Motivi di storia italiana


IL PARTITO SOCIALISTA

    Tra l'equivoco del liberalismo come arte di governo, la demagogia nazionalista e il pericolo clericale il partito socialista italiano non poté, neppure approssimativamente, operare in Italia come un episodio connesso con la storia del marxismo.

    Il marxismo, dottrina dell'azione popolare diretta, preparazione di un'aristocrazia operaia capace di promuovere l'ascensione delle classi lavoratrici è stato ripensato in Italia con qualche originalità soltanto da pochi solitari come Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo ed è servito a ravvivare i motivi di critica dei sindacalisti come Enrico Leone e Arturo Labriola. L'esperimento torinese dell'Ordine Nuovo fu la sola iniziativa di popolo alimentata dal marxismo.

    Sorto con le pretese di un partito rivoluzionario, il socialismo si esaurì nella tattica dei miglioramenti economici e del corporativismo e fini coll'aggregare alle sue file tutti i malcontenti della media borghesia; preoccupati di formarsi con la pratica riformista le proprie clientele parassitarie.

    Trent'anni di azione socialista furono così confusi e sconvolti dalla retorica dei principi e dall'utilitarismo dell'azione. Non si esaminavano i problemi pratici e le riforme politiche per mantenere purissime le premesse rivoluzionarie, mentre, costretti poi a inserirsi nella realtà non vi si trovava alcun impulso per affrontare la crisi rivoluzionaria e preparare le coscienze alla soluzione. La pratica riformista rimase priva di ogni lume della cultura e della tecnica, la predicazione rivoluzionaria s'inebriò di parole.

    Solo dopo due decenni di sforzi inani compresero l'equivoco gli amici di Bissolati e cercarono di chiarire la situazione con una pratica apertamente liberale di critica al governo fondando il riformismo. Ma ai loro motivi genericamente umanitari mancava qualunque preparazione di studi e il loro esperimento si risolse in un fenomeno d'imitazione francese.

    Il riformismo socialista era la conseguenza logica delle premesse e delle psicologie manifestatesi nel primo incomposto sforzo di liberazione compiuto dai ceti popolari in Italia.

    L'equilibrio della nostra lotta politica era duramente alterato dall'eredità del Risorgimento: questo ha creato senza compierla né soddisfarla una specifica situazione rivoluzionaria, che se restò potenziale durante il travaglio dei tecnici e dei diplomatici nell'opera d'arte della creazione dello Stato italiano, diventava torbidamente esplicita quando lo Stato compiuto si trovava compromesso nella situazione europea, incapace di essere vivificato dalle masse. D'altra parte fuori del governo un'aristocrazia più o meno sapiente, che professa a priori una funzione di assistenza e di aiuto al popolo, tenta di corrompere con le riforme e con l'opera di conciliazione ogni azione diretta, per illudere i ribelli con proposte pacifiche che le conservino una illuministica funzione educativa.





    Il partito socialista non si è accorto del gioco e ha lasciato che si riproducesse nel suo seno, con un'infiltrazione di conservatori, un'altra forma dell'ineluttabile antitesi che separa nell'immatura Italia popolo e governo. L'accordo coi liberali conservatori e coi radicali era giustificato di fronte a Crispi e a Pelloux nella difesa delle più elementari condizioni di libertà. Ma superato il pericolo i socialisti non riescono più a distinguersi da Giolitti se non per una più intensa demagogia: nell'unità del partito, invano ridiscussa e proclamata si nascondono le più contrastanti sfumature, che riproducono in un linguaggio semi-estremista i vari motivi degli altri partiti italiani, dai conservatori ai radicali. La linea d'azione è identica, non lottano diversi principi, ma diverse persone.

    Perciò Bissolati è stato più coerente e più sincero di Turati accettando una responsabilità di governo che era ineluttabile date le premesse ideali. Le pose anti-governative diventavano anch'esse nel partito posizioni di governo, modi di lotta parlamentare. Passando dalla piazza a Montecitorio la rivoluzione si è convertita in una mediocre diplomazia. Il comizio è solo più l'arma dell'illusione dei nuovi capi, oltreché l'artificio per appagare un istinto di tribuni, è il sistema adottato per rafforzare una posizione personale. La preoccupazione dell'unità del movimento, al di sopra della coesione delle idee, diventava dominante per la necessità di apparire rappresentanti di una forte organizzazione; e perciò si mantenne una parvenza di unità ricorrendo a tutte le formule intellettualistiche che nascondono gli istinti dell'arrivismo. La vuota eristica dei congressi - dalla negazione delle tendenze (Imola, Bologna) all'integralismo (Roma), al riformismo di destra o di sinistra. (Firenze, Modena) - nasconde questo riposto calcolo. Gli sforzi autonomisti delle masse sfuggono alle analisi dei capi, fermentano invano in cerca di un'espressione, affiorano finalmente nel modo più confuso dopo che la guerra europea sembra aver condotto alla responsabilità sociale nuclei nuovi di operai e di contadini. Ma quando si pone chiaramente il dissidio tra riformisti e rivoluzionari, Livorno è la squallida eredità di un equivoco durato 30 anni e l'onesta incertezza di Serrati disorganizza definitivamente le forze popolari.

    Attraverso queste vicende un uomo rimane in campo, costante e senza contraddizione perché non mai deciso, animatore di tutta una tradizione politica, anche se alieno dall'assumerne responsabilità di condottiero: Filippo Turati.





    Senonchè qual valore dovremo dare a questa coerenza di trent'anni di vita politica? Il problema pare restringersi nei limiti di un fatto psicologico e questa del resto è la ragione invocata da tutti gli ammiratori di questo ingenuo apostolo sfortunato. Ma la coerenza lineare, l'identità delle parole e dei concetti, la fermezza del carattere annuncia qui un sentimentalismo di visioni dogmatiche, una conclusione prematura, che rimane unilaterale mentre si ritiene perfetta.

    E del resto qual'é il nocciolo ideale delle posizioni più care a Turati? Il marxismo non è penetrato nel suo spirito, non vi ha alimentato l'esperienza realistica del condottiero di forze politiche. L'ideologia turatiana non ha giustificazioni di aperta e vigorosa umanità, ma si limita in un momento caratteristico per la nostra storia, di assenza di lotta.

    L'educazione di Turati lo porta assai lontano dai problemi di cultura e di realismo storico: il suo spirito si svolge sin dai primi scritti giovanili nell'atmosfera spirituale della sociologia positivista e il suo umanitarismo che rese affascinante la sua propaganda tra le masse ha un colore utilitarista e sostituisce troppo interessatamente le funzioni patriarcali del frate laico. Da Anna Kuliscioff imparò un marxismo di tinta romantica, da Enrico Ferri l'ottimismo dello scienziato indulgente e l'abito missionario del difensore dei miseri, con Bissolati condivise la preoccupazione di trovare poche e chiare formule di sentimentalismo sociologico da applicare ai problemi politici. La sua morale non ha nulla di rigoristico, si riduce a proclamarsi funzione difensiva della vita e dello sviluppo, un atomismo gretto e particolaristico che trasferendosi nel campo politico riduce i problemi di forze a una tattica di astuzie economiche.

    Del resto anche dove egli accetta l'esigenza della conquista (graduale!!) del potere politico da parte delle masse il suo obbiettivo è di arrivare senza lotta a un mutamento radicale economico. Qui l'intreccio è assai ingarbugliato e il problema dei rapporti tra economia e politica che il marxismo aveva validamente posto è ingenuamente trattato da una mente aliena dalle più sottili considerazioni di dialettica storica e di realismo della praxis. Al Turati basta salvare i suoi pregiudizi di natura ottimistica e il suo concetto tollerante del progresso: la lotta di classe e l'importanza idealistica della conquista del potere da parte dei nuovi ceti operai per il rinnovamento del ritmo attivo della storia gli sfuggono. Di fronte alla grande importanza del comunismo critico e della disciplina rivoluzionaria che esso instaurava, il riformismo di Turati si rivela sterile.





    Un altro equivoco di cui Turati è responsabile nella nostra incultura politica si nasconde nelle interminabili discussioni sul dilemma: programma massimo o programma minimo. Il programma minimo è un programma di governo, è un espediente tecnico per l'esercizio dei poteri statali. Ma non spetta, non è mai spettato a un partito di masse il compito di elaborare un tale programma, che non può alimentare se non parzialmente la lotta politica, e in tutti i casi soltanto attraverso metodi di alta maturità, analoghi a quelli proposti dall'Ostrogorschi e perciò assai lontani dalle possibilità di un partito demagogico. L'azione del popolo, nel momento storico presente può svolgersi soltanto secondo gli indirizzi di un programma massimo, una concezione della vita e della realtà elaborata come mito suscitatore di opere, e l'interesse verso le riforme pratiche deve rimanere un interesse di ordine amministrativo, un provvedimento tattico per superare ostacoli contingenti. Ma la preparazione della vittoria in questa grande battaglia eternamente ripresa può venire soltanto dalla decisione del piano strategico. La strategia si risolveva nella tattica, nel decennio ultimo del secolo scorso, durante il quale si ebbe l'esperienza politica più vivace del Turati e del primo socialismo italiano. Risolto d'amore e d'accordo con radicali ed anarchici il problema materiale dell'esistenza vennero a mancare fini più coerenti e lontani. Di fronte a Crispi e a Pelloux Turati seppe condurre la battaglia con singolare arte diplomatica e con grande generosità. Riuscì a conservare al suo partito un'individualità, pur approfittando del concorso decisivo degli elementi conservatori che gli erano indispensabili. Ma in questo compromesso si è esaurita tutta l'orginalità di pensiero del socialismo. L'antitesi coi sindacalisti e con gli anarchici significò appunta una pratica conservatrice. Il gradualismo attenuò ogni opposizione al potere costituito. L'idea internazionalista fu mantenuta per pregiudizi di umanitarismo e di positivismo o, nel caso Treves, per una cruda e quasi eroica necessità messianica di razza. Il giolittismo segna lo sfacelo di questa ideologia perché il governo si dimostra più illuminato che il partito.





    Mentre Salvemini sceglieva una pratica di opposizione ispirata a motivi pratici corrispondenti alla situazione del proletariato rurale del Sud e si salvava così con la fecondità di una critica, Turati e gli alti parlamentari settentrionali del socialismo si riducevano sempre più penosamente (tanto più penosa se in buona fede) ad una complicità non avvertita con le borghesie dominanti e salvavano le loro posizioni personali professando un grossolano pacifismo retorico e una filosofia democratica per cui speravano di procurare anche alle classi operaie organizzate del Nord i privilegi di cui godevano i dominanti. Da questa logica collaborazionista Turati non giunse ad assumere responsabilità di governo per mera timidezza. In realtà predicava alle masse, con enfasi demagogica, concetti e riforme che Giolitti attuava stando al governo. Il rivoluzionarismo poi serviva per ragioni elettorali e corrispondeva alla psicologia d'inquietudine alimentata nella città moderna in spiriti non preparati al ritmo della vita industriale, venuti dalla campagna con l'illusione dell'avventura. Non si dica che incrudeliamo contro un vinto, il quale anzi oggi come vittima per noi si redime e si salva, se vogliamo fissare delle responsabilità inesorabili e dei punti chiari di giudizio del passato.

    Dopo la guerra quando il popolo ebbe coscienza di essere rimasto esterno alla formazione nazionale, guidato per venti anni dai riformisti a un'opera anarchica di sfruttamento dello Stato, e volle una sua disciplina sovvertitrice di un ordine impostogli da tradizioni non sue, Turati si trovò a parlare attraverso i fiori della retorica messianica un linguaggio reazionario. Il suo scetticismo verso ogni organizzazione di forze, la sua fede nella diplomazia giolittiana riuscirono in un momento storico solenne gravemente diseducatori.





    Per un'opera di governo realizzatrice mancò la capacità degli uomini nel momento in cui le democrazie socialiste avrebbero potuto aggiungersi alle stanche democrazie borghesi. Si può giudicare ormai il fenomeno collaborazionista con animo perfettamente obbiettivo, ma si deve concludere che dopo l'esperienza giolittiana e nittiana esso non recava nulla di nuovo nella nostra vita nazionale. Avrebbe consolidato opportunamente uno stato di fatto ormai insopprimibile, avrebbe dato un senso di tranquillità ai ceti medi turbati dall'attesa seguita alle promesse della guerra. Non potendo animare questa situazione coll'entusiasmo di un'iniziativa epica i socialisti avrebbero dovuto dominare gli eventi con la perizia amministrativa e lo spirito d'ordine della giustizia distributiva. Per una politica reale di conservazione bisognava trovare il punto di incontro e di reciproca tolleranza tra gli interessi plutocratici e le incalzanti richieste delle classi inferiori. Con l'esperimento della guerra e con la politica di Nitti era stata preparata efficacemente la coesistenza delle due correnti mediante un'opera legislativa che convertiva le contrastanti pretese in nuovi rapporti giuridici. L'autorità che Filippo Turati e i suoi amici avrebbero potuto recare al governo partecipandovi assicurava la continuazione di questo equilibrio, nel quale il popolo si salvava per l'avvenire.

    Invece le aristocrazie sindacali si trovarono svuotate di ogni consistenza politica, vittime di una pratica di corruzione e di caccia ai sussidi governativi. La loro avidità non le poteva assistere in un'opera di conciliazione diplomatica. L'organizzazione politica socialista era vittima del suo stesso successo che si era risolto in un ingigantimento burocratico. L'adesione di larghi strati di malcontenti tolse ogni agilità di movimenti al partito. Invece di essere un'avanguardia disciplinata pronta alla manovra come un esercito i tesserati riprodussero le incertezze della situazione italiana, divisi tra un nucleo di operai formatisi nella vita della città moderna e una folla di contadini turbati più che affrancati da una breve esperienza della fabbrica. La partecipazione di nuclei più propriamente agricoli esasperati dalla guerra accrebbe la confusione perché non li si seppe far agire al loro posto come gregari inquadrati.





    Non è qui il luogo di rilevare gli errori insiti nella diagnosi della situazione prevalente tra i rivoluzionari. Ma bisogna constatare che ai rivoluzionari i riformisti non seppero rispondere con un pensiero chiaro e originale. Non seppero contrapporvi un'organizzazione propria. Esplicarono un'opera corrodente; invece di assumere le loro responsabilità fuori del partito vi agirono come sentinelle avanzate di una tattica che godeva la fiducia degli industriali, aderendo alla rivoluzione colle parole, ma boicottando coi fatti ogni sforzo di chiarimento. Rimasero nel partito soltanto per non diminuire la loro influenza parlamentare che doveva riuscire completamente feconda nel momento in cui essi avrebbero portato a Giolitti o a Nitti il dono di un proletariato acquiescente e addomesticato. Ma questo stesso proposito fu perseguito coi sistemi infantili di una organizzazione da carbonari. Il mestiere del tribuno aveva ucciso in questi uomini tutti i sensi del diplomatico. Le giornate del luglio 1922 resteranno l'esempio più ingenuo di una battaglia combattuta con tutte le intenzioni di essere sconfitti. Mentre le possibilità immediate della situazione si risolvevano tutte nel collaborazionismo essi subirono il gioco della crisi parlamentare, ebbero gli scrupoli più inopportuni nel momento in cui la loro opera era richiesta e poteva ancora salvare il proletariato da una reazione apertamente violenta, smobilitarono le loro forze definendo legalitario uno sciopero che restava l'ultima possibilità di vincere la battaglia e finirono umoristicamente col presentarsi candidati al governo quando la borghesia evitato il pericolo non si fece alcun scrupolo di respingerli con le beffe. Lo storico di questo episodio quasi ameno che fu la prima vittoria, non cercata, dei fascisti non potrà salvare né le menti né i caratteri: anche nella favola la figura della volpe gabbata riesce una parte priva d'indulgenza. Turati, Modigliani e i mandarini sindacali s'illudevano di trovare in tutta Italia la situazione milanese di ottimismo e di bonaria complicità. Nel loro collegio elettorale come in Parlamento non riuscivano a rappresentarsi quella vita di passione e di esasperazione che non erano stati capaci di leggere trent'anni prima nelle opere di Carlo Marx.

    Teso verso un'aspettazione non mai appagata il proletariato restava ormai inerte e senza interesse verso l'esperimento riformista. Il tono della vita italiana veniva dato da nuovi elementi e la volontà reazionaria dei gruppi più esperti si valse della disoccupazione degli spiriti e della disoccupazione delle braccia per tentare un'offensiva in grande stile, che si nascose, come accade, sotto la retorica del patriottismo. A guardar bene le cose non era che il secondo termine, identico anche se reciproco, dell'aspirazione collaborazionista: non dovremo meravigliarci se i gregari della reazione si trovarono ad essere gli stessi che avevano guidato le avanguardie, né che i capi, se pur dovettero mutare, resultassero negli effetti fratelli di pensiero e di illusioni - insomma che proprio i fascisti si dovessero trovare con la più allegra sventatezza a proporre la palingenesi collaborazionista per addormentare il popolo.

    Senonchè i fascisti erano più guerrieri che tribuni e non accadde che essi si disponessero a recitare la tragicommedia dell'indecisione.

p. g.