LA RIVINCITA DI UN CRITICO
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Mentre in Italia la mentalità militare - con quel che ha di più irragionevole e di coreografico - trionfa, in Francia sorgono, sempre con maggiore e più sicura audacia, alcune voci libere e disinteressate. Lo spirito critico, soffocato dalla censura guerresca, travolto dall'ondata confusa della riconoscenza agli eroi (dopo l'armistizio), riprende i suoi intangibili ed insopprimibili diritti. Ed è bello che in questa battaglia intellettuale intervenga un letterato di professione, Jean de Pierrefeu, del Journal des Débats, a testimoniare che l'esercizio quotidiano della critica letteraria è un'eccellente scuola formativa. Il suo Plutarque a menti è un bel libro, ed un'opera di onestà e di reale patriottismo. Sulla scorta dei nostri ricordi personali comprendiamo agevolmente l'origine del volume e la nobile indignazione, l'appassionata rivolta di Pierrefeu. Ci stanno nella memoria il culto verso il S. A. P, che sacrificava uomini capaci a genialoidi dello Stato Maggiore, perché nessun ufficiale di complemento poteva, per principio, valer più di un effettivo. Ricordiamo le subordinazioni a rammolliti, le gerarchie invincibili, il dispotismo di piccoli gruppi; le confraternite dei professionali della guerra, risparmiati e tenuti in riserva per elucubrazioni tattiche e strategiche. E così pure non dimenticheremo gli insegnamenti delle scuole militari, intesi a creare nel cittadino combattente una mentalità di casta (quasi che la nostra non fosse la guerra di una stazione armata, democratica). La coesione tra truppa ed ufficiali fu sempre mantenuta dai "borghesi in uniforme" che si rivolgevano al soldato in nome delle civili abitudini e idealità. Le virtù degli altri ci portarono a Caporetto e al caso Graziani. La Francia, la quale non ha avuto la benefica discussione dell'inchiesta su Caporetto, che tante verità ha messo in luce, rivelando al paese, accanto alla grandezza, la servitù militare (scoprendo meravigliosi bagliori di gloria ed orribili, nefande vergogne, e sopratutto strappando le aureole artificiali dei Capi) è caduta in pieno nelle ipocrite apologie. Gli storici ufficiali hanno verniciato ogni cosa in oro: la guerra è una tragedia in tre atti, ordinata, composta, corretta. Parte prima: la battaglia della Marna (vittoriosa), parte seconda: il graduale sbriciolamento del nemico (efficacissimo), parte terza: la controffensiva del 1918 (trionfale). I generali sono i più grandi di quanti il mondo abbia ammirato, le truppe meravigliose, il morale altissimo, il paese degno dell'esercito. Tutto è bene quel che finisce bene. Hanotaux aveva una tradizione da difendere, uomo politico prima di esser storico; Louis Madelin un seggio accademico da conquistare. Victor Giraud gli teneva bordone, per lo stesso scopo, ospitando nella Revue des Deux Mondes i pesanti, anonimi e minuziosi articoli dello Stato Maggiore o degli interessati. Ed oggi, contro l'onesto Pierrefeu, alla difesa delle impalcature minacciate (e senza perdere l'occasione per tirar acqua al proprio mulino, insultando Caillaux e invocando sterminio e morte sui comunisti) muove l'abbaiatore Léon Daudet, sempre pronto a contrapporre un libello di facile smercio ai libri di attualità, e abile a crearsi un successo con la rinomanza altrui. L'autore di Plutarque a menti, con eleganza gallica, non imposta la sua critica nei nostri termini brutali: si accontenta di attribuire i granchi e le falsità degli storici autorizzati al fatto che i loro scritti sono stati compilati principalmente su testi dello Stato Maggiore. Ora, come Pierrefeu sa a menadito grazie alle proprie funzioni di redattore di bollettini al Quartier Generale, ogni rapporto dei Comandi è non solo ricolmo di inesattezze (e chiunque ne stese gli dà mille volte ragione) ma costruito in modo da presentar le cose sotto l'aspetto più favorevole od utile a chi lo scrive. Soltanto coloro che hanno seguito la guerra dal di fuori possono avere l'ingenuità dei Madelin, Giraud e compagni (a meno che questa sia -ciò che è più verosimile - partito preso) e infiorare in buona fede con enfasi retorica, i materiali mutili e imprecisi a loro forniti da parti in causa. Si aggiunga, a completare la stupida manipolazione, quel veleno che fu la propaganda (molti cervelli ne conservano tuttora le traccie), ed i risultati saranno chiari. Lo scopo? "Flatter l'orgueil national, impressionner favorablement l'étranger, louer les hommes puissants, maintenir intact l'ordre social" (p. 22). Vi par poco? Ai zelatori replica Pierrefeu: la guerra non è più il fatto di una minoranza, bensì un avvertimento nazionale, suscettibile di libera discussione. La competenza non è - come si vuol far credere - di investitura divina, e i comuni mortali, a furia di studio, di esperienza e di buon senso, superano i professionisti, e anzi, recando nel loro compito i caratteri di geniale libertà e di pratica organizzazione propri al lavoro moderno, possono sostituirli con innegabile vantaggio. Plutarco ha mentito: "per ordine, per ingenuità o per timidezza" (p. 34): laceriamo la leggenda. Si entra nel vivo con "Joffre et C.ie ou le complot d'un état major bergsonien". Quali erano i principi che informavamo la dottrina dello Stato Maggiore francese allo scoppio della guerra? L'intuizione deve prevalere sull'esame intelligente, l'offensiva scatenata a fondo supplire ad un piano da lungo tempo studiato; il capo che dubita, o si arresta a considerare i rischi e i pericoli, è da sacrificare. Egli deve possedere la volontà di vincere e trasmetterla alle truppe. Grazie all'istinto francese, al carattere improvvisatore della razza e sopratutto alla camorra (il termine é crudo, ma giusto) della giovane scuola, le suddette enormità avevano preso piede. Joffre non era né favorevole né contrario: il suo temperamento calmo ("Che si sobbarca senza pena pesanti responsabilità e ha un gusto ormai vivo del potere" - p. 49) e placido, si compiaceva - nell'isolamento - di trovarsi chiuso nelle reti semplificatrici degli ufficiali di S. M. e ridotto a decidere, brevemente, su di un problema condensato- In lui, nessuna abitudine strategica, e poco amore per le carte ed i piani complicati: "A quoi tient la destinée d'un pays? Parce qu'un noyau d'ambitieux entourant un général en chef d'humeur paisible avaient eu l'audace d'écarter de la préparation du plan de campagne les hommes sages et pondérés pour qui la guerre ne constitue pas une aventure, l'Armée française s'est lancée tête baissée dans le traquenard que lui tendaient les Allemands... On ne tint aucun compte du plan de l'ennemi et l'on ne sut pas, à vingt corps d'armée près, le chiffre des forces adverses qui allaient se dresser en face de nous" (p. 51). "Quiconque est soupçonné d'esprit critique on ne sacrifie pas à la religion du "eran" est tôt ou tard mis à pied. Centeinquante généraux iront méditer à Limoges. Etonnante dictature d'un groupe d'anonymes" (p. 53). O Cadorna, diciamo noi, ecco i tuoi emuli e maestri! La tesi di Pierrefeu è la seguente: fisso nella sua idea di offensiva ad oltranza, lo S. M. trascurò i movimenti del nemico per scagliarsi in Alsazia. Sorpreso dall'invasione del Belgio, fu del tutto cieco sulla manovra avvolgente tedesca e si arrese tardissimo alle richieste del generale Laurenzac (l'unico che avesse una idea chiara della situazione) il quale, dopo le Ardenne e Charleroi batteva in ritirata nonostante gli ordini di attacco (al pari del Maresciallo French, che agiva analogamente per proprio conto, guidato dal buon senso) per poggiare sulla Marna. In un secondo tempo, soltante le straordinarie insistenze di Gallieni decisero "Joffre e C." ad approfittare dell'errore di Von Kluck e a dar battaglia. Dopo l'11 settembre - le forze nemiche risalgono verso il Nord - lo S. M. non sa far altro che seguire l'avversario: ne risulta quella corsa frenetica dell'ala sinistra che conduce le truppe sino al mare, stupidamente (e prova che nessuno dei due Comandi aveva pronta una manovra e che entrambi si sono lasciati sorprendere dalle circostanze) e le immobilizza poi nella guerra di trincea, rivelatrice del fallimento dell'arte militare. La guerra di posizione comincia: da una parte e dall'altra i mezzi - uomini e materiali - sono enormi, manca la genialità: per quattro anni si consumano centinaia di migliaia di soldati a regolarizzare una linea, a giocar di salienti e di rientranti. Ma lo S. M. si sente sicuro, e non lo tortura il pensiero di dover fare dei piani: si limita ad attendere. E' tutta qui l'arte militare? Ha infinite risorse, invero! Ed eccola impigliata in un campo primitivo, dove due popoli si affrontano e si rodono a vicenda: "L'événement a regné en tyran absolu, la guerre a déroulé ses ravages jusqu'à son extrême limite sans qu'un homme fut capable de l'endiguer, de la resserrer, de la saisir au moment propice et de l'étouffer. Le nombre, la masse a fini par triompher. Le génie personnel n'a eu jamais si peu de part à l'histoire du monde: des nations ont combattu, et c'est le génie des nations qui a imposé la solution inévitable contenue dans l'énoncé du problème. L'homme a subi, il n'a pas comandé" (p. l94). E siamo alla ripresa. Con un'analisi genialissima della personalità di Ludendorff, Pierrefeu ne scopre l'elemento fondamentale e militare: l'amore del gioco, del rischio. Inoltre, nota che la rovina della Germania nasce appunto dall'abdicazione del governo nelle mani dell'Alto Comando mentre, nonostante il bavaglio, l'opinione pubblica francese ha potuto sempre influire sui Capi (2). Nel marzo '18 l'usura francese era grande (l'esercito di "Joffre e C." ebbe perdite uguali - con un fronte solo principale - a quelle tedesche con due): Ludendorff assalta e con successo. Ma gli sta di contro Foch "l'insouciant", l'uomo che s'infischia delle regole del mestiere e che, sebbene la linea delle operazioni sia inverosimile, non vuol sapere di ritirare e disporre gli elementi secondo i principi strategici: "Tout le génie de Foch consiste à lutter pendant quatre mois contre Ludendorff avec son cœur de patriote indomptable qui ne veut rien savoir hormis ceci: on ne cède pas devant l'ennemi, (p. 302). Dopo il 27 maggio 1918 "Ludendorff comprend qu'il n'y a rien à faire: il a beau multiplier les percées aux endroits sensibles, il n'obtiendra jamais de son adversaire un repli stratégique" (p. 3o9): e allora al flusso segue, inesorabile, il riflusso, e la partita è perduta. Conclusioni? "La battaglia di Francia è il pensiero di Foch deformato dall'immenso determinismo delle cose" e il generale vittorioso può esser definito "l'impresario del caso" poiché in lui il pensiero non giunse a dominare nettamente l'azione. L'unità "battaglione" é quella che realmente decide del conflitto: "tutti i tentativi fatti per inquadrare nelle regole questa guerra nazionale non hanno dato altro risultato che quello di renderla più sanguinosa". Trionfano le qualità tattiche dei comandanti delle piccole unità: fallisce il tentativo di organizzare la battaglia strategica. Tale è malamente riassunta l'interpretazione di Jean de Pierrefeu, acuta, geniale, persuasiva e spregiudicata. Il suo studio è un modello di chiarezza, di evidenza, di composizione. Alla parte storica si accompagna quella polemica, e l'epilogo del libro é un ammonimento politico degno di esser meditato e conosciuto anche da noi italiani. La guerra ha illuminato chiunque avesse un animo libero e la capacità di riflettere, sui tremendi pericoli e sulle spaventose insufficienze della mentalità militane. Nel corso di essa sono sorti a neutralizzare i danni - talora irreparabili - di questo stato di cose, numerosi elementi casuali, occasionali, e sopratutto le doti mirabili dei quadri di complemento e della truppa. Allo spirito di autorità e di casta che la condannava alla rovina, la nazione ha opposto - sino a svenarsi - il proprio sangue, la stirpe la propria genialità. Le vittorie non sono - nelle campagne moderne -frutto dell'intelligenza e sagacia di un solo, ma collaborazione di una quantità di dati, di persone, di evenienze. La pretesa dei militari di carriera di essere "i signori della guerra", non ha il minimo fondamento, poiché nulla si risolve "senza lo sforzo concentrato di tutto il paese". "Il importe plus que jamais, dans les temps démocratiques, que l'armée ne sé distingue pas de la nation et que l'autorité n'ait pas le caractère militaire. Qu'on cesse de tenir à l'écart et comme en suspicion la grande muette qui a des choses utiles à dire; qu'on rende au corps militaire ses droits civiques afin qu'il ne soit plus un corps: qu'en échange on accorde aux civils qui le mériteront les droits militaires. Il est néfaste pour l'íntérêt de l'Etat que des castes se consituent trop repliées sur elles-mêmes, dévolues à des fonctions exclusives de toutes le sautres..." (p. 346). Jean de Pierrefeu ha scritto il suo libro per mettere in guardia la Francia contro coloro che, da anni, invocano l'Appel au soldat. L'esperienza bellica, tristissima, è istruttiva: il colpo di stato che portasse a una dittatura militate sarebbe catastrofico. Per fiaccar le reni ad un popolo, distruggere seriamente una civiltà, nulla di meglio di una immissione delle "virtù" militari nella vita politica. ARRIGO CAJUMI. (1) JEAN DE PIERREFEU - Plutarque a menti (Paris, Grasset, l923 - 7 fr. 50).
(2) Sul retroscena politico militare di questo periodo è interessante consultare Le prestige du pouvoir di LAURANCE LYON (Paris, Payot, 1923) che contiene indiscrezioni e notizie non trascurabili.
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