L'ORDINE
L'ordine in Italia è restaurato. L'onda della violenza ha invaso i domini, i presidi, le rocche dove tutti i moti nefasti s'accentravano e si combinavano, le ha devastate e sommerse. I capi, sorpresi e sgomenti, o si son lasciati affogare senza protesta, o han dato un salto dalla finestra sulla via e si sono sperduti tra il volgo ignavo, tolta la maschera dell'autorità. Le masse sbandate e stanche e poco rallegrate dalle fughe, hanno accettato il nuovo comando riconoscenti quasi dell'esultanza e de' sbandamenti che non suscitano più l'opposizione, ma il plauso e il giubilo d'ognuno sotto il pacifico sole universale. Da quella continua e bestiale insurrezione di prima a queste parate clamorose di magnifici consensi è come passare dalle angosce dell'incubo all'aerea libertà del risveglio mattutino. La negazione dei limiti, la palingenesi eroica, l'utopistico regno s'avvera molto meglio di quello promesso prima: che pareva doversi affermare sul ghigno dei cadaveri e con la dura disciplina del terrore. Ecco dunque che il sentimento ottimistico della vita, tanto profondo e diffuso nell'educazione borghese, ha avuto piena ragione: per un processo che nega, in vero, il suo metodo essenziale, ma acquistando anzi per ciò un che di più libero, di meglio rispondente all'istinto d'iniziativa e di spontaneità, con l'affermarsi contro i preconcetti per carattere d'improvvisazione e quasi di miracolo. All'occhio dei più è bell'e dimostrato che i problemi sociali erano una superstruttura fabbricata da chi ci trovava il suo tornaconto, e bastò sbarcare dai loro seggi quei quattro rammolliti e acidi borghesi in funzione di amici del popolo, per ripristinare l'elementare giustizia dei rapporti, uno Stato che supera, contiene e fonde le classi, tutte fisse come al loro scopo a quell'interesse generale per cui si compiono con gioia i sacrifici e se ne ricava il premio fregiandosi come d'un distintivo del proprio amor di patria che non ci sian più classi è manifesto, se si pon mente alla nuova categoria istaurata e dominante, il popolo; il quale, negato e scomparso nei giorni di turbolenze e in quelli di serio e calmo lavoro, trionfa, simbolo dell'attiva inerzia, quando suonano le fanfare per le piazze e a un sempre pronto pubblico spettacolo deve corrispondere una dispostissima "claque". Quando ognuno beve un vino più leggero ma più incantatore di quello dell'osteria, e scevro di pensieri dimentica i suoi vicini, le sue giornate, i suoi dolori e si pacifica a una folla viva solo per le sue scalmane e i suoi gridi, allora nasce il popolo. Dio, come si sa, si mette alla sua testa; e la sua forza è la forza della ragione. La sodisfazione mostrata dal borghese per la decadenza individuale, per l'uniforme discesa verso le bassure dell'impersonalità, dipende dalla sua inettitudine all'isolamento e alle posizioni bene distinte e elevate. Quando dal fondo della valle gli tiravano sassi o con lavoro sordo gli minavano la collina, gli facevano il brutto servizio d'obbligarlo a apprestarsi alla difesa, a badare ai fatti suoi, a giuocar d'astuzia; e prima d'ogni cosa, e fondamento a tutto il resto, a crederci alla sua altezza, che gli doveva dare, anche attaccato, una cert'aria da superiore e da giudice e l'uso della ragionevolezza e della misura per ogni colpo che avrebbe risposto. Sono state, chi ha memoria, angustie e torture; non erano per nulla educati alla loro posizione di dominio e ne pigliavano coscienza proprio quel momento che correva pericolo e che ogni forza dell'ingegno avrebbe dovuto esser tesa a salvarla; così al salvataggio non poterono bastare da soli, ma ci posero l'opera gli elementi e gli dei; il dio economico primo tra gli altri che colpì i folli insorti trasgressori alle sue leggi coi flagelli che si chiamano crisi e disoccupazione. Ma dopo la vittoria è l'ora dell'ingratitudine; i borghesi non riconoscono quell'intervento, ma s'accaniscono anzi a suscitare la collera divina operando con serena innocenza come se tali leggi non avessero mai avuto impero. I fatti erano pieni di suggerimenti; ma il borghese moderno, tanto moderno da scordare la storia di ieri e di domani, da esser come un fanciullo imprevidente ed effimero, non li ha saputi discernere. Non si possono ridire a parole, e chi non ha raccolto il succo dell'esperienza mentr'er viva, è inutile ci ripensi e tenti di ricrearla; l'arguta e sottile lezione, vana e vera come un paradosso, ch'esalta e fortifica chi la scopre da sè tutta chiusa nel suo momento non più ripetuto, ora si può appena segnarne il rimpianto. E forse rinnovare, di contro alla calma apparente, ragioni e dubbi che non è lecito sian morti, ch'erano pure un palpito vivo della nostra umanità. ***
L'esigenza fondamentale e la prima occasione della vita è la differenza nel possesso, che riassume stime e impone le varie attitudini personali di relazione, starei per dire di carriera, i punti di vista donde si considerano i problemi, le tendenze che si voglion dare al proprio cammino: chi vi anela, chi lo difende, chi rinuncia, chi mira a beni materiali e chi a beni spirituali, chi li mischia secondo una concezione di eclettica pienezza, chi li separa con tagli violenti (dico all'ingrosso) per un bisogno puritano, tutti gli sforzi e i moti si esprimono in sua funzione. Anche quella parola, tante volte secolare, che tende a unificare il lavoro umano e sarebbe l'unico nesso sociale duraturo, poichè non cerca la sua riprova nel tempo; che altro è se non la sublimità del possesso, il desiderio elevato all'infinito, la massima delle cupidigie, la speranza senza residui? Ci persuade sopra tutto il Vangelo col suo ufficio di Scienza dell'Opposizione, che tramuta l'affermazione lontana nell'immediata rinuncia e fonda la perfetta e sicura cattedra di pessimismo; non è un'eresia, io spero, quando si dice che si vuol essere Cristiani più che altro per amore della sfida e dell'impossibile, in nome della ribellione intima, della lotta contro l'uomo vecchio, della Sconfitta, della Passione; e in somma si riconosce il valore della religione dal suo stato di minoranza e d'inizio, dall'imprevedibile promessa chiusa nel seme. La Pace Cristiana, il Regno, se si potesse avverare sarebbe negata; che si spengerebbe il suo desiderio e con esso la vita; ma fuori di quella non ce n'è nessuna. La condizione necessaria per quella futura pace, per la speranza della pace e per la sua custodia, come d'una purezza che un solo soffio d'aria appanna, nel cuore di ognuno è la lotta; che fa l'anima vigile e di tutte le ingannevoli promesse diffidente. Non si fa un discorso diverso quando si guardi ai beni materiali. Certo a priori non si chiede, e quasi non si giustifica, nel lottatore il disinteresse, il distacco dai beni che lo attirano, la critica delle illusioni di cui si nutre; ove riuscisse a presentire la corruzione delle cose agognate e vedesse la più chiara bellezza d'una lotta a vuoto, che è vera e necessaria nella sua forma e non nel suo oggetto e questo sposta quasi per artificio logico e quando lo raggiunge l'ha bell'e disprezzato e sostituito, troverebbe - ci pare - in questo senso la sua sodisfazione e s'escluderebbe dalla mischia urlante per star da sè a guardare e a capire. Il che poi non vuol dire "superare" le parti avverse, ma meglio abbandonarle e preservarsi dagli ardori della battaglia per riviverla idealmente; che ogni passo e ogni cosidetto progresso implica una rinunzia. Ma questo tale isolato, se ci può essere, nell'amarezza e nelle titubanze della solitudine sente di dover esigere, più che se fosse in campo, che le passioni delle parti siano bene accese, che gli ardori non siano finti o passeggeri; perchè solo a questo patto può vedere nello scompiglio le ragioni, i beni che sono affermati in contrasto e s'avverano per la fede che sanno ispirare, e solo in tal modo il suo bene, che sarebbe la visione, il pensiero, gli appare. Soltanto in grazia di questa visione, che sarebbe tutt'uno con la speranza della pace, la lotta si giustifica e ha senso. Ma come è impossibile che ci sia un tale osservatore, libero dalle cure immediate e dalla partecipazione violenta, o dal rimpianto di essa (una simile ascesi l'avrebbe condotto infatti fuori di questo mondo); così è possibile che accanto alla passione si educhi nell'animo di chi lotta il senso della ragione e della misura, che gli farà capire la necessità non episodica, ma fondamentale della sua azione, e insieme lo avvierà a una comprensione più larga, oltre i limiti dei possessi contrastati. Se si piglia l'esempio vicino, la lotta tra borghesi e proletari, tra chi difende un possesso di beni materiali e chi lo assalta, si capisce a volo la distinzione profonda tra l'animo degli uni e quello degli altri. La passione proletaria, la "fame" di terra, di strumenti, di potere, che è come la coscienza della povertà non consolata e il riconoscimento, nel desiderio, della vita, non ha in sè nulla di materialistico, nulla, secondo lo spirito, di pesante e d'ostile. Ma la difesa del possesso già goduto senza sforzo e fatto passivo dall'uso, così corporeo e stabile, al riparo dagli eventi e dalle mutazioni, se è cieca e sconsiderata è materialismo puro. Quelli che già possedevano i beni, erano liberi di desiderarne tanti altri e di lottare per la conquista di terre remote e inesplorate; e a questo modo se li sarebbero garantiti. Mostrano l'istinto di questo dovere quando si dicono "classe dirigente"; ma è un titolo di cui s'onorano per solito senza merito di fatica personale, per destinazione implicita di nascita e per mancanza di concorrenti. È dunque vana la libertà dalle cure materiali che dovrebbe promuovere a aspiranti al criterio e all'intelligenza? o ogni possesso affermato senza bisogno di rinnovarlo è una schiavitù irreparabile che ammazza il tempo con l'uso e crea un'oscura psicologia senza nè sfondi nè speranze? Per ciò è un triste sintomo che i borghesi si mettano a negare le funzioni dei proletari; negando la necessità della lotta, ribadiscono le catene che li avvincono ai loro beni e dimostrano di non aver saputo approfittare della loro libertà per arricchirsi di quel che senza molto lavoro nessuno possiede, la coscienza de' suoi propri atti e la comprensione degli atti altrui più ostici e più offensivi; ma negano in oltre perfino l'essenza dei loro beni: se nessuno se ne curasse, che valore e che consistenza avrebbero mai? Quando sono più avveduti ammettono negli altri questo appetito, ma fanno una questione di metodo, elevando a regola per tutti la regola della loro condotta; ma come la borghesia si strappa da sè le sue radici e si dà la zappa su i piedi quando non tien fede al metodo liberista, cosa che accade come si vede tanto di rado, così il proletariato, pena la decadenza e l'annullamento, deve escogitare un metodo suo, cioè dar la prova di possedere un suo proprio carattere, non confondibile e non copiato; e a capir questo ci sono arrivati pochi borghesi solitari. Per tanti rispetti si può dare un severo giudizio su la condotta del nostro proletariato negli ultimi torbidi anni, ma il peggio che se ne può dire è che ha contribuito a far sì che da quell'esperienza la borghesia non ne ricavasse nulla. Era il momento che sarebbe potuta doventar legittima; nella saggezza stava la sua forza e, avesse avuta la persuasione del suo ufficio, non avrebbe temuto sconfitte; oppressa e domata avrebbe conosciuto la gloria. L'unità della nazione, nata su i campi della guerra, si sperimentava, per la prima volta, ma prendeva un aspetto pericoloso e seccante e l'avrebbero strozzata nelle fasce, per far tornar tutto come prima. Nell'incoscienza dei proletari - la loro fedeltà ai capi borghesi, il loro romanticismo, la loro mitologia sentimentale, sopra tutto l'unione ancora estrinseca e anzi la scissura profonda fra il Nord e il Centro sollevati e il Mezzogiorno tranquillo - era per lei un grande aiuto, una facilità della lotta, ma anche la più forte ragione e il miglior diritto per imporsi; contro le insurrezioni caotiche, mal dirette e provinciali la borghesia avrebbe dovuto mostrarsi vera classe dirigente che ha superato le divisioni locali e faziose e afferma l'Italia; difendendo i suoi interessi di classe in quel momento l'avrebbe trascesa; studiare e capire i loro mali sarebbe stata la sua miglior tattica. Ma siccome i mali sono il patrimonio meno diverso, è un esame che costa fatica perchè fa venire a galla e tiene sotto gli occhi i mali propri, di cui ci si dimentica o che s'ignorano tanto volentieri; e finisce sempre a un'introspezione. In questo caso poi tra i mali opposti c'è identità completa, e il nulle forse più grande di tutt'e due le classi, cioè dell'Italia, è la negligenza di fronte al dovere di farsene consci, l'incuria della storia; la paura di guardarsi nudi. La mania delle cose facili e vistose c'induce in un errore così naturale che quasi non ci sembra imputabile: ci fa vedere una finta storia piena di gesti e di parole, di solito ridondanti e felici, che abbelliscono e quasi redimono la vita di tutti i giorni, così che essa pare più che non sia misera e vacua. Una storia diversa, cioè una diversa coscienza, stava spuntando: gl'impazienti Italiani si sono affrettati a soffocarla. Si sarebbe tratti a pronunciare un giudizio pur peggiore: la incapacità della storia, la incapacità di apprendere e trasformare i dati delle esperienze quotidiane - che è, in fin de' conti, incapacità di porli - significa, per una Nazione, assenza dalla vita. La fobia delle prove, l'allontanamento fittizio degli ostacoli, la tesi del superamento e della chiarificazione; l'idolatria dell'unanimità, la corsa verso i consensi e il dispetto per le ultime riluttanze, sarebbero altrettanti segni, non che d'immaturità, di totale rinunzio e di forzato esilio di fronte al necessario ordine della vita sociale. I cinquanta proletariati e le cinquanta borghesie onde si trae vanto e da cui si vuol ricavare non so che legge di composizione armonica invece che la patente dimostrazione di una perfetta anarchia non hanno di fatto in se stessi alcuna identità e dimostrano che gl'individui Italiani non sanno esser nè borghesi nè proletari, se non a episodi e a strattoni. Si riesce però a giustificare questo stato di fatto ponendo mente alla nostra deficiente unità, alla vita ancora anazionale; al grave compito che s'è avuto di sorgere a Nazione, e anzi a "potenza" per pura necessità formale, per la immediata e romantica creazione che ci ha fatti, di regioni tanto separate per loro natura e per gl'imposti reggimenti, di segregate e in sè contente unità comunali e parrocchiali, Regno d'Italia. Per un altro verso la storia delle nostre esperienze è mirabile; si addensa, non nel secolo decimonono dove il moto all'unità fu più che altro virtuale e, direi, nominalistico, ma in questo secolo e meglio in questi ultimi dieci anni, il groviglio dei problemi e delle esigenze che la civiltà occidentale ha elaborato e maturato nel corso di centenni; l'esercizio intellettuale troppo vivace, la conoscenza astratta di tali esigenze e problemi, la trattazione critica senza base realistica e come a vuoto, che dipendono da quella nostra condizione, han contribuito a farci adoperare una retorica di concetti per suscitare, o anzi per sostituire, i nascosti bisogni concreti. Per ciò si conchiude che la lotta fra borghesi e proletari, prova e misura di questa concretezza, era un bene per la Nazione; dopo l'esterna consacrazione della guerra, in esso avrebbe fondata la sua certezza intima; e comunque sia stata fallace e inutilmente violenta si vede, se si tiran le somme, che ne ha tratto profitto. Chi ci ha perduto di molto (per ora) è la borghesia in quanto classe detentrice del potere che non ha trovato in sè forze di resistenza e dopo d'aver alimentato con tutte le sue corruzioni lo stato debole ha dovuto capitolare in potestà del momentaneo Stato forte che per il suo imperioso desiderio di consensi è antitetico alla sua autonomia; il proletariato resta sicuro del fatto suo, appena possa liberarsi dalla tutela cui lo assoggetta la disoccupazione e, fatto di nuovo prorompente, trarre ai suoi fini le forze dello Stato. UMBERTO MORRA DI LAVRIANO.
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