UN PRUSSIANO TRA I BRIGANTI
Pasquale Turiello é il professore che ha cercato il suo ideale nella caserma. Così il suo stile é talora ferrigno, violento, impettito, preoccupato di cose più che di persone e altrove maestoso, accademico, monotono, pedagogico. L'ideale del professore Turiello é l'ordine tranquillo e definitivo; la fede di Turiello militare é la rigorosa disciplina. Ai suoi gusti spartani la cultura richiama subito il modello severo e consolante di Roma. Mettete l'uomo nel mondo di Depretis e siamo in pieno dramma. In uno scrittore fiducioso nei propri studi e nell'importanza delle tradizioni avite i motivi più drammatici sembrerebbero nascere necessariamente dall'ispirazione letteraria e ripetere il destino dell'isolamento incompreso in mezzo all'ignoranza. Infatti Turiello usa ogni cautela e mette le mani avanti già a partire dal metodo. Scetticismo verso gli atteggiamenti dottrinari. Metodo sperimentale in politica: conoscere e poi provvedere. Il primo volume della sua opera (Governo e Governati in Italia) contiene i fatti; il secondo le proposte. Ma di positivismo sperimentale non c'è che il metodo. Le aspirazioni sono a un rinnovamento nazionale in senso eroico, tradizionale, spiritualistico. La diagnosi dei mali e dei rimedi rivela l'umanista, o diciamo pure l'educatore, con l'idea fissa di riformare i caratteri, attraverso la scuola spartanamente intesa come collegio. Conforta il programma con un'osservazione pittoresca di crudele ironia: nelle regioni meridionali la scuola ha l'efficacia educativa che spetta nel Nord all'asprezza del clima e alle difficoltà quotidiane della vita; bisogna che l'Italia impari nel collegio la sua disciplina. Orizzonti chiusi: nulla di moderno. Crediamo di sapere che l'educazione si svolge fuori della scuola; che la fibra dei popoli si forma nella lotta, nella libertà: Turiello ci oppone una fredda diffidenza pregiudiziale, un cinismo retrivo. Quest'uomo é fuori dallo spirito della Rivoluzione Francese e del Risorgimento e condanna come dottrinale tutto il secolo XIX colpevole di aver favorita, migliorando le condizioni della plebe, la demagogia e la decadenza dei costumi (arte immorale, femminismo, vincoli famigliari diminuiti). Questi spunti, come la filosofia autoritaria che ne deriva, parrebbero di grande attualità e quasi anticipazioni di teorie facilmente riprese quarant'anni dopo come originali: senonché rimanendo in siffatto terreno di analogie il nostro discorso sarebbe tuttavia generico. La psicologia ci serba sorprese più seducenti. Bisogna vedere lo scrittore inteso ad esprimere un'esperienza tutta sua, vicina, regionale. Turiello napolitano, ma senza nulla di morbido; anzi piuttosto saraceno, tutto felice di accentuare un'antitesi che riesca una frustata per la razza degenere. Talvolta provinciale, con la sicumera, il semplicismo, il gusto per lo schema proprio del giurista; fiducia nelle leggi, disgusto per il popolo e per la sua pigrizia. Questo distacco del pedagogo dai selvaggi del borgo natio si venne facendo con gli anni più acerbo ed esclusivo. Col realismo attenuato di un professore di storia vede il Sud travagliato nei suoi vizi borbonici, senza possibilità di salvazione fuori di un regime che stia tra l'austriaco e il prussiano. Del Risorgimento tiene l'effetto: l'organismo statale che ha bisogno di essere rafforzato: l'esercito piemontese é ancora un ideale valido se si deve istituire un dispotismo illuminato. Meglio Cavour che Garibaldi: meglio gli eserciti nazionali che i volontari: il lealismo monarchico aveva sperimentati troppi pericoli nell'avventura del'60. Turiello ha il senso dell'autorità come tutti i solitari, non il senso dell'azione. Vede il monarca, rivestito delle sue attribuzioni: austero e benigno. La politica nasce dall'alto. Le manifestazioni di libertà sono disordine. La pratica borbonica gli suggerisce l'immagine dei custodi per definire la funzione dei governanti. La lotta politica deve essere soppressa dalla amministrazione. Brigantaggio, camorra, mafia, bagarinaggio sono la realtà osservata dallo scrittore; realtà pre-liberale, segno di inquietudine e d'individualismo. La sola esperienza di lotta politica nel sud é data dal contrasto delle clientele. Le divisioni e le battaglie sono feroci intorno alle attribuzioni e alle rivendicazioni di terre comunali. Mentre la plebe si abbandona al brigantaggio, la borghesia, abile nel manovrare gli strumenti offerti dalle istituzioni liberali, si trasforma rapidamente in oligarchia e si accaparra i vantaggi del governo di Destra come di quello di Sinistra. Il problema meridionale non é dunque nella povertà della terra o nell'ozio degli abitanti: é un problema di governo. Per il T. solo nell'Italia settentrionale possono avere importanza dominante le iniziative individuali, invece nel Sud per lo spirito dei popoli i grandi risultati si conseguono con la prepotente autorità dello Stato e dei suoi rettori: la vita sociale coincide con la legislazione. Questo palesemente é risolvere il problema negandolo: come se in tutti i tempi l'auto-governo non fosse la migliore scuola dei popoli. L'individualismo e la libertà si guariscono con la libertà e l'individualismo. Invece Turello si adatta a considerare impropri al clima italiano i governi democratici. Vuole un socialismo patriarcale, che abbia per caposaldi la scuola e l'esercito, la burocrazia e la beneficenza. Misura del regime la giustizia non la libertà: questa sostituzione ci dichiara le intenzioni dispotiche e retrive. L'economia di Turiello, messo da parte il liberismo, ignora le esigenze del bilancio e del risparmio, dell'industria e del capitalismo; e riduce il problema meridionale, in omaggio al buon accordo e alla felicità dei cittadini, a un problema di opere pubbliche. Da queste premesse all'elogio franco e totale della burocrazia il cammino é puramente deduttivo. Qui si svelano gli istinti più franchi e quasi uno spirito di difesa di classe. I ceti sociali, a cui apparteneva Turiello, portavano alla nuova Italia doti di severità e di lealismo: borghesia borbonica che s'era battuta al Volturno nelle file di Garibaldi, per salvare il Sud dal dittatore e riguadagnarsi un re vero. Per la borghesia napolitana, cresciuta col senso dell'onore pubblico e privato, con un rispetto religioso per l'impiego, il Piemonte era il vagheggiato ideale prussiano: culto dell'esercito e del pubblico ufficiale. Accettava l'unità come affermazione dell'ordine (fosse pure il carabiniere) contro il brigantaggio del popolino che era diventato strumento e sistema di governo, ultimo ripiego contro le riforme. In queste condizioni di anarchia già si vedeva che la nuova classe dirigente si sarebbe venuto formando parassitariamente, lusingando i ribelli e combattendo le tradizioni, facendo pagare ai conservatori le spese della demagogia. I ceti borghesi napolitani, che in Turiello trovano lo scrittore della loro disperazione, chiedevano al Piemonte una tirannide per difendersi contro avvocati e tribuni che stavano ereditando dai cortigiani il dominio delle folle. Vige in questi conservatori il concetto della carica pubblica come onore; il disprezzo per le indennità e gli stipendi. Alle pretese dei consigli comunali oppongono fieramente che l'autorità viene dal re. Nel senatore onorano il sacerdote infallibile della grazia regale. La cultura umanistica, col gagliardo disinteresse che la distingue, é ritenuta ancora una preparazione indispensabile al reggimento dei popoli. Alla licenza dei costumi unico rimedio pare il ritorno alla severità e alla concezione classica della giustizia; la pena sia l'affermazione dello Stato; la pena di morte si ristabilisca come segno di forza, di autorità, di austerità. Da questa passione ci attenderemmo concezioni più vive; idee più coraggiose. Invece si ripetono le precauzioni del socialismo di stato tedesco, si cercano le nuove classi dirigenti nella selezione dei custodi: predomina il terrore del brigantaggio, la paura delle masse popolari. In luogo del decentramento, rigido controllo dell'amministrazione centrale sul ceto dei governanti locali, che hanno soverchia autorità. Con argomentazione perfettamente dispotica, che ha avuto la meritata fortuna presso il più recente dei demagoghi, Turiello protesta che il popolo non chiede e non desidera libertà, ma piuttosto protezione. Il decentramento istituzionale é invece perfettamente consentaneo all'istinto del nostro popolo, dal quale é nato esemplarmente l'ordinamento della chiesa, fondato più sulle divisioni istituzionali che sulle territoriali. Le funzioni specializzate richiedono organismi capaci. La scuola decade se affidata a comuni e provincie. La beneficenza retta da istituti locali diventa preda delle clientele: mentre sono i beneficiandi i migliori amministratori delle opere pie costituite in istituzione organica dal voto degli interessati. Rimedio agli abusi sarà la giustizia amministrativa sotto le due forme di giudici indipendenti dal flutto elettorale e di controlli preventivi delle ingiustizie amministrative ed elettorali. Come trovare questi giudici indipendenti? Con onesta logica di classe Turiello li vede nei giovani laureati in legge, scelti da un consiglio di senatori, posti al nobile e gratuito ufficio di contrastare i soprafattori locali! Le rigorose analisi dell'osservatore pessimista sono addirittura dimenticate per le consolazioni dei sogni del letterato. Del Parlamento si constata la decadenza: la possibilità di dare un solenne giuramento senza credervi, l'ostruzionismo, il disprezzo del bene pubblico per il bene degli elettori, l'inguaribile antimilitarismo sono i malanni e il disdoro della nazione. I governi costituzionali si devono liberare dal parlamentarismo, le prerogative sovrane si riprenderanno con vantaggio del popolo. Il reazionario guarda persino senza sospetto l'ipotesi di un parlamento di competenti. Pur che nuove e legittime gerarchie succedano alla insopportabile democrazia dell'autogoverno. Pensando al risentimento e alle delusioni dell'orgoglio mancato in chi voleva essere ad ogni costo cittadino di una grande nazione, noi ci spieghiamo questa polemica inumana contro il secolo XVIII e XIX. Freme nei documenti che abbiamo considerati l'indomabile febbre patriottica del professore di storia. Solo un letterato poteva ammirare così smodatamente nell'abate Vincenzo Gioberti il maggiore politico di Europa! L'esasperazione, e la cieca fiducia, unite al pessimismo, gli suggerirono profeticamente (quarant'anni prima!) i congegni e le ideologie del perfetto regime paterno degli italiani. Giustizia contro libertà, rappresentanza degli interessi, partito unico ossia nessun partito politico, militarismo e imperialismo in programma, Chiesa cattolica corona allo stato imperiale. Con questi risultati si concorda bene il metodo di lasciare da parte l'economia per pensar solo al carattere e alla scuola spartana. Anche il presidente Mussolini giudica così e ha scoperto che la moderna scuola spartana é il circuito di Monza. Ma Turiello, innocente cafone umanista, serbava un altro stile e un'altra serietà. Possedeva del suo paese una conoscenza meno dilettantesca, più accorata. Credette di avere trovato il suo uomo in Crispi: s'inebriò di imprese coloniali, rivide Roma in Africa, la terza Italia eroica e guerresca con Barattieri per Scipione. Era uno sport accademico ma con il cuore di Catone, con un tragico fondo di eroico, con la convinzione dolorosa che gli Italiani dovessero ancora soffrire per tornare Romani! Seppellendo i programmi Adua salva la passione, e noi possiamo contemplare l'austerità del suo pessimismo cordialmente, come un modello. p. g.
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