PROBLEMI PRATICI

Le otto ore o della libertà

    Queste considerazioni del nostro Di Staso valgono eccellentemente per giudicare la questione delle otto ore dal punto di vista economico. Per valutarne l'aspetto politico converrebbe tenere altro discorso.

    Gli uomini non sono fatti tutti a un modo e non tutti i lavori esigono il medesimo sforzo e consumo di energia. Le otto ore del minatore o del tipografo non sono le otto ore dell'operaio dei campi, il quale presta la sua opera all'aria aperta e può concedersi qualche minuto di riposo tra un vangata e l'altra. Non solo; ma mentre il minatore ha più di duecentocinquanta giornate lavorative all'anno e così il tipografo, l'operaio dei campi ne ha sì e no duecento; e mentre il minatore e il tipografo possono lavorare sempre lo stesso numero di ore in tutte le stagioni dell'anno, l'operaio dei campi, d'inverno, non può lavorare che cinque o sei ore, quando non piove. Ci sembra giusto che l'operaio dei campi abbia modo di guadagnare nell'estate ciò che, per la brevità delle ore di sole e la frequenza delle piogge, ha perduto nell'inverno. In campagna vi sotto poi assai più giorni festivi che in città e nei paesi e zone industriali. Passando in altro campo, vi sono dei ferrovieri che potrebbero lavorare sedici ore al giorno senza soffrire nulla, come i cantonieri; e ve ne sono di quelli che, come i macchinisti, lavorando otto ore lavorano già troppo.

    D'altronde, in quanti posti, in Italia, si lavora, in media, più di otto ore al giorno? Nel Mezzogiorno, gli operai dei campi, d'estate, a causa del caldo, é molto difficile che lavorino più di quattro o cinque ore. Potrebbero riprendere il lavoro verso le quattro o le cinque del pomeriggio, ma ciò non é sempre possibile per la distanza delle campagne dall'abitazione degli operai, che vivono agglomerati in paesi di quaranta o cinquanta mila anime. E conosciamo alcune aziende statali come quelle delle saline e dei tabacchi ove gli operai da tempo immemorabile lavorano sette ore al giorno.

    Gli uomini non sono fatti tutti a un modo e non tutti i lavori esigono lo stesso sforzo e consumo di energia.





    Ciò che più conta: vi sono degli individui che hanno una capacità di lavoro 10 e di quelli che ne hanno una 5: perché impedire ai primi di mettere a profitto la propria forza e resistenza? Un individuo nato per fare l'atleta soffrirà a stare più di otto ore al tavolino; ma chi é nato per stare a tavolino vi potrà rimanere anche dieci: lasciate che costui arricchisca.

    Vi sono poi in Italia molti operai, come fabbri, falegnami, calzolai, i quali usano, lasciando la bottega o l'officina, lavorare per proprio conto. Sarebbe impossibile impedire a costoro di continuare a lavorare per proprio conto. E allora, con l'obbligatorietà delle otto ore, non si creerebbe un'ingiustizia a danno di quelli che non hanno modo di continuare a lavorare per proprio conto? Perché non permettere a costoro di lavorare nell'officina o a bottega quell'ora o due in più che gli altri fanno a casa per proprio conto? E vi sono molte zone, in Italia, ove gli operai dei campi possiedono un pezzo di terra che lavorano dopo aver terminato il lavoro nella terra altrui. Costoro sarebbero i privilegiati in confronto di quelli che non possiedono un pezzo di terra e che non potrebbero più, con la legge delle otto ore, lavorare una o due ore di più alla dipendenza d'altri per guadagnare qualche cosa di più.

    Queste benedette leggi sociali non servono dunque ad altro che a danneggiare quelli stessi che si vorrebbe proteggere, a trasformare il mondo in un'immensa caserma, a complicare maledettamente le cose, a far degli individui tanti numeri a togliere loro quella libertà nella quale principalmente é la possibilità di creare la ricchezza.

    La ricchezza si forma, nella maggior parte dei casi, col lavoro o con le privazioni, e la ricchezza dei singoli vuol dire la ricchezza di tutti come la povertà dei singoli vuol dire la povertà di tutti. E bisogna ricordare che spesso é necessario, nell'interesse della produzione e della collettività, che degli individui restino magari inoperosi dieci giorni di seguito purché lavorino in certi dati periodi venti ore di seguito.

ARCANGELO DI STASO.




La popolazione in Sicilia

    Il problema agricolo della Sicilia sta più nella distribuzione della popolazione, che nella distribuzione della terra. Tutta la popolazione della Sicilia (circa 26.000 Kmq. di superficie) è raggruppata in soli 364 comuni, mentre la sola provincia di Como, in Lombardia, (meno di 3000 Kmq. di superficie) ne ha 511, quasi il 50 per cento in più. E se a questo si aggiunge che mentre le regioni agricole dell'Italia settentrionale e centrale hanno una popolazione sparsa per la campagna che si aggira sempre intorno al 50 per cento della totale e la popolazione sparsa della Sicilia non raggiunge che l'11,1 per cento della totale, si avrà subito un'idea della gravità del problema. Non si può fare sul serio dell'agricoltura colla campagna deserta, quando il contadino per arrivare sul campo di lavoro deve percorrere giornalmente ore ed ore di strada, spendendo inutilmente il meglio delle sue energie. In un campo così lontano, privo di riparo, non si possono condurre le donne e i ragazzi, di modo che tutti i lavori gravano sul solo capo di famiglia. Non si possono sviluppare tutte quelle piccole industrie a latere dell'agricoltura, che rappresentano delle ottime risorse per le famiglie dei contadini di altre regioni d'Italia L'allevamento del bestiame non può farsi che a brado e non più come un'industria intimamente legata all'agricoltura, ma quasi come un'industria a sé, che con l'agricoltura non abbia altro di comune che i pascoli. Col bestiame allevato a brado, i concimi si disperdono, i pochi che si riesce a mettere insieme sono mal conservati e gravati per giunta di un prezzo di trasporto superiore al valore del concime stesso. E lo sviluppo della malavita rurale, così preoccupante in questo momento, non é forse il frutto dello spopolamento delle campagne siciliane? Se le campagne dell'isola fossero abitate, si potrebbero portar via in una notte fino a cento capi di bestiame senza lasciar tracce?

GIOVANNI MORSO.