RIFORMISMO E COOPERATIVE
Il lato socialmente utile, anzi progressivo, del fascismo è in questo suo rappresentare il capitale produttivo (agricolo ed industriale) contro il capitale e il lavoro improduttivi sperperati nella burocrazia statale procreata dalle statizzazioni e dalle municipalizzazioni, nelle false cooperative minerarie, metallurgiche e chimiche, negli istituti per il commercio con l'estero, per i lavori pubblici nel Mezzogiorno ed altre botteghe aperte dal cooperativismo speculatore ed affarista, negli istituti per i cambi, e per organizzare forme di assicurazioni sociali non sentite dagli stessi lavoratori, contro le quali, anzi, essi hanno fatto lo sciopero per non pagare le quote che la legge imponeva ad essi, riluttanti, di pagare, e che intanto servivano solo ad alimentare una sconfinata burocrazia (1), la quale assorbe così una parte notevole del lavoro improduttivo esistente nel paese. Ognuno intende che a questo sperpero irragionevole ed assurdo occorreva porre un argine, se non si volevano essiccare tutte le fonti del lavoro nazionale. Il fascismo ha rappresentato quest'argine; almeno lo ha rappresentato nel primo momento, perché se esso continuerà ad ingozzarsi di leghe esattoriali e impiegatistiche, di bancari e di addetti ai pubblici servizi, di pennaiuoli ed emarginatori di pratiche di ogni specie e qualità; esso dovrà fare proprio lo stesso che ha fatto il partito socialista, e diventare anch'esso una vasta e pericolosa organizzazione del lavoro improduttivo ai danni del capitale e del lavoro produttivi. Se il socialismo fosse rimasto fedele alle pure teorie marxistiche, nelle quali è essenziale la differenza fra lavoro e capitali produttivi e lavoro e capitali improduttivi; se esso avesse capito dal Marx che non ogni lavoro produce plusvalore, ma soltanto quello che è addetto alla trasformazione materiale dei beni; e che quindi la organizzazione dei ceti impiegatistici commerciali, statali, bancari, la creazione di cooperative di consumo e di imprese parassitarie (l'Istituto per il commercio con l'estero, ecc.); lo sviluppo delle assicurazioni sociali in paese in gran parte artigianesco e dove perciò si addossa al proletario non salariato (artigiano, coltivatore indipendente, ecc.) il mantenimento ed il lusso per il proletariato; se il socialismo italiano lo avesse compreso, avrebbe fatto esso la lotta al riformismo sociale, al parassitismo riformistico e plutocratico, ed avrebbe impedito - almeno per questo verso - il sorgere del fascismo. - Ciò volle essere l'antico socialismo rivoluzionario dell'Avanguardia socialista di Milano, nucleo del quale faceva parte lo stesso Benito Mussolini; ciò si sforzò di essere il sindacalismo rivoluzionario. La dottrina marxistica contiene una chiara denunzia del socialismo di Stato e della riforma sociale (2). Il socialismo italiano si pose su di un'altra strada, e diventando esso il maggior propulsore di interventi statali di riforme destinate ad accrescere la burocrazia statale e di perturbamenti nella privata produzione dei beni, si assunse esso la responsabilità degli inconvenienti che dal riformismo sociale promanavano. Ma la verità è che l'interventismo sociale è stato una politica praticata da tutti i partiti italiani, liberali, democratici e radicali, dalla Destra come dalla Sinistra, e fu consigliato, suggerito, imposto da tutti i partiti. L'Italia è il paese degli eccessi. Venti, quindici, dieci anni fa il riformismo sociale era l'unico rimedio che i partiti sapevano consigliare per ovviare ai mali nascenti dalla cosidetta questione sociale. Contro il socialismo, contro l'anarchismo non si sapeva consigliare altro; e da tutti! Oggi non si può aprire un giornale, leggere un discorso, senza sentire una denunzia della riforma sociale, dell'interventismo statale, da cui pare che provengano tutti i mali dell'umanità in generale, e dell'Italia in ispecie. Non sarebbe nostro "cet esprit lèger, ce caractère effacè et changeant, stigmate de toutes les races degencrées"? (Gobineau - Inégalité des races hum., 1884, II, p. 257). Ma perché poi i socialisti pagarono per tutti? L'indagine merita di essere fatta. La legislazione sociale dei partiti costituzionaliLa legislazione sociale in Italia comincia con un nome, col nome di un uomo della Destra, il Minghetti. Scrivendo egli dei primi incerti movimenti verso un progresso economico della nazione, quale si accennava nel 1870, diceva: "Bisogna accelerare questo movimento, sicché l'Italia, da natura privilegiata di ubertoso suolo e di ogni qualità d'ingegni, diventi una nazione ricca, potente, prospera: possa gareggiare con le altre contrade civili e rinnovare il periodo storico nel quale le nostre repubbliche portavano le merci desiderate a tutti i paesi del mondo... Ma questo risveglio e questo moto economico non può aver luogo che ad una condizione, ed è che l'economia pubblica sia sempre subordinata al principio morale, il quale deve essere anche informatore della vita industriale purché duri vigorosa; infine il progresso economico deve andare congiunto a quello della legislazione sociale... il cui intento è rimediare ai mali che dal progresso medesimo scaturiscono e di provvedere alla tutela e al bene delle classi lavoratrici". E dalla Estrema Sinistra, per opera di Agostino Bertani, veniva la proposta, divenuta poi legge (5 dicembre 1871), di una inchiesta sulle condizioni dei lavoratori della terra. Per converso la Destra, per mezzo del Castagnola, attuava la prima legge sul divieto del lavoro sotterraneo ai minori degli undici anni, cui seguirono altre disposizioni riguardanti l'età e la giornata di lavoro dei fanciulli (legge 21 dicembre 1873, N. 1733). Rispondevano i mazziniani con il patto di Roma del 1871, nel quale si proclamava "la idea della fratellanza generale, riaffermando i diritti della famiglia e dell'individuo e i diritti della libertà: mirando al miglioramento delle condizioni degli operai, morali ed intellettuali, mediante la cooperazione e l'assicurazione e la trasformazione dei rapporti tra capitale e lavoro, per mezzo di una legislazione difensiva del lavoro, d'un ordinamento che permetta al lavoro di partecipare al governo della società, l'adozione delle otto ore, l'istituzione delle camere di lavoro e di collegi probivirali, le casse pensioni, l'estensione del principio cooperativo a tutti i lavori degli enti pubblici, senza limiti di cifre". - Destra, Sinistra storica, mazziniani - i socialisti, come Partito parlamentare, non erano peranco nati - tutti si pongono sulla stessa strada: quella della riforma sociale. La democrazia è nata come un regime politico spontaneamente volto a risolvere i problemi contingenti e marginali delle classi lavoratrici. Quando nel periodo 1901-1913 essa prese deliberatamente la via delle riforme sociali e delle statizzazioni, essa non adottò nessun principio che le fosse estraneo, che le venisse di fuori. E non è nemmeno vero che ciò risultasse per una pressione che i socialisti esercitassero, perché questi si mantennero costantemente all'opposizione. Certo, siccome nulla si opera nella società e nella vista vanamente, l'azione di classe dei socialisti valeva come una messa in guardia alle classi borghesi, come un avvertimento; come suggestione di una materia, che esse non amavano in guisa speciale. Ma per quanto riguarda la responsabilità politica della politica sociale seguita dai governi d'Italia, essa resta su tutti i partiti costituzionali della Camera che omogeneamente la sostennero. Essi la consideravano un loro titolo d'onore, e la rivendicavano volentieri, gente di Destra e gente di Sinistra, come documento del lor ben formato cuore, di contro ai socialisti. Di aver seguito le grandi iniziative dell'on. Giolitti - che la volle con animo consapevole e risoluto, e la impose ai conservatori riluttanti - si facevano un chiarissimo merito. E quando l'On. Giolitti, per un disegno di uomo di Stato, giunse sino alla formulazione del controllo dei dipendenti sulle aziende (- idea che rendeva me, socialista, componente del suo gabinetto, molto perplesso -) non una voce di dissenso si levò nelle mandre costituzionali, che dopo la rivoluzione fascista si sono messe a dichiarare tutti i peccati d'Israello della legislazione sociale, prova se ce ne fu mai altra della viltà, della bassezza, dell'incoerenza e della miseria dei partiti costituzionali italiani, della loro abitudine a seguir la fortuna, della loro assenza di criterio, della mancanza di ogni loro coscienza politica. Il riformismo dei ceti mediUn paese come l'Italia, dove il capitalismo è così poco sviluppato da non poter assorbire tutte le forze di lavoro esistenti, che fluiscono all'estero per le vie dell'emigrazione, questo paese deve fare una legislazione sociale molto larga e molto audace, per un triplice ordine di considerazioni; 1° per difendere la specie, che sarebbe attaccata dai bassi salari, i quali seguirebbero ad una intensa concorrenza fra gli operai, non tutti occupabili: Si opererebbe antiitalianamente abbandonando i lavoratori a sé stessi, facendo precipitare il loro tenor di vita. 2° In paese di scarse iniziative capitalistiche, una legislazione diretta a favorire la cooperazione è strettamente necessaria perché essa rende possibile utilizzare capitali e forze economiche; le quali altrimenti andrebbero disperse. Non c'è nessun dubbio che la cooperazione funzioni in molti casi come risparmio coatto e coatta trasformazione di risparmio in capitale, vale a dire come un mezzo di arricchimento del paese. 3° Inoltre la legislazione sociale, col suo parassitario sviluppo della burocrazia statale e municipale, offre ai ceti cospicui delle classi medie e della piccola borghesia, avviati alle professioni liberali, ma non atte a trovare in esse un pane, un mezzo di occupazione e di sostentamento, che non è da trascurare. Io credo che se i piani del fascismo e del nazionalismo, avversi alla legislazione sociale e alla burocrazia statale e locale, avessero successo, ne seguirebbe una pericolosa disoccupazione dei ceti colti della borghesia, col sicuro risultato di buttarli all'opposizione rivoluzionaria. Fascisti e nazionalisti che parlano con tanta leggerezza delle statizzazioni, della cooperazione incoraggiata ed alimentata dallo Stato, della politica sociale della democrazia, mostrano semplicemente d'ignorare - quando sono sinceri - la delicatissima struttura dell'Italia, paese densissimamente abitato (126 abitanti per chilometro quadrato, ma se si tien conto del territorio inabitabile, 196 per chilometro quadrato!), povero, con una popolazione non tutta occupabile, tanto che una parte di essa è soggetta alla condanna dell'espatrio, con un grossissimo proletariato intellettuale, che non può fare il medico, né l'avvocato, né l'ingegnere e spesso nemmeno il copista, ma che pane deve pure mangiarne in qualche modo. In questo paese la "politica sociale" che è un mezzo per agire artificialmente sulla distribuzione della ricchezza, cioè per dar da mangiare anche a chi normalmente non ne troverebbe, è una stretta ed assoluta necessità; e se no un uomo come Giolitti, che non ha fisime dottrinali per la testa, ma è essenzialmente un empirico, un politico pratico, un tattico della politica, uno stratega dell'arte di governo, non ci si sarebbe posto. A lui importa un fico secco dello Stato etico ed altre stupidità simili. Ed io stesso, che sono un marxista, ed in teoria sorto nemico della "riforma sociale", come uomo politico, come uomo di governo, ho fatto e faccio del volgare riformismo! Il cooperativismoSe però i socialisti erano rimasti all'opposizione, durante quel periodo 1901-1913, in cui la democrazia italiana, auspice Giolitti, fece i suoi grandi esperimenti di politica sociale, è perciò non ne portano una responsabilità diretta (- del resto le loro forze parlamentari, che non superavano i quaranta deputati, non permettevano ad essi di esercitare un'influenza decisiva o preponderante sulla legislazione -); la tempesta che si è scatenata su di loro ha le sue scaturigini in un fatto connesso allo sviluppo della politica sociale: nella parte che essi presero all'incremento e al rigoglio della cooperazione. - Bisogna infatti tener presente che l'offensiva fascista contro il partito socialista si è accanita specialmente contro le cooperative, che essa ha inesorabilmente schiantate. L'Italia è stata, per varie ragioni connesse alla povera iniziativa capitalistica della nostra borghesia, una terra fertilissima per gli esperimenti cooperativi. Una vecchia statistica del Ministero di Agricoltura accertava, ai 31 dicembre 1910, ben 5005 cooperative, così ripartite:
Ma oggi (- mancano le statistiche -) le cooperative - rosse, bianche, gialle e tricolori -non sono meno di ventimila, numero enorme, che, di passaggio, rivela insieme l'artificiosità e un qualche vizio di sistema. La maggior parte di queste cooperative, e, bisogna anche aggiungere, le più serie, dipendono strettamente dal partito socialista; o, per dir meglio, ne dipendevano prima della offensiva fascista. La cooperazione è essa uno strumento di politica capitalistica o di politica socialista? L'una e l'altra tesi è stata sostenuta (3), e sono entrambe vere. Il criterio col quale risolvere il quesito è questo. Le cooperative hanno bisogno di capitale. Esse se lo possono procurare in tre maniere, e ciascuna di esse da luogo ad un carattere delle cooperative, le quali appunto possono essere: a) neutre, b) capitalistiche, c) socialistiche. Quando le cooperative raccolgono il capitale dai risparmi dei propri soci, e sono le vere cooperative, esse non sono né capitalistiche, né socialistiche: sono associazioni di capitale e lavoro, i cui effetti ricadono solo sugli associati. Se fanno buoni affari, prosperano i soci; e se cattivi, sono i soci che vanno in malora. - Quando le cooperative raccolgono il capitale da estranei (banche o privati), esse hanno uno spiccato carattere capitalistico, perché il frutto dei loro affari (interesse del capitale) è pagato ad estranei; è più si sviluppano, e più si sviluppa il mutuo ad interesse, e più si consolida il regime capitalistico, fondato sulla percezione di un interesse non connesso ad un'attività personale. Queste cooperative - anche se siano nominalmente sotto la direzione del partito socialista - sono organi della società capitalistica; in quanto la conservazione dell'interesse puro del capitale è favorito dal loro stesso sviluppo. Crescendo il loro numero, cresce l'appello al capitale privato, ed il pagamento normale dello interesse assicura la durata e la conservazione del capitalismo. Io ero ministro del Lavoro all'epoca della occupazione delle fabbriche. Quanti industriali non vennero a propormi di cedere le loro aziende ai dipendenti, purché questi si impegnassero a pagare gl'interessi del capitale e un tenue ammortamento? Sarebbe stata la perpetuazione del capitalismo è l'ozio assicurato ai capitalisti! Vi è un terzo modo di raccogliere il capitale per le cooperative: mercé anticipi fatti con i fondi pubblici e raccolti dallo Stato. Che cosa accade? Lo Stato adotta una legislazione finanziaria, indirizzata a far pagare i tributi soltanto alla classe capitalistica. Con i mezzi raccolti dalla classe ricca, anticipa i fondi alle cooperative. La classe capitalistica anticipa i suoi capitali come tributi. Lo Stato ne riversa una parte alle cooperative. In altri termini, la classe capitalistica fornisce i capitali alle cooperative non solo senza interessi, ma senza promessa di restituzione. Lo sviluppo graduale di questo sistema avrebbe due risultati: 1° tutta l'attività economica passerebbe gradualmente alle cooperative, 2° tutto il capitale della classe capitalistica passerebbe gradualmente alla classe lavoratrice. - Questo è il sistema della cooperazione statale proposto da Lassalle e dal Marx, e di cui si trova una traccia nel programma di governo dell'on. Giolitti del giugno 1920; ed è precisamente quel sistema di cooperazione che io chiamo "socialistico". La cooperazione sostenuta con i mezzi dello Stato si è largamente diffusa in Italia. Nell'Italia centrale essa ha completamente soppressa la classe degli appaltatori di opere pubbliche. La questione se questa forma di cooperazione sia stata più economica dell'appalto privato, pende. I socialisti dicono di sì, ma si può dubitarne. La cooperazione agricola, quella per l'assunzione d'opere pubbliche hanno esasperato le classi censitarie dell'Italia centrale e settentrionale, più con l'immaginazione del loro futuro sviluppo che per il danno attuale inflitto ai patrimoni privati. Ma quando sotto l'influsso di altre circostanze si formò un moto di violenta reazione al partito socialista (- movimento che alle origini e nelle cagioni fu indipendente dallo stato d'irritazione antisocialista delle classi ricche -), la borghesia dell'Italia centrale e settentrionale ci si buttò dentro con veemenza e con astio. Il fascismo era nato da una reazione del sentimento nazionale offeso. La borghesia minacciata dallo sviluppo di una cooperazione, che erroneamente i socialisti chiamano di classe, e che più esattamente deve dirsi statale, e che col passaggio ad un'amministrazione socialista della Cassa di Risparmio, di Milano, ormai indeprecabile, per i continui successi elettorali dei socialisti nelle finitime provincie di Milano, Mantova, Bergamo e Novara, avrebbe ricevuto un potentissimo impulso, trascinando nel movimento anche le altre banche (- la plutocrazia bancaria ha una psicologia così prossima a quella del socialismo! -); si buttò ardentemente nel fascismo. E' così dolce credersi patrioti quando non si è che egoisti! La confluenza del fascismo, nato pariottico e che fu ad un pelo per diventar socialista, con la rivolta borghese contro il socialismo cooperazionistico e riformista spiega le forme che ha assunto in Italia la lotta delle classi in questi due ultimi anni. II nemico apparente era il bolscevismo e la dittatura; quello reale il riformismo sociale e il cooperativismo. Non si trattava di espugnare la rossa bandiera dei Soviet, ma il cacio e le bonifiche dei socialisti più borghesi... Lo sviluppo parallelo di una legislazione tributaria anticensitaria e della cooperazione statalista avrebbe avuto per fatale corollario l'essiccamento del capitale nazionale destinato alle imprese private, le sole che possono intendere adesso al vasto compito di approvvigionare e nutrire la nazione (4). Se oggi il proletariato non è capace di gestire la produzione; tutto ciò che paralizza il processo normale di arricchimento nella nazione, è contrario agli stessi interessi delle classi lavoratrici e del socialismo. Appoggiati a questa verità, i fascisti hanno potuto stroncare e sconvolgere il partito socialista, quasi come esecutori di una volontà nazionale, quasi come interpreti di una sentenza del progresso storico. Ma il vero problema è questo: hanno essi soppresso il terreno da cui germina il riformismo sociale, che è il loro vero nemico, e non il bolscevismo; hanno essi intaccato il valido strumento che da quel terreno raccoglie la messe delle riforme, cioè la democrazia politica? - Ed io anticipo con un no, la risposta che darò al quesito nel corso di questo saggio. (1) L'unica assicurazione che il lavoratore capisce è quella degli infortuni sul lavoro. Le altre gli sono state imposte da una burocrazia, creata dalle assicurazioni, e che il loro cessare avrebbe disoccupata. - Chi si è accorto che gli operai hanno fatto scioperi per non subire le assicurazioni sociali? - Il riformismo è stato imposto all'Italia della piccola borghesia delle professioni liberali in cerca d'impiego.
(2) Il punto di vista ufficiale della Democrazia Sociale (marxistico) sul socialismo di Stato può dirsi contenuto nella deliberazione che il partito socialista tedesco prese al suo congresso annuale del 1892 (mozione Kauthsky):
La Democrazia Sociale non ha nulla di comune col cosidetto Socialismo di Stato, - Il cosidetto socialismo di Stato; nei limiti in cui mira alle statizzazioni a scopi fiscali, vuol porre lo Stato al posto dei privati capitalisti e dargli la forza d'imporre al popolo lavoratore il doppio giogo dello sfruttamento economico e della schiavitù politica. - Il cosidetto socialismo di Stato, in quanto si occupa del miglioramento della condizione delle classi lavoratrici, è un sistema di mezze verità (Halbeiten) che deve la sua origine alla paura della democrazia sociale". Il marxismo è un sistema eminentemente liberale. In un suo antico scritto, Engels definiva il comunismo: "l'organizzazione della libertà". (3) Marx ha sostenuto successivamente le due tesi. Nel "18 Brumaio" ne parla come di un fatto che contrassegna la volontà delle classi lavoratrici di rinunziare a rovesciare "die alte Welt". (1ª edizione, p. 8). - Nella refutazione di Eccarius alla Economia di St. Mill, che, in questa parte, fu scritta da lui, attribuisce alle cooperative il compito di precorrere il comunismo (p. 73).
(4) Nel mio Manuale di Economia politica (2ª edizione - A. Morano, editori, Napoli - cap. XII) ho dimostrato che la cooperazione di lavoro non può riuscire se non nei casi di produzione molto semplici e tipizzabili. Evidentemente tutto il resto deve essere fatto dall'impresa privata!
ARTURO LABRIOLA.
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