L'ORA CHE PASSA

    Discutere questo articolo vorrebbe dire ridiscutere i più tormentosi problemi attuali e la storia contemporanea. Noi preferiamo segnalare senz'altro nell'autore di questo saggio un nuovo scrittore.

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    Può sembrare senza ragione l'opera spiegata recentemente, da molti e piú da studiosi e da gruppi piemontesi, a prò della Monarchia, la quale, praticamente, non corre nessun pericolo, a meno che non sia in costoro l'intuizione di un pericolo, non sentito fin ora universalmente, per i nuovi atteggiamenti di quella. In realtà si tratta di preoccupazioni d'ordine più ampio, di tentativi, d'intenti rivolti al riesame delle concezioni base della nostra vita pubblica, stato, costituzione, poteri parlamentari, partiti, funzione di governo; di azione diretta, per intenderci, ad una prussianizzazione generale. Cose che richiamano l'attenzione per il loro evidente successo pratico, oltrechè per la preoccupazione patriottica da cui sono dettate e pel vigore e la maturità di pensiero con cui sono formulate: dei saggi più forti, più degni di meditazione è questo recentissimo di Filippo Burzio: "Politica Demiurgica".

    Diciamo subito che non è facile giudicare quanto nell'A. c'è di liberalismo autentico, di quello tradizionale, che si suol dire piemontese, e quanto di liberalismo illiberale. Da una parte, stato, potenza, eticità, individualità, stato-tutto; essere e dover essere insieme; e poi, relativismo di Einstein, teoria dell'inerzia, trasportata sul terreno politico, a confermare atteggiamenti hegeliani. Insomma è il momento di Treitschke: "affermazione dello stato di fronte alla lotta di classe"; come se già Bissolati non avesse avvertito il dovere della politica estera, la realtà nazionale, quale oggi è; per es., nel discorso alla Camera del 9 giugno 1909: "al momento attuale gli stati esistono ed esistono come enti, come personalità che si fanno valere nella concorrenza economica, nella lotta per la vita". Essere, insomma, non di necessità dover essere. Poi lo studio del Siliprandi "L'illusione individualista e la crisi della società europea"; tentativo vigoroso di teorizzamento statolatra, guardato con simpatia dal B., ma giudicato severamente come pensiero filosofico rozzo, e negato dal B. nelle sue conseguenze di riduzione dell'autonomia personale a mera funzione fisiologica, né più né meno di negazione di ogni libertà creatrice dell'individuo e, naturalmente, di rivalorizzazione del cattolicismo, come cemento dello stato, e di negazione del cristianesimo. Dice anche il Siliprandi (pagg. 89 90): "Aristocrazia di funzione e non di sangue, gerarchia non ereditaria, democrazia organica, in cui l'uguaglianza civile, non astratto diritto individuale, è un modo di lasciar fare alla natura, di non precludere alcuna funzione ai conduttori dell'energie sociali ad hoc... Dei tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, il secondo dipenda, senza ipocrisie dal primo, (il sovrano non nomini i ministri), ma abbia poteri limitati; ed un quarto, il sovrano, classicamente costituito, e non solo tollerato come anacronistico, circondato di splendori, moderi, rappresenti, vigili sull'autonomia degli altri, specie del giudiziario, esercitando ogni altro controllo costituzionale". Idealismi bellissimi, astratti, che si potrebbero intitolare, e sottoscriversi: "Della perfetta aristocrazia", ciò che è lo stesso: "Della perfetta democrazia", Bene per altro il B., richiamandosi anche al Salvatorelli, non manca di affermare, col soccorso del cristianesimo: "Come la religione non è solo socialità ma, con in più misticismo e trascendenza si riannoda ad attività affini, asociali, poesia, filosofia, così altre forze agenti nella società contemporanea, l'industrialismo, l'affarismo, l'anarchismo rivoluzionario, non nascono intimamente necessariamente volte a costituire lo stato, come il Siliprandi, nel suo mitico anti-individualismo, ritiene" (pag. 98).





    Parrebbe, da questo e da altro, che il B. voglia svuotare di ogni contenuto, di molta parte del contenuto, ogni concezione statolatra. Vi sono residui di anti-liberalismo, qua e là. Per es.: "Uno stato che realizzasse il concetto socialista o liberale, uno stato azienda commerciale o istituto di assicurazione degli averi dei cittadini, non potrebbe spingere questi alla guerra, (Pag. 13). Astrattissimo, visto che anche il socialismo non nega la funzione politica; ad ogni modo gli stati più democratici di oggi han partecipato alla guerra con più ardore che non gli altri. Ma subito dopo, a pag. 16: "s'intravvede già come, inserendovisi il socialismo, le realtà nazionali dureranno domani". E anche più recisamente: "non è facile scorgere che cosa di originale l'anti-democrazia possa, oggi, creare nelle forme politiche e sociali... Una dittatura del proletariato non sarebbe in realtà una dittatura... L'ideologia democratica rientra pari pari nel quadro socialista, con repubblica, forme rappresentative, uguaglianze... Social-democrazia: formula del prossimo futuro politico dell'occidente, conciliazione dei due termini nella logica integrazione di una ideologia politica con una economia sopravvenuta. Praticamente, storicamente, poi, social-democrazia sarebbe, oltre la limitazione della spinta operaia, riconoscimento, da parte del socialismo possibilista, di quelle entità storiche, - stato, patria, organizzazione militare - che nemmeno la democrazia postula, ma che accettò, come condizioni della realtà, quando ascese al governo; monarchia costituzionale, o addirittura repubblica, trasformazione professionale del Senato" (pag. 36). È questo dunque l'ideale del B., la méta cui bisogna tendere, il fuoco interno dell'animo suo, che una volta tanto, a proposito del nuovo chauvinismo, scoppia in accorata commozione: "Non fate, di questa realtà che sono le patrie, una religione farisaica. Pensate che altre grandi idee ebbe, ed avrà, la storia: pensate il cristianesimo. Non rendete l'Europa inabitabile... Non si torna indietro dalla democrazia se non attraverso catastrofi di civiltà che diano ai nuovi fondatori di stati privilegi oligarchici" (pag. 78).

    Vero è che sono qua e là accenni di critica alle concezioni socialiste, i quali possono fornir addentellato al nuovo processo di revisione che già s'inizia di quelle. Vi dirà che "solo al più grosso polemismo socialista è lecito presentare gli ideali di un'epoca come la maschera degl'interessi del gruppo dominante" (pag. 22). E anche: "La lotta di classe sembra implicare il mistico agire di una coscienza di classe, che non è reale" (pagg.22-23). Fare delle classi esseri involontari, anti-veggenti, è falsare, con visione preconcetta, la storia". Che è una revisione del concetto di classe. "La concessione del suffragio universale non è stato un interesse della borghesia, né quella della proporzionale del partito liberale... La storia ha visto certo anche inflessibili governi unilaterali ma più in periodi primitivi e per parte di vere caste, e d'oligarchie ereditarie" (pag. 26).





    Ciò che torna alla superiore affermazione sull'impossibilità, l'anti-storicità delle dittature. Più notevole ancora il suo sforzo di rivalorizzare la funzione delle classi medie. "Tutti gli sforzi polemici per identificare democrazia e plutocrazia demagogica, restano disperatamente vane, perché la democrazia è anche l'opinione delle classi medie" (pag. 30). E semplificando, l'A. sosterrà che, appunto a causa dello spirito piccolo-borghese, i governi borghesi non fanno una politica di classe; che piccolo-borghese è Giolitti, piccolo-borghese, da noi, il radicalismo, il riformismo, il socialismo parlamentare e il partito popolare. E anche aggiunge, la politica europea interna ed estera. Ciò che si potrebbe accettare, se fosse dimostrato, a lume di fatti, che é, per es., piccolo-borghese la politica odierna francese, possesso della Ruhr, disgregazione dell'unità germanica, la spada di Napoleone fin sulla Vistola e sui Balcani. Ad ogni modo questo è un punto capitale nella concezione del B. Ad una critica del concetto marxista di lavoro accenna di sfuggita: "La percentuale prelevata dagli imprenditori sul frutto del lavoro, relativamente minima, nulla se ripartita fra la massa, funziona invece come molla essenziale del meccanismo produttivo... Nessuno più della borghesia industriale è, oggi come oggi, capace di assicurare il benessere materiale dei lavoratori" (pag. 37). Revisione che si riconnette a quella, più a fondo, operata già dal Seilleres. Ma, come dicevo, è più importante per noi la svalutazione di ogni dittatura di classe. E anche per l'A. Il quale nel suo capitolo su "I partiti", che non è il meno importante, spingendosi ad una chiarificazione dei modi d'interpretazione e rappresentazione della realtà storico-sociale, afferma che, oltre allo schema limite degl'interessi (materialismo storico) e a quello dei sentimenti, sociali (Pareto e Sorel), bisogna riconoscente un terzo, quello della ideologia, "principio etico sui generis", la quale "non va contro interessi e sentimenti (o, se va, fallisce); opera prima e fuori, in una sfera dove quelli, o tacciono o ne sono condizionati" (pag. 177). E che mentre interessi temperamenti sentimenti possono trovar soddisfazione in vari partiti, è l'ideologia quella che decide gl'individui a la scelta dei partiti, è l'ideologia, come "imponderabile di opinione diffusa", che fa superare ai partiti le caste, e gl'interessi, che fornisce la formulazione ai partiti, cioè alle organizzazioni di sentimenti sociali. Ognuno vede l'importanza di queste considerazioni sulla piccola borghesia e di questi teorizzamenti antimaterialistici. A noi pel momento preme di constatare che, con ciò, siamo ancora nel liberalismo, di quello, per intenderci, liberale.





    Parrebbe perciò che la posizione del B. rispetto al moto nazional-fascista e alla recente pratica di governo liberale, debba essere affine a quella del Salvatorelli, di Sapegno, de La Stampa, insomma, dei gruppi piemontesi liberali, più maturi, giolittiani, e simili. Ma i teoremi e filosofemi politici vanno saggiati come comprensione della realtà politica. È dunque da vedere il B. in questo esame della nostra vita degli ultimi trent'anni e specie degli ultimi avvenimenti; compito che egli si assume arditamente, e che assolve con attraente finezza, ironia e passione severa; quale che si sia poi il giudizio da portare sul suo orientamento e sulla sua stessa capacità di comprensione della nostra vita politica.

    È sullo sfondo non solo del conservatorismo lombardo, ma sopratutto della incompostezza nazional-fascista che egli ci proietta, con forza, in piena luce, il liberalismo di Giolitti, e Giolitti erige a simbolo di anti-fascismo, di anti-nazionalismo, di anti-d'annunzianesimo, a demiurgo, in breve, cioè a perfetto creatore e realizzatore politico.

    Verso le tendenze del Corriere della Sera a considerar lo stato "non come amministrazione, ma come persona etico-storica, a identificarlo con le forze ortodosse, ad escluderne le sovversive, trascurando che queste pure sono parte dello stato" (pag. 44), giacché "i conservatori moderni hanno dalla loro l'opinione anti-proletaria, nazionalistica dell'alta cultura" (pag. 46), si comprendono le sue simpatie. "Questo gruppo" afferma senz'altro, "è vitale, in fondo; è, anzi, alla sua cresciuta forza che si deve la rinnovata incomprensione di Giolitti. Onestà, rettitudine, devoto amore alla cosa pubblica si riscontrano in Sonnino, Rubini, Colombo: virtù di vecchi conservatori, alla prussiana e alla piemontese"(pag. 46-47). Fa, è vero, qualche altra riserva: accusa questi conservatori, in blocco, di "gravi errori" in politica estera; ciò che è troppo generico, a meno che non voglia condannare il preveggente delenda Austria bissolatiano insieme col servanda Austria di Sonnino e, perché no? di Giolitti.

    Ma contro il fascismo è un insorgere di tutta la tradizione culturale piemontese, di tutta la pratica più che semi-secolare di moderazione di saggezza, di tutti gl'istinti più profondi di conservazione statale. "Il sorgere di volontà politica nella borghesia, ha maturato frutti con una rapidità sconcertante, con l'imporsi dittatorio di una élite antidemocratica su basi plutocratiche, la quale, se ebbe la prudenza di accettare la monarchia, pur ha voluto, ostensibilmente, farle pesare la sua forza..." (pag. 145). La megalomania nazionalistica è lontana dal senso dello stato quanto la serietà dalla retorica, dissimula appena un più o men confessato odio di ceto, e istinti di brutalità elementare, (pag. 147). Come risultato, il moto fascista "intorpida con la presunta volontà costruttiva dei capi, anche il gioco degli interessi, ormai non più occulti, che hanno portato all'attuale governo di una élite plutocratica" (pag 148). Tutto ciò non può che suscitare disgusto e richiamare i giudizi più gravi. "Sdegna a vedere i retori con vile arte opporre il paese eroico al governo imbelle: il paese non vale più del governo; più o meno nessuno dei suoi ceti è maturo a reggere lo stato. Tenuto conto dei maggiori obblighi, la borghesia vale il proletariato, il fascismo è un pò il suo bolscevismo, dei due mali il minore. Siamo faziosi o anarchici, scarsi di devozione, disciplina, di senso costruttivo: siamo tutt'ora, in parte, nella condizione che disperava Machiavelli. Gli eroi, in Italia, politicamente sono faziosi. Guardate D'Annunzio, guardate Mussolini. Capitani di ventura. Guardate il parlamento, e i partiti. Il problema del governo, in Italia, non è tanto realizzare dei programmi, anzitutto, dominare gli uomini, con qualunque mezzo. Ora che Giolitti non c'è più, lo si avverte" (pag. 130).





    Ci siamo: Giolitti. Ed è facile prevedere che la figura di Giolitti ne acquista uno straordinario rilievo. Ma bisogna sentire questa passione. Nessun altro uomo di Stato in Europa, e nel mondo, nemmeno, possiamo dir tanto meno, fra quelli provenienti dall'internazionale, ha seguito, con più tenacia di questo ex burocratico, il principio: appoggiare, e appoggiarsi, il più possibile, contrastare il meno possibile il proletariato e, in genere, le classi minute, (Pag. 41). Bene: è il popolarismo democratico, dovuto a Zanardelli e Giolitti, vuoto, anatomico, cioè anarchico come, ha detto il B., tutta la vita nostra, illiberale, quale poteva dare il paese. E l'uomo, aggiungiamo, e vedremo come. Non giovano i, richiami a Lloyd George, a Lenin. Altri popoli: l'Italia non è la Russia, ma nemmeno l'Inghilterra; altre situazioni, altri uomini di stato. Giolitti fin dal'92, dopo l'atto di nascita genovese del socialismo italiano, "parla agli operai, nella loro sede, in Torino, per dire che il governo è con loro" (pag. 48). C'è anche, prima, il suo discorso democratico di Cuneo, del 1888: c'è sopratutto l'attitudine di Giolitti nel settembre 1920, al tempo dell'occupazione delle fabbriche. Prendiamo nota. Contro il comune prevalente giudizio, il B. protesta con forza e con sagacia. "Opportunismo gretto, volto a un successo personale, al quotidiano sbarcar del lunario, politica del carpe diem, senza luce di abbaglianti ideologie, è l'interpretazione che rimane. Giolitti non sarà mai il leader di un grande partito, diceva il buon Papafava: e credeva di menomarlo!" (pagg. 48-49). Su questo punto delle ideologie, della lue retorica inguaribile della nazione, il B. insiste. E non è mai troppo per la nazione; ma chi ha chiesto a Giolitti, per es., il teorizzamento del liberalismo del Weber? "Un'ideologia è una necessità per un politico, come una teoria per un fisico, agli inizi di una ricerca: orienta, non è per Giolitti atto di fede, ma forma comoda di conoscenza, schema cui aderisce, con le simpatie native, e innegabili del temperamento, un primo rozzo sperimentare di fatti più appariscenti" (pagg. 53-54). Veramente le opinioni politiche con la conseguente azione, non sono veri scientifici, ma credenze, cioè fede. Né il B. ci dirà che Giolitti avesse fede nella democrazia: "la democrazia da noi, è meno un ideale politico che uno stato di fatto sociale. L'Italia è democratica anche nel senso che i suoi istituti sono, e più erano, gracili" (par. 55).

    Perché dunque, e in che modo, è stato democratico Giolitti? Ah! ecco: "Fare della democrazia, della demagogia, è stata l'unica opera di conservazione possibile in Italia: conservazione dell'essenziale; lo stato e l'unità: necessità subita o vagamente contrastata da quanti furono al governo, ancor oggi intuita, forse in ritardo, comunque sintomaticamente, da Nitti" (pag. 58). Insomma tutto questo si giustifica non in sé, come adesione di Giolitti alla democrazia, ma come un ripiego, una superiore abilità demiurgica di adattamento alla naturale debolezza del paese, in vista, si badi, del vantaggio dello stato, "criterio implicito nel pro e nel contro, nella ricerca di motivi e fini" (pagg. 59-60). In tal caso bisogna aspettarsi che il paese, la parte più schietta di esso, che sa l'antica deprecata spregiudicatezza politica paesana, temendo che lo si guidi a caso, si affidi magari al conservatorismo, ma tutto di un pezzo, del silenzioso Sonnino e anche del loquace Salandra. Colpa del paese? Vedremo meglio dopo. Possiamo dar nota al B. "L'inesorabilità discreta con cui pose sempre in sordina, non pure le fanfare ideologiche, ma ogni consonante mozione degli affetti, non appare solo impotenza patetica ed incoltura, ma volontà, che intuito della vacuità di tanti schemi alimenta, e nativa distinzione sorregge... Egli non ha mai citato Dante, né fatto clamore nella vita privata, né sparso lacrime in parlamento; ha escluso, comunque tentante fosse l'occasione, dal suo giuoco politico ogni intromissione tribunizia... La serietà, il personale distacco, il disgusto dell'esteriorità è l'altro dato psicologico iniziale che conferisce un senso di secondo grado al conclamato cinico opportunismo... Un uomo serio non è mai cinico: l'eticità dell'azione è tutta qui... La politica non è pedagogia, né apostolato, non implica fede (?) in tutto quello che si dice, né in tutto quello che si fa. Fra Rabagas e Mazzini c'è posto per un altro tipo umano. Il problema etico della politica, e della pratica in genere, è di manipolare il fango senza sporcarsi le mani, di saper mentire se occorre - ma è sempre un mentire pei gonzi - conservando il gusto del vero; di dominare, insomma, la realtà senza spregiarla. Anche Sonnino è serio, ma non è furbo (!); anche Nitti è furbo, ma non sembra, per ora, sia serio (!)" ! (pagg. 63-64).





    Non vale compiacersi di questa esteriorità anti-retorica che, per es., accomuna uomini così diversi come Sonnino e Giolitti; è evidente che per un giudizio sereno, ed è l'ora di pronunziarlo, occorre rifarsi alla considerazione delle nostre condizioni politiche e di quel che uno spirito demiurgico vi è chiamato a fare.

    Evidenti le considerazioni su "Cesare, Alessandro, Napoleone, più che veri statisti, eroi puri poeti dell'azione, creatori di epopea" (pag. 67). Ma è il paragone di Cavour che Giolitti deve temere, e sul quale mi pare che il B. giri con abilità. "Forse Cavour e Bismarck furono realmente piú affini alla materia più drammatica che si trovaron fra mani" (lbi). Non basta. Giolitti è un Cavour cacciato dal ministero alla vigilia di Plombières. Egli non domina la nazione in guerra, come, vedremo, non l'ha effettivamente dominata nemmeno in pace. La nazione, non soltanto quella dannunziana, sente il bisogno di affidarsi alla muta silenziosa fede di Sonnino, guidi dove vuole, perché è fede, o si dice. Bisogno di schiettezza, di meno furberie. Cosa sana, se pur ingenua. È vano rimpiangere la sollevazione di piazza contro il parlamento - inde mali prima labies - vano constatare che "la retorica italica ne approfittava per crocifiggere il proprio anticristo" (pag. 70). Per un uomo come il B., così pieno di realismo, di hegeliana e crociara adorazione del fatto. Ed è vano il sopravvalutare il riapparire di Giolitti sulla scena dopo la guerra. Atteggiamenti felici; ma nemmeno questa volta ha dominato il momento ancora una volta la realtà gli è sfuggita. Non ci ha guidato fuor delle stragi, delle reazioni e contro reazioni. Non era da lui. Buono per dominare piccoli uomini, non già partiti, per emergere sul caos, non già per esprimere correnti che vogliono organizzarsi. Perciò facilmente il veto di don Sturzo lo sorprese. Forza nuova, cavouriana, che egli ignorava. Non parliamo della sua incubazione del fascismo. Il quale, dissero gli spiriti più ardentemente anti-fascisti nel novembre scorso, è ben preferibile al subdolo giolittismo. Meglio venti anni di reazione, magari di picchetti armati! Perché insomma bisogna riferirsi una buona volta appunto al concetto di stato, al vantaggio dello stato, governo e nazione, al criterio "della conservazione dell'essenziale, lo stato e l'unità".

    Uno stato è organicamente formato, vale appena la pena di ricordarlo, se in essi la sicurezza pubblica ha per base e per garanzia il funzionamento regolare delle istituzioni della vita nazionale, a cominciare da quelle elementari, l'amministrazione del comune, della città, della provincia. In esso la delimitazione dei poteri del principe, dei soggetti, del governo centrale, delle amministrazioni locali è prodotto dalla pratica, in virtù di esperienze prolungatesi nei tempi. Ciò nella concezione degli storici prussiani. La solidità delle nazioni per cui non sono costrette a passare convulsivamente da una scossa all'altra, da un orientamento all'altro, per cui possono respingere le invasioni, o, invase serbare l'unità è data più che dalla fortuna del principe, dalla abilità del governo e dalla bravura dei capi militari, da questa organicità dello stato, che è adesione delle masse, ordine, organizzazione, partecipazione di quelle ai problemi dello stato, passione d'indipendenza e di libertà, gioia delle singole esplicazioni individuali, onde ogni cittadino vede nel pericolo dello stato il pericolo proprio e, nel momento del pericolo comune, risponde all'appello del principe. Si rifletta un po' alla caduta del Regno di Napoli, improvvisa ed insospettata, malgrado il valore dei baroni e l'accortezza dei Re e dei loro consiglieri, ancora una volta lumeggiata in questi giorni da B. Croce. Insomma mirare al basso, più che all'alto, al popolo e alla sua vita ben più che alle forme del potere centrale; dar pace tranquillità sicurezza del presente e del futuro; organizzare, stabilizzare la vita al basso, di modo che questa funzioni il più normalmente possibile anche quando il governo meno la sorvegli, preoccupato da problemi diversi, o scisso, com'è più frequente, indebolito da fazioni. Non s'intende il crociano suscitare energie, secondo la citata "giobertiana e treitschkiana massima che i popoli si rinnovano dal basso" senza incanalare queste, unirle, affiancarle, senza pretendere di confonderle, inserirle nella vita dello stato, non stroncarle né svilirle; e insomma suscitare energie vorrà sempre dire inquadrare forze, non contemplarle lanciate in esaltazioni di schiavi fuggiti al remo, per poi, in attesa di nuovi scoppi e turbolenze, deprimerle e raumiliarle. Tutto ciò tanto più necessario in Italia, per ragioni già dette, lapalissiane. Non dunque dominare uomini, ma costringerli in forme organizzate; non personale attività, pure ammirevole, nel fronteggiare individui, ma provvedere al futuro, creare, o almeno aiutare, condizioni per cui i singoli non possano se non agire attraverso forme organiche, e temprarsi e dirozzarsi e acquistar senso di responsabilità e statizzarsi; sicché l'anarchia individuale diventi passione e ardore di classi, di partiti, i quali non possono, come gl'individui, sorprendere con bruschi mutamenti, ma devono, anche se ostili, seguire il lento e chiaro sviluppo della loro logica interiore.





    Ora, con tutta la buona volontà, non mi pare che questo abbia fatto Giolitti, che abbia mirato al futuro più che al presente. Siamo stanchi di imprevisti, da trent'anni, di confusionismi, di blocchismi, di soluzioni prospettate e non accettate, di provvedimenti non approssimativi, di giochi di prestigio, di mirare a destra invece di giungere a sinistra e non sapere mai dove si va, di maggioranze instabili, di ministeri di procura o di ministeri tollerati; di sollevazioni e di capovolgimenti. Questa anarchia é chiaro che Giolitti la fronteggia con le risorse di un'abilità consumata, attirandone, carezzandone, spegnendone gli esponenti, con fatica improba, senz'aver forse il tempo di pensare al futuro più che all'oggi; e dunque promovendola ed accrescendola. Per convincersi che egli non ha una visione organica, che non sa dove andare, si pensi un pò alla sua politica agraria e verso il mezzogiorno, che ha obbedito ora al politicantismo ora alla burocrazia e ha scontentato tutti, alla legge 1905, da cui esulò quanto di meglio si era preparato. Nessun tentativo di assidere stabilmente la vita commerciale su basi cui non raggiungesse l'intrigo politico; nemmeno seria sorveglianza della finanza dei comuni e delle province, compito non ispregevole. Pure da noi non esistono uomini contro lo stato e nemmeno contro il governo, se non nella retorica patriottarda; e fin nel'19, '21 le amministrazioni socialiste filavano il più perfetto accordo col Commissario di P.S. e col Capitano dei RR. CC.; e il ministerialismo è piaga dei volghi borghesi e proletari, come il cesarismo dei capi rivoluzionari. Insomma sbandamento politico nell'alto e nel basso, e politica elettorale, molta devozione all'uomo e poca allo stato. Abilità, non saggezza; il parlamento aperto a Barberis, per far ridere, non a Giretti; cose arcinote. Svalutazione e Marx in soffitta, non franco riconoscimento, né collaborazione in base ai programmi, né interclassismo serio: dopo l'alleanza con Tittoni la chiamata di Bissolati al potere, inaspettata, impreparata, bagliore accecante agli occhi della massa, che non comprese e non permise. Tutto sommato politica di spegnimento più che di suscitamento di capacità politiche, di diffidenza scettica più che di sano incoraggiamento; debolezza, più che fiducia in sè e negli altri, più che forza; composizione di risultanti, più che guida. Specchio della nazione, non migliore di essa. E anche, bisogna ammettere, momenti innegabilmente felici...Lascia lo stato la nazione più anarchici di prima. Qualità di second'ordine. Il liberalismo in fondo. Se l'ufficio del politico, è secondo il Pareto, solo di seguire, non a questo modo seguì Cavour. Nessuno, che io sappia, ha tentato il paragone sul serio. Se vogliamo trovare un simbolo di anti-d'annunzianesimo, gridiamo pure Cavour, creatore e realizzatore. Potrei aver finito: le susseguenti pagine sulla monarchia chiarificano, non aggiungono. Se lo stato é più debole alla base che in cima della piramide, non si comprende perché anche il B. si lasci prendere dal miraggio di riconfermare e rafforzare ció che è meno debole. Critica del parlamentarismo, che non persuade: ci sono sempre ottime ragioni per mutare, prima ancora che gli esperimenti abbiano potuto compirsi e se ne possono vedere gli effetti: ottima maniera per distrarre dall'esame di problemi più seri: il paese non domanda di meglio che di gingillarsi, di menare il can per l'aia. Difesa della monarchia: "la stessa funzione, coesiva, poi direttiva e tutoria che ebbe in tutta l'Europa, nella formazione degli stati nazionali" (pag. 124); generale indifferenza verso di essa; la trincea dello statuto, ma nemmeno il B. vuol tornare a Carlo Alberto; accettazione del fascismo: "la monarchia è come se abbia detto: evitiamo giochi di forza, lasciamola tentare: ciò sotto l'aspetto convincente, che è poi quello politico, e a parte apprezzamenti sulla procedura, appare, nella sua semplicità, felice" (pag. 146), che è troppo poco per l'affermazione della volontà dinastica, e sa, al solito, di espediente, non di direttiva; insomma il pericolo c'è, per la monarchia, e più che nella tradizione di sinistra, in quella di destra, poiché borghesia e plutocrazia vogliono uscir di tutela, governare da sé. Perciò il nazional-fascismo, non il socialismo, è pericoloso per la monarchia" (pag. 128). E, allora?

    Il B. discute se il dominio effettivo, se il governo, nella precarietà ministeriale, sia esercitato dalla plutocrazia o non piuttosto dalla burocrazia e nota che "altro è indebolire una funzione, altro il surrogarla, e renderla superflua" (pag. 104); ma appunto il recente moto, a sua detta, è sfacciatamente plutocratico, e noi aggiungiamo burocratico-militarista, e rivela senza infingimenti un vero odio di classe. E allora? Allora resta la parentesi, fatta con garbo, ma sempre parentesi; e anche gli auguri, commozione di fedeltà piemontese, "che la monarchia prosegua nella sua funzione politica tutoria; che, quando quella sia davvero esaurita, trapassi alla permanente funzione giuridica, in una serena e splendida sovranità all'inglese. (pag. 130). "Sia, come è sempre stata, nazionale e non nazionalista... Niente conati alla Guglielmo, niente monarchia imperiale, secondo gli schemi di galvanizzazione monarchica di certo nazionalismo di ante guerra.. Né nuocerà la usuale neutralità e passività apparente, di fronte alla lotta politica spicciola delle tendenze sociali, affinché, primo, la loro grezza forza non la offenda; secondo, l'opinione, abusata, se ne stanchi... Continuare a far da calmiere del parlamentismo, difficoltato a dare un governo stabile: non lasciar distruggere la organizzazione operaia che è, oltrechè una conquista civile, una parte vitale dello stato, e riserva politica di forze in maturazione, bilanciatrice di quelle opposte influenze che abbiamo deprecato" (pagg. 132-33). Che sarebbe S. Luigi a rendere giustizia ai poveri, a difendere gli umili, contro le prepotenze dei baroni. Ad ogni modo, ripetiamo la vecchia formula: "con la monarchia, finché è possibile". Costituisca magari l'impero, ma aiuti, per quel che può a guardare al fondo, a battere contro quelli che sono comuni pericoli dello stato e di essa, a sveltire l'organismo statale, a lasciar svolgere le funzioni periferiche, a discentrare; miri all'Inghilterra più che alla Prussia. Ma lasciamo al B. la parentesi, i se, i ma, e fate piano, non rompete i vetri, siate seri, crisi istituzionale e salvate la libertà, il parlamento faccia le leggi ma i ministeri sien liberi di non rispettarle, e le faccia dietro gli ordini del potere esecutivo, in pratica della burocrazia e della plutocrazia; investitura popolare insostituibile, selezionata, esprima cioè quel tanto che le si vuole far esprimere; riforma della Camera, cioè contraffazione della volontà nazionale, la quale se è cieca, sia tenuta all'oscuro; e "non trascurare alcuna forza, l'operaia specialmente, già troppo colpita con mentalità da caporali...Ministro, non gente con il frustino. Non tirannelli, non superuomini da piazza, non aver per dio D'Annunzio e per insegna il futurismo" (pagina 154). Scrupoli di rettitudine, di compostezza piemontese, giolittiana magari. Non ha detto acutamente il B.: "la disposizione d'animo del partito verso lo stato è un po' sempre: fiat veritas (o iustitia, o libertas) et pereat Stato" (pag. 191)? La realtà è molto più dolce, niente tragica, all'italiana, ancora nella linea morbida, giolittiana: abbracciamento di tutto, partiti, religione, sindacalismo, monarchia; uniformità, quiete: delle varie soluzioni che affacciava il fascismo, ha scelto la migliore, quella paternalistica. Non è anche questa, nel fondo, nella linea di Giolitti?

    Per chiudere, il B. esorta tutti a partecipare a questo moto, ad aiutare a scegliere fior da fiore. Non accetta l'atteggiamento del Salvatorelli, del Sapegno: "c'è un modo di restare noi che è piccino, tetro, gretto, misoneistico, senza luce né calore, senza attrattiva forza di simpatia: e c'è né un altro glorioso che è di andare dietro la vita grezza, pronti a riconoscere dovunque il buono, e senza gelo a salutar ed a aiutare l'umano. Se del buono c'è, sarà salvato (pagg. 161-162). Se il B. non avesse teorizzato così bene, come ha fatto, il valore delle opposizioni, ci sarebbe da parlargliene a lungo. Ma egli ha pronta la sua giustificazione hegeliana: "lo spirito demiurgico riconosce l'intransigenza come un elemento della lotta politica, ma quasi fatto bruto, perché non tutti sono demiurgi" (pagina 164). Perché fatto bruto? Il demiurgico è più o meno nell'uno e nell'altro. Valutare l'efficacia demiurgica di certe opposizioni, come quella ben poco demiurgica di certi artefici, è sempre opera di comprensione storica, di orientamento, che generano, e ne sono generati, la pratica politica.

TOMMASO FIORE