoglio della vita da qualunque parte venga è una formula che non esce da una generica simpatia umana, se politicamente non si precisa che sia, momento per momento, la fonte di vita degna di rampollare.

    Su questo, Burzio è necessariamente muto; egli si arresta alla forma della attività politica e sa dirci magistralmente ciò che un uomo politico non può non essere, sa delinearci ciò che non deve essere, demagogo tribuno retore ideologo fazioso. Ma gli sfugge completamente la verità, che il grande uomo politico non solo accetta e modera la realtà, ma la trasforma e dirige, a pena di restare semplice uomo di governo.

    Di fronte a questa deficienza, richiameremo, con Fiore, l'esempio di Cavour; potremmo aggiungere quello di Bismarck. Uomini tutti presi da una loro ideologia, che non per questo sono stati deboli di fronte alla realtà; e noi ce ne siamo accorti, quando Cavour, questo liberale anacronistico, mise insieme l'Italia mentre nessuno sapeva bene che cosa si dovesse farne.

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    Chiederemo a Labriola di fornirci alcuni dati per questa dimostrazione. Egli parte da una analoga premessa, ma di fronte agli ultimi anni in cui tutto il passato ha trovato il suo formidabile esame, il suo atteggiamento è diverso: egli riconosce nettamente la incapacità dell'imperante riformismo di fronte al problema della guerra; ne riconosce la debolezza nel dopo guerra, quando cedendo supinamente a masse brutali senza capacità di realizzazioni, tradì nuovamente la insufficienza di una solida direttiva, e sopratutto la meschinità totale dei capi; critica acerbamente Nitti per la sua politica plutocratica, ed è implicita nella sua analisi la condanna di Giolitti che, dopo il grande rifiuto della guerra, non riuscì a comprendere il fascismo, che gli prese la mano mentre egli credeva fino all'ultimo di poterlo dominare; dì fronte al fallimento completo di tutta una classe dirigente formatasi in tre lunghi anni di pace, Labriola vede nell'urto della reazione dominata dall'industrialismo protezionista e dalla mentalità feudale degli agrari la più paurosa delle minacce per la appena avviata unità.





    Ormai non è quasi possibile discutere l'analisi che il Labriola, con una vivacità drammatica piena di evidenza, fa del disgregamento democratico e riformista; qualunque possa essere lo sbocco del fascismo, sia un vero smantellamento del riformismo, sia un ritorno ad esso più o meno rapido dopo un rischioso periodo di esperimenti individualistici, è ben certo che la insufficienza delle classi, che Giolitti ha portato al potere come contrapposto alle velleità estremiste di destra e di sinistra, non poteva dimostrarsi più completa.

    Se ai risultati bisogna anzitutto guardare, questa negazione brusca di tutta una formazione politica non può che ispirare considerazioni rispettose, ma scettiche sulla grandezza di una politica che ha costituito un simile fantoccio di paglia a guardiano della nascente unità; fa dubitare della logica politica di un uomo il quale assistendo alla fine della sua creatura, tranquillo sorride con un "bon mot".

    E se anche il fascismo non fosse che l'ascesa di nuovi uomini a ripetere dopo i primi bollori della restaurazione il gioco dei primi, non è forse massima fra le insufficienze politiche di un ceto dirigente il cedere supinamente ad altri il potere?

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    Questi sono dati di fatto, che gli storici migliori del nostro turbolento periodo comunemente riconoscono, di fronte ai quali è istruttivo illuminare le posizioni personali dei due politici che stiamo studiando.

    Labriola, che tanta parte ha preso, direttamente, nel movimento riformista, accettandolo come contingente necessità, non può, di fronte al suo almeno momentaneo sfacelo, che assumere un atteggiamento assolutamente negativo. Ed è veramente apprezzabile la situazione personale di quest'uomo, che ha ancora la intelligenza di delineare in un libro di lucida obiettività i fatti concreti da cui appare la inevitabile inadeguatezza di ogni politica, puramente moderatrice e passiva, tipicamente riformistica, a creare una solida struttura statale; insegnandoci così con la sua confessione che ne costituisce il più definitivo giudizio, quanto rispettabile e quanto caduca sia stata la politica del demiurgo.





    Seguendo con simpatia questa mia analisi, potremo con tranquillità assolverlo, per non rinnovare il suo tormento che si può riconoscere sincero, dalle accuse di episodiche contraddizioni riconoscendo nella sua educazione marxistica e nei suoi atteggiamenti sindacalisti un semplice modo di formazione mentale che non gli impedisce di essere, di fronte alla politica concreta, un puro e conseguente democratico riformista, in cui la vacua ideologia dei nostri insopportabili democratici si è trasformata in meditata e ragionante giustificazione di un logico atteggiamento.

    Con questo lo avremo giudicato; la cultura e la genialità hanno salvato uno schietto parlamentare dalla mediocrità comune, permettendogli almeno, in un libro di sincerità profonda, una limpida storia che segna definitivamente i meriti e i limiti dell'uomo.

    "Certo, il riformismo sviluppa il funzionarismo. Un regime burocratico è un sistema di impacci e di pastoie per lo sviluppo del capitalismo. Esso, come tutti i sistemi, tende ad espandersi sempre più. L'obesità è il suo fine supremo, e l'obesità è una degenerazione. Chi rilevi ciò, rileva l'evidenza. Ed esso, pacifista e praticone, pone volentieri in disparte le preoccupazioni strettamente nazionali e di classi. La mediocrità e il quieto vivere sono la sua legge suprema".

    Definitivo, ove si pensi che il burocraticismo, inteso come conformazione mentale, era la caratteristica sagoma della nostra democrazia.

    Una voce, per quanto alta, sentita e vibrante, che da questi vinti si levi a difesa della libertà, non può essere udita altrimenti, che come un commovente lamento romantico di uomo, che constati la gravità delle proprie colpe; Labriola è precisamente la più nobile di queste voci.

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    Ma Burzio è fuori del tutto da queste lamentele di partigiano sconfitto; eppure, per dare una caratteristica della sua originalità, egli mi vorrà consentire di inquadrarlo idealmente in una parte, senza offesa per la sua granitica solidità di uomo, che si sforza di comprendere una ricchissima realtà in tutti i suoi aspetti multiformi. Me lo vorrà concedere, poiché ormai ho osservato che, come puro storico, lo vedo impigliato in contraddizioni inestricabili.

    Senza l'analisi economica ed ideologica del riformismo, non si spiega la politica del decennio; non si spiega il mutare delle ideologie, dal pacifismo al nazionalismo, dalla democrazia alla gerarchia, senza questo salto profondo, questo inabissarsi di tutto un debole ceto economicamente e politicamente dirigente.





    E questo salto profondo Burzio semplicemente dimentica, per difetto di quella analisi; cosicchè la continuità logica della sua armonica costruzione che in principio delineavo, è frantumata da fatti positivi, su cui egli sorvola.

    Non c'è dunque che un mezzo, ed è il vero, per giustificare il profondo convincimento della continuità di azione della monarchia in una impeccabile logica statale: ed è definire Burzio quale è, un purissimo, intimamente convinto conservatore piemontese.

    Noi lo vediamo: se egli qualcosa si permette di vagheggiare, è un cancellierato alla prussiana in una Italia rappacificata e seria; di fronte a Siliprandi antiindividualista reazionario lo vediamo obiettare con scarsa convinzione quanto più immediato e evidente dimostra tutta la realtà europea; i movimenti nazionalistici, Maurras, con un po' meno di retorica, il mito della gerarchia, affascinano la sua personalità desiderosa di robusta forza autoritaria.

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    Se egli veramente fosse convinto della necessità dell'opera di Giolitti, nella sua peculiare caratteristica di elevatore delle masse a coscienza di stato ed a partecipazione attiva alla vita politica, non potrebbe non trovarsi imbarazzato di fronte a tanto insuccesso, così paurosamente gravante sulla stessa unità dello spirito nazionale.

    Ma egli non sente questo fallire perché a lui non importa, sostanzialmente, il contenuto peculiare della politica di Giolitti nella realtà italiana, non sente la esigenza, di una formazione democratica e liberale dello stato italiano; gli basta di Giolitti la esteriore linea di onesta e seria misura conservatrice.

    La sua logica allora diventa perfettamente chiara: nella sua concessione avremo come base sostanziale l'azione della monarchia suprema dominatrice occulta: Giolitti e gli altri minori, semplici strumenti al suo servizio, che agitando i fantocci della riforma sociale ne avranno salvata l'opera conservatrice. Il fascismo, anziché una soluzione di continuità, diventerebbe allora la conclusione completa del processo, che potrebbe definire, dal'70 ad oggi, la rivoluzione antiliberale.

    Burzio onestamente potrebbe portare, ove sviluppasse quanto di più personale e di più suo ha dato nei suoi saggi, un robusto contributo teorico ad un più sicuro e più austero fascismo.

    Contro siffatto lineare atteggiamento potrebbero schierarsi coloro, che non vedono, nel tempo presente, fuori di una salda democrazia liberale la possibilità di un forte stato, anche in Italia; e nella contrapposizione teorica chiara ed onesta sarà inutile combattere costoro, noi come spiriti impolitici, protestanti, moralistici.

    Queste semplici opposizioni di temperamento non risolvono problemi politici.

    Piuttosto, riconsiderando la nostra storia e le nostre condizioni economiche e le esigenze unitarie che travagliano lo stato, potremo sempre negare concretamente, tranquillamente che la politica postillata dalla ideologia di Burzio consenta che uno stato italiano si formi.


MANLIO BROSIO