NOTE DI ECONOMIA

IL MINISTERO
DELL'ECONOMIA NAZIONALE

I.

    Il comunicato governativo che annuncia la riunione in un unico dicastero dei servizi relativi alla tutela dell'agricoltura, industria e commercio, chiarita con un nome nuovo il raggruppamento di tre Ministeri, staccati da appena sette anni: forse è peccato abbandonare così una tradizione di lunghi decenni. Il nostro tempo, pazzo per la rapidità, può preferire il nome più breve; tuttavia le tre parole: "Agricoltura, industria e commercio" parlavano subito chiaro e preciso, meglio della più accademica espressione scelta dai nuovi ordinatori. La quale anzi suona ambigua e pericolosa, se la parola "nazionale" viene accentuata come rinuncia alla concezione classica ed italiana della vita e della politica economica, per assumere quella teutonica. Le produzioni nostre non debbono essere più legate a quelle di tutti gli altri paesi del mondo? e si intende rinunciare a vendere all'estero ed a comprarvi, troncando l'espansione nostra nei mercati europei ed oltreoceanici?

    Suonava bene quell' "agricoltura" al primissimo posto, in prima linea, davanti all'industria ed al commercio. Tradizione, certamente: ma forte e gagliarda, e legata ben stretta alla realtà. Tradizione ancor più ricca di significato di quella che fa apparire la parola "commercio" prima dell' "industria" nelle Camere sorte dalle antiche corporazioni dei mercanti. La tendenza degli improvvisatori porta ad accentuare lo sviluppo manifatturiero, misurando il progresso economico dal numero delle imprese nell'industria pesante, dalla quantità di cavalli-vapore installati, dal capitale delle società azionarie. Ma per l'Italia tutti questi indici sono assai meno significativi di quelli che rappresentano l'agricoltura e l'artigianato, commerciante e produttore insieme.

    Più di metà della popolazione italiana, circa 18 milioni di individui - secondo l'ipotesi del Coletti - sopra i 34,8 milioni censiti nel 1911, rientrano nelle falangi della terra. All'industria ed al commercio si dedicano quasi certamente un buon terzo di meno; e di essi ben sette milioni - più di metà - rientrano nell'artigianato, che non si riuscì ancora a trovare il tempo di censire con esattezza. Ecco i due nuclei cui dedicare più attento esame.





    Quanto al valore annuale della produzione agricola, il Serpieri calcola si aggiri sui 35 miliardi; mentre quello dell'attività manifatturiera probabilmente non deve superare i 25 miliardi; di questi inoltre buona parte trova la propria origine nella stessa produzione agricola. Infatti il censimento industriale del 1911 ha dimostrato come nel ramo utilizzante le derrate agricole per trasformarle in merci atte al consumo diretto, fosse occupato il 28% dei lavoratori: gruppo che veniva secondo per così poco da potersi calcolare alla pari col ramo tessile dove si raccoglievano le schiere più dense di persone. Superava inoltre tutti gli altri per numero di opifici, dando vita a più di metà di quelli censiti; e coll'utilizzare il l8% dei cavalli-vapore si poneva al secondo posto, dopo le imprese di forze motrici. Il primato insomma l'agricoltura non lo conserva per tradizione soltanto, in forza di un privilegio arcaico contraddetto dalla situazione presente, ma per la sua forza assoluta presente.

    Prima di rivoluzionare gli ispettorati generali ed i vari uffici, il nuovo Ministro dovrebbe prospettarsi rapidamente le dimensioni da concedere a ciascun ramo, in accordo allo sviluppo raggiunto o potenziale. Tenendo conto, per esempio, che l'industria del pollame fornisce ogni anno all'Italia un miliardo di lire, cioè più del doppio di quella mineraria; che la frutta, gli ortaggi e l'olio raggiungono i sei miliardi annui, proprio quanto la coltura del frumento o del vino, cosicché meritano più attenzione della fabbricazione dei coloranti e forse altrettanta come l'industria delle automobili. All'interno poi dei singoli rami non vorrà più assegnare oltre una decina di milioni al servizio di monta equina, mentre languono prive di mezzi le cattedre ambulanti, e restano sterili per mancanza di fondi vari istituti di sperimentazione. C'è moltissimo da fare e le piccole industrie meritano qualcosa di più della nomina di Comitati locali dove entrano persone che se ne attendono decorazioni cavalleresche.

    Più ancora: il nuovo Ministero dovrà valutare con occhio limpido il grandissimo numero di lavoratori che fanno da sé, silenziosamente, senza chiedere contributi ed appoggi allo Stato; per contrapporli alle schiere striminzite degli imprenditori politici in cerca di tutele e prezzi senza concorrenza e convincersi che al suo dicastero non spetta il compito assurdo di dirigere l'economia nazionale, ma l'altro più nobile e meritorio di studiarla per rimuovere gli ostacoli dal cammino.





II.

    Gli sbalzi improvvisi nei prezzi di alcune merci e le oscillazioni violente nel corso dei cambi, disorientano molti osservatori, lasciandoli incerti dei fenomeni cui legarli. Come mai in pochi mesi lo zucchero poté passare da 22 scellini a 64? ed il prezzo dei bozzoli da 84 a 102 lire tra il febbraio ed il marzo corrente, mentre le sete torte rimanevano tanto al di sotto da costringere alcuni industriali a sospendere la lavorazione, per non perdere? Il corso dei cambi non segnò tra l'aprile ed il giugno un peggioramento, nel prezzo della sterlina passando da L. 93 a più di 104, e nelle altre monete in relazione, proprio nel periodo in cui l'andamento stagionale dovrebbe provocale la maggior debolezza?

    Non manca chi vorrebbe spiegare la vastità delle scosse con la cresciuta importanza delle grandi imprese, con l'affermarsi impetuoso di alcuni colossi finanziari e commerciali, capaci di imprimere la propria volontà al mercato attraverso all'imponenza delle domande o delle offerte presentate. Accadrebbe come nei porti, quando si muovono i giganteschi Leviathan del mare con le migliaia di tonnellate di stazza ad ogni operazione di accosto o di rilascio sommuovono le acque in tutto il bacino.

    Ove realmente tale concentramento di potenza produttiva e finanziaria fosse avvenuto, non riuscirebbe impossibile coordinare questi nuclei con accordi, diretti dal Ministro dell'economia nazionale. L'esperienza di tutti i paesi ha dimostrato infatti la possibilità di stringere in un consorzio efficace le imprese attive in un dato ramo, appena queste si siano raggruppate in organismi minori, limitando così i rapporti interni.





    Nessuno potrebbe però dimostrare in quali proporzioni sia avvenuta già una distribuzione di imprese sotto la supremazia di un ristretto numero di persone. Il decorrere anzi della crisi, con i molteplici fallimenti, logora in modo rapido parecchi capitani d'industria; ma per dar occasione a presentarsene dei nuovi, invece di lanciare questi impianti ed organismi nel dominio di chi ne possedeva già in gran numero. Non accade mai infatti in periodo di crisi che si accrescano le dimensioni delle imprese: l'incertezza ed il desiderio di mantenere la massima disponibilità di mezzi liquidi per il momento della rinascita trattiene i più dall'approfittare dell'occasione per comprare, anche a basso prezzo, nuovi opifici. Influiscono pure le crescenti difficoltà di controllarne parecchi in modo efficace: il risparmio di alcune spese trova presto rincari ancora più alti per la minor accuratezza di alcune operazioni. I colossi hanno quasi sempre i piedi di creta, ed i piccoli riescono molto di frequente a sviluppare concorrenza efficace.

    Riesce facile inoltre scuotere improvvisamente i mercati con sbalzi di prezzi per un altro motivo. Il prolungarsi della stasi e del marasma disorienta produttori e consumatori; nell'attesa dell'assestamento dei prezzi questi dilazionano le compere, sicché agli altri non conviene la ripresa del lavoro, preferendo attenersi a quanto basta per non arrestare l'attività dei reparti rispettivi.

    Di conseguenza non distribuiscono profitti e salari elevati, togliendo modo ai loro dipendenti di aumentare i propri consumi. Per quanto la crisi stessa renda bassi i salari ed il saggio di interesse e le materie prime, ed i magazzini dei commercianti e dei consumatori siano ridotti al minimo - tutte condizioni proprie alla ripresa - la mancanza di pace nel mondo, la continua successione di violenze e rivoluzioni, l'incertezza circa le soluzioni dei problemi della Ruhr e della Russia, della Balcania e dell'Oriente provocano la sospensione assoluta di qualunque iniziativa. Nessuno calcola il rifornimento di tutta l'annata, procurandosi invece lo stretto necessario per le settimane immediatamente successive: ma così basta una domanda di poco superiore al minimo, oppure un'offerta appena mediocre per provocare uno sbalzo dei prezzi. Le previsioni abituali di rincaro o ribasso non giovano più come prima, o meglio nelle stesse condizioni di prima: e nemmeno la distribuzione usata dei rifornimenti nel corso dell'anno viene mantenuta, per la formazione di altre abitudini, con cicli più brevi e differenti, che alla lunga ripercorrono in complesso le vie primitive. Così la tensione autunnale si frantuma nelle varie stagioni, e può presentarsi anche durante l'estate.





    Come osservarono parecchi scrittori, il "sistema capitalistico" - reo di molteplici colpe e condannato dai più diversi riformatori - non esiste come sistema. Manca l'unità di struttura e di governo, la dipendenza delle grandi tasse da pochi onnipotenti imprenditori, che le tengono quali puri strumenti produttori compensati con dei frutti. L'ordinamento è legato e coordinato soltanto all'interno dell'opificio o dell'impresa, ed i legami si dimostrano già più apparenti che reali in parecchi sindacati, dove il silenzio cela agli esterni le concorrenze intestine e l'azione vivace delle forze disgregatrici. La scelta delle produzioni, e l'impiego dei fattori disponibili viene lasciato a chiunque ne assuma il rischio: e la vita economica si svolge da sé, in modo elastico ed automatico, sotto l'influenza del prezzo e delle proporzioni della domanda e dell'offerta. Nei limiti fissati dalle leggi, e non di rado cercando di evitare quelle meno propizie, ognuno lavora per soddisfare qualunque desiderio che si presenti accompagnato dall'offerta di un prezzo.

    La politica economica del Ministro dell'Economia nazionale non saprebbe dare coordinamenti altrettanto semplici e liberi: né vi giungono le forze finanziarie per quanto potenti e grandiose. Il concentramento, l'integrazione verticale ed orizzontale, e tra manifattura ed agricoltura od aziende di trasporto, possono riunire alcuni produttori; ma con improvviso sconvolgimento l'equilibrio - appena raggiunto a fatica - si rompe, si sfascia per il sorgere di forze nuove incontrollate, per esperimenti nuovi. Se il Ministro dell'economia nazionale interviene per volgere la corrente in una data direzione, quante volte non accadrà che dalle forze mosse verso una certa meta si sprigionino reazioni capaci di portare a tutt'altro punto? Le modificazioni tecniche inoltre abbattono quanti, troppo confidando nella propria superiorità, si arrischino un momento. L'esperienza modifica di continuo le vie da percorrere; le finalità delle imprese cambiano presto, nei limiti della convenienza (allargati vieppiù dalle svalutazioni), a lato delle grandi imprese continuano a spuntare le medie e le piccole e l'artigianato, non per forza di tradizione ma per abilità segnalata dal successo. Chiunque ha il coraggio di affrontare un rischio vuol imprimere il proprio nome ad un qualche organismo, insofferente di rimanere anonima particella e ricercherà un profitto dubbio invece di un salario sicuro, e magari affronterà un capitombolo, nella speranza di accaparrarsi una rendita.

    Ben venga il nuovo Ministro dell'economia nazionale: ma sia un uomo aperto, di larga dottrina e di forte intelligenza, per comprendere dove si arresta il suo compito - già enorme - di osservatore e preparatore di libero campo.

    Torino, 5 luglio 1923.

VINCENZO PORRI