LA PICCOLA BORGHESIA
Da un articolo di Giovanni Ansaldo (Genova, Il Lavoro, 3 giugno) sul Nazionalfascismo di L. Salvatorelli, togliamo questa analisi della piccola borghesia, in cui il nostro amico riprende e svolge concetti che già aveva accennati nella Rivoluzione Liberale dell'ottobre scorso (n. 30). Per saggiare fin dove la diagnosi del Salvatorelli sia esatta, sceglierò due tipi medi dell'Italia moderna. 1° - Sia il primo il figlio di un "galantuomo" pugliese o abruzzese, o anche di un borghese gingillino toscano. I suoi studii si fanno attraverso la trafila dell'inaridito Liceo di provincia, dove, s'egli ne ha voglia, la pedanteria storica del professore o del canonico gli decanterà le glorie vuoi dei Vestini, che dei Marrucini e di quante altre popolazioni dal nome di insetti hanno vissuto fra le patrie valli: ovvero farà i suoi primi esperimenti di retorica pura scrivendo qualche dramma patriottico per il teatro dei Rinnovati, degli Avvalorati, o comunque si chiamino i lasciti della pedanteria bellettristica sulle piazze di Toscana o di Umbria. La vita sociale si concreta per lui molto spesso nel "Caffè grande" o nel "Casino di Lettura", detto anche Stanze civiche" o "Circolo dei signori": dove si discute di politica, si gioca a biliardo, e si danno due balli per stagione. Il suo avvenire si riassume nella laurea di avvocato, e nella trafila dei concorsi, ovvero nella Via crucis del praticante, qualora egli voglia dedicarsi alla professione. Poniamo che gli vada bene: il nostro piccolo borghese riesce a quarant'anni ad avere uno studio legale avviato; sia nel Vicolo delle Animelle dietro San Ferdinando a Napoli, sia altrove: ha il fratello commendatore a Roma, sa star sull'avviso delle novità politiche, si tiene al corrente della letteratura leggendo la terza pagina del Giornale d'Italia. 2° - Sia il secondo discendente di un ragionat lombardo, nato a Milano. Il padre lo avvia per tempo alle scuole tecniche, rammaricandosi solo che siano troppo poco tecniche, che diano poche nozioni "pratiche": tutta la famiglia è sradicata da ogni tradizione che risalga più in là di una generazione: nessuno ha mai avuto una curiosità storica rudimentale, la madre brontola perché i libri di testo dei figli - gli unici che entrano in casa - "portano tanta polvere". Il nostro piccolo italiano si forma sui campi di gioco domenicali, sulle piste dei giri d'Italia: e, purché arranchi la promozione, il ragioniere padre non è malcontento di ciò, perché si sa, lo sport è una cosa moderna, ed è anche tanta salute. Dopo generazioni di sonetteggiatori, il nostro piccolo italiano non fa neppure poesie: il pimento della sua vita "standardizzata" è costituito dalla esaltazione della "vita strenua", della "civiltà meccanica", della "ebbrezza di felicità", e da altri spunti di americanismo brodoso ammanniti dalla Gazzetta dello Sport. Appena può si impiega in una banca, o in una fabbrica: per usare la espressione del Salvatorelli, si sforza di "aderire intimamente alla struttura della civiltà capitalista". Il suo orario di lavoro, i suoi divertimenti sono press'a poco quelli di un piccolo borghese di Londra o di Berlino. Dichiara di non occuparsi di politica, o che la migliore politica è quella che fa il Touring, con le sue carte stradali: nelle arti belle, va pazzo per Fraka, che ha tanto spirito. Ecco i due tipi medi, di cui ciascuno di noi conosce una infinità di rappresentanti. Ora chiedo io: Quale dei due si avvicina di più alla "piccola borghesia umanistica" che il Salvatorelli descrive? Certo il primo. Ma quale dei due ha minor senso critico, e maggiore propensione ad essere colpito dalla Schlagwort, dalla parola d' ordine, dalla formula indiscussa e indiscutibile? Chi è più ingenuamente infante dinanzi alle propagande condotte con grandi mezzi o dinanzi alle predicazioni suggestive dei grandi demagoghi? Chi oppone maggiore resistenza alla conquista del proprio cervello, un piccolo borghese umanista meridionale, o un tecnico milanese? Chi, dei due, è più predisposto ad abbandonarsi all'ondata fascista, interamente, di buona fede, fondendo il suo amor di patria con i suoi entusiasmi sportivi, i suoi sentimenti sportivi con la sua passione di essere ben moderno, il più americano possibile? Certo il secondo. Milano è là, con la sua piccola borghesia che davvero non corrisponde alla descrizione del Salvatorelli. Milano è là che insegna. La città d'Italia che ha certo una percentuale di capimastri, di ragionieri, di impiegati di industrie, di piazzisti più cospicua e più vicina alla categoria della piccola borghesia tecnica, degli italiani del secondo tipo medio, è quella in cui l'entusiasmo fascista si è manifestato più unanime e perdurante. Nella polemica remota, fra il Popolo d'Italia ancora diretto da Mussolini, e i fascisti emiliani in cui allora era parte cospicua l'on Barbato Gattelli, all'epoca del patto di pacificazione, una curiosa questione si dibatteva in sordina: se il fascismo fosse nato a Bologna o Milano. Nessun dubbio: l'On. Mussolini aveva ben ragione, dal punto di vista storico e tattico, di affermare ch'era nato a Milano. A Milano, in piazza del Duomo, dalle folle degli italiani tecnici, sportivi, pratici, dispregiatori degli avvocati e dei commendatori romani, grandi odiatori - per sentito dire - della burocrazia, e terribilmente adulati da cinquant'anni in qua da quella bella trovata della Capitale morale. Rivendicando la milanesità del fascismo, l'on. Mussolini intuiva che cosa essa volesse dire: apoteosi dello sviluppo industriale del paese, coincidenza con l' entusiasmo giovanile diffusissimo per gli sports, tanto meglio quanto più violenti, liberazione da tutti gli scrupolosi, da tutti i cacadubbi, da tutti gli scettici e da tutti i faziosi sì, ma ragionatori e lungimiranti calcolatori che popolano i Caffè grandi e le "Stanze Civiche delle province del Regno. Il fascismo nato a Milano voleva dire precisamente 1'atteggiamento sportivo, meccanico, futuristico, l'azione su larghi ceti che ostentano di essere anti-umanisti e civettano con un americanismo che non sa andare se non in automobile, e non sa fare della politica se non con recisi apoftegmi. Tutte le infarinature storico-letterarie della piccola borghesia umanistica, che a Milano quasi non esiste, non sarebbero certo bastate a dare al fascismo l'impulso formidabile che lo spinse a Roma. Occorreva, sulla retorica generica e scolastica della piccola borghesia italiana, un innesto di mentalità tecnica, o diciam pure per intenderci, milanese. Questo non è sfuggito all'intuito finissimo dell'on. Mussolini, che da tempo ha reso omaggio alla mentalità milanese con dichiarazioni e con gesti che paiono singolari e bizzarri ai piccoli borghesi umanisti delle città di provincia e di Montecitorio, ma che hanno un valore politico di captazione e di adulazione. Si ricordi, per esempio, la esaltazione dinamica" del Circuito di Milano nell'estate del 1922: rappresentato come un avvenimento politico superante di gran lunga tutte le discussioni parlamentari, come una sfida trionfante contro la vecchia Italia retorica, letteraria, "umanista". Sotto la categoria della "mentalità milanese" sono da ricondurre anche le proteste dell'on Mussolini, diventato Presidente del Consiglio, a un intervistatore straniero: "Io, in tutta la mia vita, non sono stato più di due volte in un Museo". E' indubitabile che parecchie centinaia di migliaia di italiani avranno applaudito a questa astensione artistica dell'on. Mussolini, e avranno pensato essere il capo del Governo veramente un uomo tecnico, moderno. Così, i progetti e le inaugurazioni delle grandi autostrade Milano-Laghi e Firenze-Mare. E' ridicolo fare la critica di queste iniziative come l'hanno fatta taluni socialisti, alla stregua delle necessità del bilancio, ovvero rinfacciando che si costruiscono le strade per i piaceri dei ricchi che posseggono un'automobile, e si lasciano senza strade i comuni abitati dai poveri proletari, ecc. Chi argomenta così, non si accorge che le autostrade piacciono assaissimo a larghi strati di piccoli borghesi che non sono ricchi, non possiederanno mai una automobile, ma vanno in visibilio quando si parla ad essi dell'"ebbrezza della velocità": i ragionamenti poveristici non intaccano la loro mentalità sportiva, tecnicizzante. Così, i voli frequenti dell'on. Mussolini e dei suoi collaboratori, che apparentemente possono sembrare rispondere solo a un gusto personale del Presidente del Consiglio, sono in realtà un ben calcolato omaggio a tutti i numerosi piccoli borghesi italiani ossessionati di modernità, e soddisfattissimi quindi di essere governati da un Presidente che va in aereoplano più spesso e più disinvoltamente di tutti gli uomini di Stato del mondo. Parimenti, i telegrammi di incitamento e di lode al boxeur Spalla, rientrano nel novero di queste accortissime e sottili arti di governo - tanto sottili che la critica grossolana fatta in nome degli oppressi dagli scherani del capitalismo, la critica tipo Lazzari, manco se ne avvede - dedicate ai piccoli borghesi tecnici, sportivi, agli italiani che ho cercato di descrivere sotto il secondo tipo medio, e di comprendere sotto la designazione di mentalità milanese. Su tutta la piccola borghesia umanistica, su tutti gli italiani del primo tipo medio, questi espedienti fanno assai minore presa, precisamente perché nel fondo dei caffè di provincia, nelle cittadine meridionali inchiodate, in cima ai monti, si è conservato - contrariamente a quanto scrive il Salvatorelli - sotto una vernice di retorica scolastica, maggior senso critico. Ciò spiega la natura e le vicende del fascismo nella piccola borghesia meridionale. Ci sono in Italia almeno due fascismi, creati a immagine e somiglianza della piccola borghesia tecnica: c'è il fascismo del Mezzogiorno e il fascismo di Milano. GIOVANNI ANSALDO.
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