REVISIONE LIBERALE
Ma il liberalismo economico e giuridico è sempre conciliabile con il liberalismo politico? Abbiamo visto come il primo significhi garanzia della libertà e sicurezza della proprietà individuale e come il secondo implichi il diritto ad aspirare al governo purché si sappia acquistare con i metodi legali la fiducia della maggioranza. Ma allora una nuova aristocrazia, che dal punto di vista liberale sia riuscita a conquistare legalmente il governo e che perciò abbia in mano il potere legislativo, avrà anche il diritto di intaccare profondamente quel diritto di libertà e proprietà individuale che d’altra parte è un caposaldo del credo liberale? Il liberalismo rischia dunque di negare se stesso con i suoi stessi principi. Per esempio se un giorno mediante regolari elezioni giunge al potere un governo socialista, comunista che abolisca il diritto di proprietà, il liberale, per restar coerente al principio di accettare ogni governo che abbia riscosso la fiducia della maggioranza, dovrà rassegnarsi a veder rinnegata un principio essenziale della sua teoria? E peggio ancora se la maggioranza dei cittadini volesse instaurare un governo dittatoriale per esempio la dittatura del proletariato, il liberale dovrebbe accettarlo semplicemente perché questo è i1 così detto volere della maggioranza? Cito questi esempi estremi per porre nel massimo risalto la contraddizione che vi può essere tra i principi della libertà civile ed economica e le conseguenze della illimitata libertà politica. E da questa contraddizione alcuni liberali traggono la conclusione che per salvare la libertà civile ed economica bisogna negare o per lo meno limitare di molto la libertà politica. Questi appunto sono i liberali assolutisti i quali arrivano ad invocare il governo assoluto come il solo che possa realmente tutelare la libertà. Ma anche così si rischia di negare il liberalismo dallo stesso punto di vista liberale. Insomma se si può essere antiliberali (socialisti, nazionalisti, ecc.) liberali (che accettano il metodo politico liberale) si può essere anche liberali (in economia ed in filosofia) antiliberali (rifiutando il metodo politico liberale). Per esempio un governo che per combattere il protezionismo economico proibisce la stampa dei libri e la propaganda di idee protezioniste, sarebbe economicamente liberale (ossia liberista) ma politicamente tirannico. E questa in fondo è la mentalità di quei liberali, che per salvare il liberalismo vorrebbero impiccare tutti i socialisti. Ma a questa mentalità si contrappone quella che vuole veder attuata la teoria liberale col metodo liberale. Questi si potrebbero chiamare liberali liberali ossia al quadrato oppure, per antitesi agli assolutisti, liberali democratici. Questi appunto dovranno ammettere la possibilità di una forma legale di opposizione, ossia dovranno attenersi ad un determinato metodo per combattere la loro antitesi pur accettandola. I liberali democratici dovranno perciò ammettere la legittimità di governi antiliberali. Ma in quali limiti? Prima di tutto i liberali dovranno esigere che non venga alterato quel metodo legale secondo il quale questi stessi governi sono giunti al potere. E poiché, da un punto di vista liberale, questo metodo consiste in elezioni mediante le quali gli aspiranti al potere devono saper riscuotere la fiducia della maggioranza dei cittadini, ne segue che tutti i governi per quanto rappresentino la volontà della maggioranza, non potranno mai negare alle minoranze ed agli individui il diritto di acquistare a loro volta la fiducia della maggioranza e di ascendere per questa via al potere sostituendo il governo precedente. Lo Stato liberale, se riconosce la fiducia della maggioranza come criterio della legittimità dei governi, deve tutelare ad ogni costo i diritti delle minoranze ossia deve loro concedere la possibilità di spostare a loro favore la fiducia della maggioranza. I diritti delle minoranze sono appunto il primo limite della volontà della maggioranza la cui tirannia deve essere assolutamente impedita dallo Stato liberale. E questo obbligo della tutela delle minoranze implica naturalmente la tutela e la garanzia delle fondamentali libertà civili ossia della libertà personale, della libertà di pensiero, di stampa e di associazione. Tolte queste libertà cadono le premesse di quella libertà politica ossia di quel metodo liberale che abbiamo visto essere fondamento assoluto dello Stato liberale. Tolte queste libertà cadono i cardini di quel metodo politico che vuol garantire la possibilità della pacifica rotazione delle aristocrazie. Ma se nella difesa di questo metodo e di questa possibilità consiste il compito primo dello Stato liberale, è evidente che lo Stato liberale non potrà mai ammettere che le libertà civili dell'individuo siano lese e perciò dovrà difenderle sia contro la prepotenza di un individuo, di una minoranza o di una maggioranza. Dunque il potere legislativo delle maggioranze non può essere assoluto, ma ha il suo limite nei diritti delle minoranze e degli individui; ossia da un punto di vista liberale la libertà di persona, di pensiero, di stampa e di associazione, e di voto, non può essere intaccata né da Re, né da aristocrazie, né da democrazie. E il diritto di proprietà privata fa parte di questi inalienabili diritti, oppure la volontà legislativa della maggioranza dei cittadini può toglierlo? Ossia si può ammettere la legittimità di un esperimento social-comunista qualora esso sia richiesto dalla maggioranza dei cittadini? Naturalmente resta escluso il diritto al furto collettivo, ossia non si potrà mai riconoscere ad una maggioranza il diritto alla appropriazione forzata delle ricchezze di una minoranza. Ma se un governo, espressione legittima della maggioranza dei cittadini vuole tentare un esperimento di socialismo di Stato, i cittadini, da un punto di vista liberale, hanno diritto di ricorrere alla ribellione? A me sembra teoricamente di no. Come un governo che intraprenda una determinata politica estera ha il diritto di costringere le minoranze alla guerra e indistintamente tutti i cittadini volenti o nolenti al servizio militare, ossia può chiedere ai cittadini la rinunzia alla stessa libertà di mantenersi in vita, così un governo può chiedere ai cittadini gravi rinunzie alla libertà economica per attuare una determinata politica economica-sociale; e tanto in politica estera, quanto in politica economica sociale, il più legittimo dei governi può errare pienamente. Ma è arcinoto che nessuna forma di governo sarebbe possibile se il cittadino si attribuisse il diritto di disubbidire al governo tutte le volte che lo ritenesse in errore. Da un punto di vista liberale, il parere e perciò anche il malcontento dei cittadini non può manifestarsi che con regolari elezioni, ma a parte questo diritto di protesta, l'individuo deve ubbidire e non giudicare lo Stato. Dunque i liberali riterranno il socialismo di Stato un gravissimo errore, le combatteranno con tutte le armi legali della propaganda e del diritto elettorale, ma qualora la situazione politica portasse al governo una classe dirigente che volesse tentare un esperimento di socialismo di Stato, essi dovranno rassegnarsi all'ubbidienza salvo a continuare a combattere il governo con tutte quelle armi che il diritto costituzionale concede loro. Ed è evidente che in un regime liberale, il socialismo di Stato non potrebbe avere che un valore di esperimento sociale, poiché esso sarebbe sottoposto al giudizio della successiva consultazione del paese. E questo ci garantisce anche che l'esperimento socialista non avrebbe per scopo i1 semplice trasferimento della ricchezza da alcune tasche in altre tasche, ma che sarebbe un disinteressato tentativo per una migliore convivenza sociale. Se una classe deruba un'altra classe non lascia poi il diritto alla prima di riprendere i suoi beni! Il socialismo furto è insomma sempre accompagnato dalla abolizione delle libertà politiche. Astrattamente il socialismo di Stato non dovrebbe comportare trasferimenti di ricchezza; ma soltanto una diversa e presunta migliore amministrazione della ricchezza. In tal maniera se il paese constaterà che l’amministrazione statale è peggiore della individuale, un futuro governo potrà anzi dovrà restituire ai vecchi intraprenditori amministrati la gestione delle imprese statizzate. Un socialismo così inteso, perde tutte le attrattive dell'albero della cuccagna, poiché non consente ad alcuni cittadini di impadronirsi dei beni altrui, ma esperimenta soltanto un diverso (e per il liberale pessimo) metodo di amministrazione. Questo mio ragionamento è puramente astratto perché so benissimo che questo idilliaco socialismo che si accontenta di fare un semplice esperimento in regime di perfetta libertà politica è storicamente e psicologicamente quasi assurdo. La negazione della libertà economica implica con grande facilità l'abolizione della libertà politica e una vera libertà politica tende a realizzare la libertà economica, ma appunto per questo sostengo che il liberalismo può ammettere che in regime di libertà politica si facciano degli esperimenti di economia non liberale e invece non potrà mai acconsentire che si sopprima il metodo politico liberale. Se questo sarà mantenuto, salvo rare oscillazioni, si avrà anche una relativa libertà economica. In conclusione anche il liberalismo più liberale limita la libertà per poter mantenere la libertà, perciò non è giusto accusare il liberalismo di annullarsi con i suoi stessi principi. Il liberalismo propone la concorrenza economica, ma impone il metodo politico della libertà. Esso perciò è dogmatico e appunto per questo è costituzionale e non anarchico. La costituzione deve essere costituzionalmente riformabile, ma non costituzionalmente negabile, ossia per il liberalismo vi sono alcuni principi giuridici come la libertà individuale, la libertà di pensiero, di parola, di stampa e di insegnamento, la libertà di riunione di associazioni e di voto, i quali, appunto in quanto senza di essi non è concepibile la possibilità della tranquilla rotazione delle classi dirigenti, sono inviolabili, ossia non possono essere legalmente soppressi, né da maggioranze, né da minoranze, né da individui. Questi valori sono assoluti ossia trascendono l'arbitrio degli individui singoli e associati e perciò devono essere custoditi ed imposti da un potere indipendente dalle oscillazioni della volontà popolare. Forse per questo la classica forma di governo liberale è la monarchia costituzionale. La libertà è garantita dallo Statuto ossia da una legge che vincola il Re e i suoi sudditi. Nè l'uno nè gli altri possono infrangerla. Il Re ha diritto di reprimere ogni ribellione dei sudditi allo Stato ed i sudditi hanno diritto a ribellarsi ad ogni infrazione dello Statuto da parte del Sovrano. Lo Stato deve rappresentare l’universalità dei cittadini è gravissimo errore è confondere l'universalità colla maggioranza. Anzi per salvare l'universalità dei diritto è necessario sottrarre il diritto all'arbitrio della maggioranza. La migliore garanzia della libertà degli individui e delle minoranze, consiste in una salda monarchia che appunto incarni la universalità e la unità del diritto. Il governo di minoranze che si siano acquistata e meritata la fiducia della maggioranza secondo metodi fissati da una larga costituzione garantita dal giuramento di una fedele e salda monarchia, mi sembra sia l'ideale politico del liberalismo. E quanto più una costituzione è largamente liberale, ossia quanto più essa consente a tutte le idealità e a tutti gli interessi politici di realizzare largamente le proprie finalità, tanto più dovrà essere rigida nel non tollerare infrazioni. Uno Stato liberale che non voglia dissolversi nell'anarchia o essere sopraffatto da una tirannia individuale o di partito dovrà difendere con la forza cioè anche col sangue la sua costituzione. Lo Stato deve rispondere con la violenza alla violenza ed ha anche il diritto di prevenire le crisi anarchiche impedendo l'incitamento all'odio e alla lotta di classe. Libertà di pensiero si, ma non libertà di propagare un determinato pensiero con metodi costrittivi o violenti e perciò, a rigor di logica, lo Stato liberale può anche arrivare a proibire la propagazione di idee contrarie al metodo liberale di convivenza sociale. Resta dunque fissato il diverso significato della parola liberalismo a secondo che essa si riferisce alla filosofia, alla economia e alla politica. E' possibile essere liberali in un senso e non nell'altro. E' molto difficile definire quale debba essere il pensiero filosofico del liberale. A me sembra che il liberalismo essendo essenzialmente una teoria sociale è teoricamente conciliabile con i principi supremi delle diverse grandi teorie filosofiche (idealismo, fenomenismo, realismo, dualismo, monismo) ossia non appartiene in particolare a nessuna di esse. Si può invece definire la teoria liberale dal punto di vista economico e politico. Anche fra queste teorie vi può essere conflitto. Abbiamo chiamati liberali assolutisti coloro che ritengono necessario di negare il liberalismo politico per assicurare il liberalismo economico e giuridico, coloro invece che per attuare il liberalismo economico-giuridico credono sia meglio ricorrere al liberalismo politico e concedono anche ai non liberali il diritto di fare l'esperienza di governo, li abbiamo definiti liberali democratici. Tanto gli uni quanto gli altri credono nella verità di alcuni principi economici e giuridici e perciò nella falsità dei principi contrari, ma i primi vogliono combattere "l'errore antiliberale" con la repressione e l'esclusione, mentre gli altri ritengono che il metodo migliore per combattere "l'errore antiliberale" consista nel concedere entro certi limiti, ai non liberali, il diritto di far l'esperienza dei loro errori per persuaderli alla conversione. Il liberalismo integrale ha per scopo essenziale la regolazione del ricambio delle classi dirigenti. Il liberalismo dunque oltre ad essere un programma di governo è anche una teoria delle forme di governo. Il liberalismo assolutista tende a confondere il governo che segue principi economici liberali con lo Stato e perciò a considerare ogni dissenso dal governo come delitto contro l'autorità dello Stato, invece il liberalismo integrale, democratico, distingue fra Stato e governo ed appunto per questo ammette che nell'ambito dello Stato liberale si succedono governi di puri liberali (in economia e filosofia) e di partiti non in tutto oppure non soltanto liberali come i socialisti, i nazionalisti e i cattolici. Ma però è necessario che questi partiti, filosoficamente ed economicamente non liberali, siano liberali politicamente, ossia che accettino lealmente il metodo liberale per la convivenza sociale e per la lotta politica. Garante e custode di questo metodo deve appunto essere lo Stato liberale che, anche secondo la concezione più larga e democratica del liberalismo, deve poter difendere i principi fondamentali della propria liberale costituzione contro tutti e, se è necessario, con qualunque mezzo. Appunto perché i governi sono mutabili, lo Stato deve essere immutabile. La teoria politica del liberalismo è poco romantica, niente eroica, e piuttosto pessimista. Non crede nelle "lotte feconde", nei fatidici cozzi dai quali si sprigionano le faville divine della nuova storia. La storia politica non è un bene, ma una necessità che occorre regolare ed attenuare. Il liberalismo riconosce come un dato di fatto il dinamismo storico, ma ha per fine la pace e la quiete sociale. Secondo me il liberalismo è anzi la migliore "prassi" del conservatorismo. E' una specie di difesa elastica contro tutte le violente ed erompenti novità ed il perenne spegnitoio di tutte le rivoluzioni. La rigida resistenza, l'assolutismo conservatore sono i migliori alleati di tutte le rivoluzioni, anzi sono il momento negativo, ma necessario di ogni dialettica rivoluzionaria. Legalizzare il nuovo vuol dire includerlo nel passato, ossia uccidere con l'evoluzione la rivoluzione. Il liberalismo è pessimista appunto perché non crede alla possibilità di nessuna palingenesi. La lotta di classe e di nazione è un fatto, perciò è inutile negarla in nome di una astratta idealità; ma la lotta violenta è un male poiché è inutile, ed è inutile in quanto non porta nessun stabile risultato. Perciò conviene a tutti attenuare e regolare la lotta sociale e tanto i conservatori per difendere il loro passato, quanto gli avveniristi per imporre il loro futuro, potranno, anzi dovranno, accettare il legale riformismo dello Stato liberale. Come si vede nessuna teoria è meno eroica di questa, tuttavia ciò non significa che lo Stato liberale sia imbelle e passivo. Prima di tutto lo Stato liberale presuppone i cittadini liberali e perciò lo Stato dovrà attivamente provvedere alla loro educazione politica e poi, contro chi persiste nel metodo rivoluzionario avendo la possibilità di seguire le vie legali per tendere alla propria finalità, lo Stato liberale deve difendersi colla repressione; alle bombe dei rivoluzionari cronici dovrà rispondere colle sue mitragliatrici. Almeno così i rivoluzionari potranno fare sul serio la loro rivoluzione. NOVELLO PAPAFAVA.
POSTILLA
Eletto discorso degno di consolante meditazione ci parvero i pensiero di Alessandro Levi e di Novello Papafava. Durante il fiorire più intemperante di logica tribunizia e di ideologie improvvisate con la fertile insistenza dei liberti, diventa una necessità di misura l'impartire lezioni dignitose di costume costituzionale e di austerità politica. I discorsi impassibili di solennità giuridica che Luigi Albertini ripete in Senato, senza tralasciare una sola occasione per recare i lumi del suo monotono protestantismo, appartengono a questo stesso nobile genere di lamenti sull'ingenerosità dei tempi e sul fanatismo dei politicanti. Intorno a una questione di stile vedemmo, assai facilmente, raccogliersi i più vari consensi alla nostra polemica: poiché in pieno sovvertimento degli uomini e dei ceti è lecito attribuire importanza più fondamentale alle coincidenze di costumi e di attitudini diplomatiche, quasi una comune aristocrazia di stile, che alle differenze ideologiche e agli intenti riformatori. Più semplicemente, conservatori e rivoluzionari sembrano uniti per istinto di fronte all'altra Italia dannunziana e fascista. Ma non bisognerà esaurire in un generico consenso di stile tutta la politica. Il discorso di Novello Papafava resta la lamentazione del conservatore; anche se trattisi di quel conservatorismo, che subito dopo il periodo del Risorgimento, l'aristocrazia agraria italiana da Stefano Jacini a Leopoldo Franchetti a Francesco Papafava sentì di dover opporre alla decadenza del parlamentarismo e del socialismo di Stato. Noi potremmo augurarci un esperimento di conservatorismo siffatto (e perciò riconosciamo nel partito popolare il legittimo successore del fascismo) solo per i benefici effetti che l'assestamento legale risultante e il rispetto degli uomini, delle idee e dei partiti, che ne verrebbe sancito, darebbe nuovo incremento alla lotta. Il metodo del liberalismo, lo si consideri nella sua sostanza economica o etica o costituzionale, consiste nel riconoscimento della necessità della lotta politica per la vita della società moderna. L'importanza di un’opposizione per l'opera del governo, la tutela delle minoranze, lo studio dei congegni più raffinati per le elezioni e per l’amministrazione pubblica, le conquiste costituzionali, frutto di rivoluzioni secolari sono il patrimonio comune della maturità politica e devono intendersi come problemi di costume politico propri dei liberali, come dei loro eredi o avversari che non siano ingenuamente teneri per gli anacronismi o per le esercitazioni oratorie di filosofia politica. Ma non sembrerebbe lecito che chi crede a questo metodo debba chiamarsi senz'altro liberale, mentre anzi queste considerazioni si direbbero le premesse necessarie fuori delle quali non si trovano elementi che consentano una discussione feconda. Se concediamo ai conservatori di chiamarsi liberali non sapremmo più che cosa obbiettare ai nuovissimi tiranni che parlano, per demoniache tentazioni di dialettici fantasmi, della libertà vera come libertà contenuta nei limiti della legge (mentre nel caso specifico ci accontenteremo di ricordare maliziosamente al Gentile che raramente i filosofi seppero sottrarsi al fascino dell’autorità per le stesse ragioni per cui le donnicciuole più espansive venerano il bastone). Il nostro liberalismo, che chiamammo rivoluzionario per evitare ogni equivoco, s'inspira a una inesorabile passione libertaria, vede nella realtà un contrasto di forze, capace di produrre sempre nuove aristocrazie dirigenti a patto che nuove classi popolari ravvivino la lotta con la loro disperata volontà di elevazione, intende l'equilibrio degli ordinamenti politici in funzione delle autonomie economiche, accetta la costituzione solo come una garanzia da ricreare e da rinnovare. Lo Stato è l’equilibrio in cui ogni giorno si compongono questi liberi contrasti: il compito della classe politica consiste nel tradurre le esigenze e gli istinti in armonie storiche e giuridiche. Lo Stato non è se non è la lotta. Non bisogna confondere l'eticità di questo liberalismo con la grossolana filosofia della schiavitù dei pedanti gentiliani: è un sistema di ascesi politica, è la pratica e la preparazione attraverso cui il popolo conquista la sua coscienza sociale. L'educazione popolare non si fa nelle scuole, ma nella vita, e la libertà (del produttore come del cittadino), mentre è il fine eternamente cercato da tutte le rivoluzioni che vengono dal basso, riesce il tirocinio sperimentale, l'iniziazione laica per la religione della dignità. p. g.
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