LA FINE DI UN DEMAGOGO
Slesia, anno 1840. La provincia prussiana era tutto un maggiorasco, l'ultimo dove i nobili dell'Impero, con diritto al titolo di principe e all'appellativo di Ev. turchlant, severissima signoria, potevano nobilmente cacciare il bisonte. Distese di foreste di pini attaccate a tre o quattro grandi nomi, i Lichnowski di Kreuzenort, gli Hatzfeld di Pless, i Carolatts di Beuthen, i Blücher di Krieblovitz: le città, Breslavia, pendalocco del pastorale del Cardinale-principe: e molti guardiani notturni che registravano tutto, quanti corrieri del re passavano sulle strade provinciali, quanti galli di monte si facevano udire all'alba dalle riserve di caccia. C'era molto ordine, molta tradizione, molto timore reverenziale, nelle Glesis prussiane del 1840. C'era anche, al ginnasio di Breslavia, un piccolo ebreo aschenazim. "Aschenazim": cioè ebreo di occidente, inquieto, mutevole, vivace. Non molto dissimile negli atteggiamenti, nella voce, dagli ebrei polacchi che oggi hanno invaso i caffé del Kurfürstendamm berlinese. Le notizie dei massacri di tamases arrivano perfino nei borghi che i guardiani notturni vigilano: arrivano perfino nella casa di Breslavia, che il piccolo ebreo Ferdinando Lassalle abita. Oggi troviamo nel suo diario: "Io vorrei immolare tutta la mia vita, per strappare gli ebrei dalla loro situazione. Fare indipendenti gli ebrei, con le armi in pugno!". Ma perché, mio caro figlio, vuoi diventare, proprio tu, un martire? La libertà può essere conquistata, anche senza di te. "Ah, padre mio! Perché devo diventare un martire? Ma perché Dio mi ha posto nel petto la voce, che mi chiama alla lotta! Perché io non posso fare altrimenti!". Questo candidato al martirio ha però delle idee singolari sul piccolo mondo cristiano che lo circonda, ma in cui egli non mette radici. Oh, questi tedeschi, incapaci di strappare le loro catene, incapaci di cantare in focosi versi la libertà! E questi compagni, di ginnasio e di università, così pecoroni! "Il ciuco! Gli sono infinitamente superiore di prestanza fisica, di spirito, di intelligenza, di denaro, di considerazione". A Berlino e a Parigi, a contatto con altri ebrei di talento o di genio, come Marx e Heine, o di cristianucci che aspettano l'iniezione dello spirito rivoluzionario, questo inventario delle superiorità di Ferdinando Lassalle sarà continuato e perfezionato. Alessandro di Humboldt lo chiama "ragazzo meraviglioso"; Heine, "il nuovo Mirabeau". Egli stesso si denomina "Sozialdemokrat". Il "martirio" ha trovato un nome. Ferdinando Lassalle, agitatore, tribuno, proclamato fondatore della socialdemocrazia tedesca, non tornerà mai più in Slesia, a Breslavia, nella provincia ammuffita. Un rimpianto e una nostalgia delle foreste in cui il tedesco si sdraia ventre a terra, seppellendo le orecchie fra le alte erbe fragranti: del fiume, tapis roulant degli sguardi umani: di tutte le grandi cose in cui il cristiano ama sperdersi, in un'ansia di obliare e di smentire se stesso, non esisteranno mai per lui. Il profumo del venerabile ordine della piccola patria tedesca, non insinuerà mai in lui il più piccolo dubbio sulla bontà dei suoi grandi specifici: Libertà, Popolo, Rivoluzione. Egli é nato a Breslavia, così, come potrebbe essere nato a Colonia o a Berlino: o in qualunque altra città di Germania o di Europa, indifferentemente, purché fornita di una diaspora ebraica, di una sinagoga, di un ghetto. Questo si. In questo é veramente radicato: e alla fine della sua vita, le umiliazioni delle generazioni riviveranno in lui, lo piglieranno alla gola, gli sconvolgeranno il cervello, assai, assai più che l'amore per Elena Dönniges: "Come! La famiglia di questo nobile diplomatico non vuole riconoscere suo pari me, il figlio di giudei! Ma il figlio di giudei saprà forzare quegli aristocratici con la pistola in pugno...". ***
Nella vita di Lassalle - che fu poi, contro ogni leggenda, una vita di martirio piuttosto comodo: il papà che manda denari da Breslavia, grandi successi oratori nei tribunali e sulle piazze, molte condanne aureolate di popolarità, pochi mesi di prigione - tutti gli avvenimenti sono soggetti ad una specie di deformazione da Prometeo reclamistico e mitingaio, ad una convulsione di grandezza, rivelate dal suo linguaggio abituale. La lunga avventura giudiziaria per la sua amica, la Contessa Hatzfeld, diventa "Der Kampf um Recht", la lotta per il diritto: gli assai mediocri trucchi con cui egli cerca di ottenere il permesso di soggiorno a Berlino, (falsi rapporti alla polizia, travestimenti da lattaio ambulante, rivelati nell'autunno del '22 dall'instancabile studioso del Lassalle, Gustav Mayer), diventano "Der Kampf um Berlin", la lotta per Berlino. La descrizione della sua prima perorazione dinanzi al tribunale di Düsseldorf: "Questo giorno mi procurò nella provincia renana la fama di un impareggiabile oratore, e di un uomo di illimitata energia... Ora mi rallegro delle questioni di procedura come un dio... Voglio gettare le mie freccie come il lungimirante Apollo, e compiango fin d'ora i poveretti, cui incomberà il compito, di rappresentare l'accusa contro di me...". In un altro processo, il presidente gli toglie la parola. Lassalle gli replica: "Grande inquisitore! Il banco dell'accusa é, da quando ricorda memoria umana, l'asilo della libertà di pensiero. Io posso dimostrare dagli annali della storia che perfino il Grande inquisitore di Spagna...". E avanti, con queste trovate di Danton di pretura. Alle sorelle, di un altro processo ancora, quello per alto tradimento, nel 1864: "Io parlai quattro ore, in certi punti col furore di una tigre reale ircana! Fui interrotto tre o quattro volte da un vero ululato di furore dei giudici sobbalzanti sulle loro poltrone. Ma io li domai...". Annuncia di essere riuscito a persuadere il giornalista Lothar Büchner ad entrare nella sua associazione operaia: "Mi è riuscito ad ottenere Bischer per proselite, in due conversazioni, la prima dalle 4 fino alle 8, la seconda dalle 4 fino alle 12. Fu uno sforzo gigantesco! Fu una così pazzesca tensione cerebrale e una così intensa compressione di pensiero, che oggi ancora, se ci penso, mi dolgono i nervi del capo". Se per la conversione ai suoi principi di un uomo, le latte di petrolio del suo epistolario rimbombano in questa maniera, colla organizzazione della prima lega operaia, il Allgemeine Deutsche Arbeiterverein, che appena, in tutta la Germania, conta un mezzo migliaio di organizzati, egli perde ogni senso dei limiti. Questo inauguratore di ere nuove, questo correttore delle bozze della storia futura si preoccupa della politica internazionale, pretende di impostare e di dirigere quello che sta appena maturando nel cervello di Bismarck. Muove dalla Renania alla "conquista di Berlino", e a Berlino, dopo le conquiste, la Sezione conta circa 50 soci. Quando parte per qualche stazione termale, nomina i suoi vicepresidenti, i suoi luogotenenti: manda i brevetti di "Generalbevollmächtige", di plenipotenziari a dei poveri diavoli, per delle provincie in cui il Verein non conta neppure un organizzato, come la Slesia, la Prussia Occidentale. A questo "lavoro" egli é instancabile. Frusta e logora i suoi segretari, e li getta come scarpe vecchie, via: abolisce gli orari, la sapiente divisione fra il giorno e la notte, fra la veglia e il sonno. Arriva il punto in cui non sa più divertirsi: non sa più giocare. È come il cane, come il gatto, come i bruti: che cessano di ruzzare perché sono in calore. Egli é in calore di applausi. Non odia nessun uomo preciso e vivente, non ha tempo di odiare. Dopo i sei giorni feriali di questo rovello, ha bisogno di un giorno di festa. Dal Ministero di polizia di Berlino sospettano chissà quali fini rivoluzionari nelle sue grandi escursioni nella zona industriale del Basso Reno. Macché! Niente rivoluzione di popolo. Ricreazione di Lassalle, si. Dopo qualche ora di imbonimento, gli prende l'esaltazione concentrata e riflessiva del demagogo di gran classe, il pomo di Adamo gli va su e giù sulle gote, freneticamente, nella grande faccenda di dar fuori parole e saliva: traversa i sobborghi di Duisburg o di Düsseldorf in vettura, sotto qualche arco di trionfo rimediato alla meglio, ma egli é su, su, più su della vettura e della strada, si libra epiletticamente sugli applausi, é terribile: spasima di aprire strade immense, rettilinee; di spianare i monti: di conquistare lo Schlewig Holstein con un colpo di mano: di tutto un harem di principesse amorose di lui: di liberare il proletariato da mali terribili: di essere salutato con gesti nuovi, nati da un terrore nuovo di schiere servili. É le haut mal, il vitium comitiale che lo afferra il "martirio" sognato da ragazzo: ma, insieme, egli é freddo, lungimirante, ha un sorriso per tutti gli imbecilli, batte sulle loro spalle con dei gesti di amicone, li seduce con delle occhiate da postribolo. Quando lo stordimento confina con la stanchezza, dichiara che non é più il momento di parlare, bensì di agire: eterna figura retorica dei sovversivi, che si ricordano della necessità dell'azione, quando sono rimasti senza saliva. "Ludro e le so gran giornade". La storia é per lui un vortice immenso, in cui lui, Ferdinando Lassalle, fa da mulinello: in lui si precipiteranno le rivoluzioni suscitate con tanti discorsi, gli operai abbarbagliati da tanti discorsi, neofiti convinti da tanti discorsi, le donne belle ammaliate da tanti discorsi. Anche le donne. Nelle lettere a Sofia Soluzzeff, egli promette di rovesciare sulla sua vita "una ondata di movimento, di ebbrezza, di splendore". Alla sorella, scrive di aver "sete di belle donne, come un orso ha fame di carne umana". Questi sono gli specchietti per le allodole: il ruolo di tribuno del popolo - un cocchio e quattro cavalli bianchi sotto la porta di Brandeburgo - e la sensualità contenuta della sua razza. "Il mio amore é un fuoco, in cui tutte le donne si precipiteranno". L'alcova pare la piazza darmi, dove Ferdinando Lassalle fa il collaudo della sua capacità rivoluzionaria. ***
Sperò di trarre nel suo vortice - fra una bella donna e l'altra - anche la Monarchia. Una dinastia di tribuni del popolo, un cesarismo dei Lassalle, balenatagli come espediente per sedurre una donna, come una specie di falsariga per le sue lettere e per le sue iniziative amorose, non gli avrebbe dato la rispettabilità sociale, l'entratura nel gran mondo di Vienna o di Berlino - l'Arcivescovo Ketteler lo avrebbe fatto entrare sempre dalla porticina di servizio, nel palazzo episcopale di Magonza. No: niente dinastia Lassalle. Sperò di più. Di assidersi, arbitro del suffragio universale, fra Hohenzollern e proletariato. Da "correggere" un re pigro: di dargli animo a osare le grandi imprese, l'unificazione della Germania, l'Impero. Di fissargli "mete veramente grandi, nazionali, popolari". Stanco del modello parigino, delle rivoluzioni che cacciano i re, volle tentare lo snobismo: le rivoluzioni che instaurano gli imperi e rafforzano i troni. Lanciaspezzata di tutti i sovvertimenti che la grande industria nascente portava in sé, bel profeta dagli occhi fiammanti, le phisique du rôle per marciare sulle allee dei sobborghi, nelle giornate di maggio, quando la folla vuole dinanzi a sé, cartelloni viventi, gli uomini che portano cucito, fra le sillabe del loro nome, un programma di rivolta: destinato a lanciare, da tutte le tribune, con un largo gesto, le parole incitatrici che portano già nell'ala il piombo della mitraglia poliziesca, e seminano, sul lastrico ardente, il seme delle insurrezioni: selvaggina da camera ammobigliata o da hôtel di gran lusso, sradicato dalla casa paterna e dalla vecchia provincia lontana, nomade uscito per il gran deserto delle città moderne, dopo tante generazioni che avevano conservato, sotto la maschera del Ghetto, i gusti della tenda piantata sui pioli, nel deserto antico e vero - il sovversivo Lassalle ebbe una ambizione immensa: diventare monarchico, chinarsi dinanzi a un trono e a una porpora, essere promosso a "fedele servo del suo signore". Fu perduto. Bismarck lo aspettava, monarchico non di ripiego ma di nascita, saldamente piantato sulla terra di Prussia, uomo agrario, ministro rurale, Rittergutsbesitzer, coltivatore di barbabietole, bestia da soma della monarchia. Sui colloqui di Lassalle con Bismarck nell'anno 1864, parecchie cose insignificanti furono dette da Bebel molti anni più tardi al Reichstag. Ma l'unica cosa significante la replicò Bismarck: "Lassalle aveva evidentemente l'impressione, che io vedevo in lui un uomo di spirito, e sentiva anche, che io ero un intelligente ascoltatore... Di trattative non si parlò mai. Io presi di rado la parola. Lassalle faceva da solo le spese della conversazione". Sfumeggiato e felino, con dei gesti da profeta e delle perorazioni da prete, dei rotamenti d'occhio da Santa Teresa isterica, il tribuno deve aver parlato, più volte, a lungo, dinanzi a Bismarck. Il suffragio universale, l'avvenire degli Hohenzollern, la proclamazione dell'impero germanico fatta da milioni di lavoratori, un cesarismo più solido di quello Napoleonico, celebrazioni di ingressi solenni sotto tutti gli archi trionfali di Germania, mobilitazione di tutti i cavalli bianchi e di tutti i cocchi di corte e di tutti gli addobbi e gli arazzi: entusiasmo monarchico sotto pressione tribunizia, la dinastia prima figurante di un grande balletto patriottico-sociale, non più radicata nei possedimenti rurali delle classi conservatrici e fedeli, ma nomade sulle piazze e sulle altee, come le giostre e le mostruosità dei festival: la giostra più bella di una kermesse in continuazione, di una sagra di rivoluzionari pentiti - e lui, Ferdinando Lassalle, impresario di tutto e garante del risultato. Bismarck taceva. Nel silenzio dell'ascoltatore, le parole brillanti del tribuno cadevano come gemme in un lago oscuro: lago di sangue, ombreggiato dagli abeti di cimiteri sconosciuti, allucinato da fanfare di ultime cariche disperate. Nella testa del demiurgo, tre guerre erano già dichiarate. Migliaia di uomini condannati alla morte. Niente monarchia cesarista, espediente di ratés della rivoluzione. L'impero senza festival, senza kermesse, senza cavalli bianchi, deciso. E la forza e il coraggio delle decisioni, eran risucchiate da terre modeste e lontane, le sue terre di Varzin, dai campi sparsi dei covoni di segala. E il barbaglio rosso sulle stoppie, é poco bello? Certo, dopo aver menato i gran colpi di ariete delle tre guerre, avrebbe ancor avuto le sue mattine di caccia: ancora sarebbe disceso da cavallo sul redder, il sentiero angusto in mezzo alla macchia, per liberare col coltellino un tronco di betulla giovane, imprigionata nel siepone: la betulla avrebbe svettato contro il sole, riconoscente: gesto, questo, che porta fortuna, come dicono i contadini della Prussia Orientale. Egli avrebbe ripetuto appunto i gesti del padre, del padre del padre. Si sentiva sicuro, perché la miglior scuola per liberare i giovani imperi, era pur sempre il gesto del padrone della terra, che sfronda attorno a un albero giovane... Che cosa voleva costui? Questo tribuno, questo agitatore, aveva mai veduto, la sera, dalle finestre della sua casa campagnola il campo nudo e l'aratro, in mezzo al campo, unica cosa che fa rilievo, e il vomere che sotto la luna manda dei riflessi di ascia lucente da guerra? E cosa parla costui di guerre e di imperi? Eppure, il bel tenebroso parlò ancora, a lungo, più volte. Pirotecnico sapientissimo, sempre aveva lanciato con successo le girandole di parole a scavar solchi fosforescenti nel cervello degli uditori: ma in quei colloqui con Bismarck, egli udiva le sue parole, scorie di razzi inutili, stridere nel grande lago del silenzio avversario. Una serie di scatti a vuoto; Il tribuno, ad ogni congedo, si sentiva umiliato e svigorito per non aver saputo stordire, incantare questa volontà che era insieme buon gusto, queste decisioni ch'erano fiorite negli occhi azzurri del gigante, traendo i succhi da tutto uno stile di vita signorile e campagnola. L'ebreo aschenazim di Breslavia aveva incontrato un guardiano notturno della monarchia, ma di genio. L'agitatore con le valigie sempre pronte per tutte le tournées di conferenze, tutte le giornate di propaganda, tutti i traslochi e tutti gli espatrii, aveva incontrato un proprietario di terre in regime di maggiorasco. L'uomo che tutte le domeniche aveva il bisogno fisico del comizio, era di fronte all'uomo che tutte le domeniche cercava ristoro nella sua terra. Il dilettante del sentimento monarchico aveva incontrato il monarchico per nascita. Il sovversivo aveva incontrato l'uomo d'ordine. All'ultimo colloquio senza conclusione, Lassalle era finito. Smagato. Esaurito. Il resto della sua vita, lo si può descrivere nelle biografie, così, per scrupolo: l'ultima avventura d'amore, Elena Dönnigies la rossa, che giunge a cavallo a Rigi Kaltbad, lui che la vuole, il duello, due revolverate di avventuriero valacco in funzione di fidanzato provocato. Scena finale buona per la platea. La social-democrazia tedesca, partito di governo, erede del pensiero unitario di Bismarck, ha bisogno di una favola amorosa come prefazione ai suoi aridi annali burocratici: e l'ex-ministro e ex-Regierungspräsident della provincia di Wiesbaden, Konrad Haenisc, nella sua ultima pubblicazione (1) aggiornata coi più recenti studi lassalliani, presenta ancora la favola come il "dramma di Lassalle". Ma noi - ricchi di una esperienza di sovversivi trionfanti ben più abbondante di quella germanica - vediamo più addentro nella fine del sovversivo Lassalle. Calcolatore del successo e virtuoso della sensualità, Lassalle non avrebbe mai cercato furentemente la morte nell'impresa di portar via una donna, se un anno prima non fosse stato sconfitto da Bismarck nella grande impresa della sua vita, quella di sconvolgere un regno. Sconfitto ben facilmente: con qualche ora di silenzio aulico, che basta sempre a svesciare e sgonfiare molti anni di tumulti piazzaioli. "Et nunc, reges, erudimini". GIOVANNI ANSALDO.
(1) KONRAD HAENISCH, Lassalle Mensch und politiker, Franz Schneider Verlag, Berlin, Leipzig, Wien u. Bern.
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