ESORTAZIONE AL PESSIMISMO

    Mentre le cartelle della Stefani passavano rapidamente sul nostro tavolo per la prima lettura giornalistica, non sapevamo trattenere espressioni ammirative di fronte a certe "boutades" del Presidente del Consiglio, rivelanti una abilità sicura, tempista, demonica nelle mille arti della suggestione da operarsi sull'uditorio presente e su quello più vasto e lontano. Non si può, per esempio, non battere le mani, quando l'on. Mussolini, per pizzicare una volta di più il senatore Albertini, sempre avvolto nei paludamenti della tradizione cavouriana - ma è mai esistita una tradizione cavouriana in Italia? - cita precisamente Cavour, e lo presenta come il primo sovvertitore dello Statuto. Non si può non ridere di gusto, approvando l'ironia dell'on. Mussolini, quando egli avverte: "Ma nessuno deve spaventarsi per il fatto che vado a cavallo!" – esclamazione di un arguto e bonario ed efficace buon senso, che ricorda certe battute giolittiane. Con la conoscenza che abbiamo del pubblico italiano, possiamo dire che queste e altre simili "trovate" faranno la fortuna del discorso, accolto lietamente dalla borghesia italiana, soddisfatta come non mai di essersi affidata a un uomo "che fa tutto lui".

    Abbiamo dunque coscienza di essere degli isolati, quando, superata la prima impressione che la abilità dell'on. Mussolini ci procura, scendiamo, come è nostro dovere, ad esaminare, con mente riposata, il valore politico del discorso. Doppiamente isolati, anche in questa nostra critica. Perché noi non intendiamo porre ancora una volta dinanzi all'on. Mussolini la medusa del perdurante illegalismo, noi non vogliamo contestare le sue affermazioni sullo squadrismo o sul Gran Consiglio, noi non vogliamo sofisticare sulle sue panoramiche visioni costituzionali. Andiamo più in là: nessuno ci farà rimpiangere un passato, di cui non abbiamo mai disconosciuto gli errori: e comprendiamo perfettamente la façon cavaliére, con cui l'on. Mussolini scavalca la Camera, quando in questa Camera seggono l'immortale e barbuto autore del "Progetto per i Soviet Urbani", e i cento deputati meridionali "democratici" che sono pronti ad arrolarsi come ascari, se Mussolini li accoglie, in qualità di bestie senza artigli, nell'arca di Noè elettorale.

    Niente di tutto questo. Noi intendiamo riferirci al solo punto del discorso in cui l’on. Mussolini abbozza un tentativo di definizione dello stato fascista. Questo nocciolo, secondo noi, risalta e si aggroppa in questo periodo:

    "Di che cosa, in fondo, ha sofferto la vita italiana negli anni passati? Ha sofferto del fenomeno del trasformismo. Non c'erano mai dei confini precisi, nessuno aveva il coraggio d'essere quello che doveva essere; c'era il borghese che aveva delle arie socialistoidi, c'era il socialista che si era imborghesito fino al midollo spinale. Tutta l'atmosfera era di mezze tinte, d'incertezza. Ebbene, il fascismo prende gli individui per il collo e dice: dovete essere quello che siete! Se siete borghesi dovete esser tali, dovete avere orgoglio della vostra classe perché la vostra classe ha dato il tipo dell'attività mondiale al secolo decimonono. Se siete socialisti, dovete essere tali anche affrontando gli inevitabili rischi di questa professione".





    In altre parole: l'on. Mussolni esalta lo Stato in cui i cittadini hanno forti convincimenti, in cui i reazionari fanno la reazione "con amore", in cui il governo affronta l'impopolarità coraggiosamente, in cui l'ardore delle opposizioni, l'urto dei contrasti dà dignità alla lotta politica e alla lotta sociale: in cui l'unanimità dei consensi è considerata per quello che è, una stupidaggine, e perciò respinta dai governanti che si inspirano ad una linea di intransigente eroismo, di disprezzo del plauso, di austera solitudine. Questo è lo stato dei pessimisti, di temperamento e di educazione – e l'onorevole Mussolini ha affermato di essere tale –: e il pessimismo è l’humus che alimenta le opposizioni: chi è pessimista ricerca l'opposizione, non la sfugge. Questo è lo stato in cui non si stima la vittoria, se il vinto non vi ha collaborato con la sua resistenza: in cui si ridanno al vinto le armi della lotta politica e della lotta sociale, perché continui a combattere, perché spoltrisca i vincitori, perché renda la vittoria feconda. Questo è lo stato liberale, questa è la rivoluzione liberale, che esurge dal contrasto dei partiti, dal contrasto delle classi, dal contrasto delle convinzioni, da tutti i contrasti possibili, che soli elevano la politica al disopra del mestiere, e la adeguano alla visione idealistica della vita.

    Questo è lo Stato che noi vagheggiamo, che speriamo, per la grandezza del nostro paese, caro a noi non meno che a chiunque altro. Ma questo è lo Stato che il Fascismo non ci ha dato: l'on. Mussolini lo enuncia sì nel suo discorso, nel periodo riportato, ma lo nega in tutta la sua pratica di governo. "Il fascismo che prende per il collo gli individui" e impone loro l'orgoglio e la coscienza di partito e di classe è una immagine balenata all'intuizione dell’on. Mussolini: ma purtroppo è una immagine soltanto. Dimostriamo brevemente questa nostra affermazione.

    Di dove i cittadini traggono la coscienza, l’"orgoglio", i "confini precisi" di cui parla l’on. Mussolini? Dalla lotta di classe e dalla lotta politica. Un governo "eroico", un governo forte, che educhi a fortezza i cittadini, deve ad essi consentire l’esercizio dei mezzi idonei della lotta di classe e della lotta politica. Dalla esaltazione del governo forte, che educa a saldezza di convincimenti i cittadini, si educa ferreamente la libertà sindacale e la proporzionale, strumenti appunto dell'una e dell'altra lotta. Il governo che disconosce, che cerca di togliere di mano ai cittadini la libertà sindacale e la proporzionale, non è affatto un governo eroico, non educa altro che all'applauso unanime, ammaestrato, vile, cui gli uomini si piegano come le messi bionde ondeggianti per un attimo a tutti i mutevoli venti.

    L'on. Mussolini si è creato, col sindacalismo fascista, un riparo dalla lotta di classe. Egli fugge dinanzi a questa realtà, e cerca di addormentare l'eterna insonne con una specie di patriarcalismo economico, le cui "largizioni" discendono giù giù, per li rami burocratici delle Corporazioni, fino sulle teste chine delle moltitudini. L'onorevole Mussolini ha enunciato con compiacenza, fra le forze del fascismo, un milione e mezzo di operai e di contadini, "i quali, egli ha aggiunto, debbo dirlo a titolo di lode, sono quelli che non si danno affatto imbarazzo". Ahi, triste lode, lode che sa di muffa, cotesta: che suona strana in bocca ad un esaltatore della civiltà meccanica, dinamica, guerriera del nostro secolo. Se noi potessimo immaginarci al posto dell'on. Mussolini, ci augureremmo altra cosa: vorremmo che quel milione e mezzo di lavoratori ci desse imbarazzo, molto imbarazzo! Vorremmo, se del caso, insegnare che la rivoluzione costa cara piazzando le mitragliatrici per le strade e difendendo l'ordine pubblico col piombo: ma mai, mai loderemmo un milione e mezzo di operai e di contadini per la loro remissività umile, mai negheremmo ad essi la conquista della loro responsabilità di produttori attraverso l'autonomia sindacale, attraverso il diritto di sciopero, attraverso tutti quegli svariati "imbarazzi" che la lotta di classe appresta, e che gli uomini di Stato affrontano lietamente perché sanno che la volontà di conquista delle classi lavoratrici è la migliore garanzia dell'imperialismo fecondo di una grande nazione.





    E che cosa è, di grazia, quest'altra riforma elettorale che così faticosamente si sta elaborando, se non un altro rifugio dinanzi a un'altra realtà, quella della lotta politica? Qui l'on. Mussolini cerca un sistema che gli dia una maggioranza di tout repos: il paese addormentato nelle braccia del partito vincente alle elezioni, il partito vincente - secondo l'altra riforma, quella costituzionale - addormentato in braccio al Capo del Governo, che ha in tasca il voto dell'inizio della legislatura, ed ha così assicurato il quieto vivere. Questo è un aspetto, l'aspetto parlamentare, del consenso unanime che l'on. Mussolini domanda, vuole, esige dal paese. L'on. Mussolini - sedicente pessimista - vuole ad ogni costo vedersi attorno visi dolcemente ridenti anche a Montecitorio. L'on. Mussolini ha detto, nel suo discorso, che "non bisogna mai dormire quando si governa": al contrario tutta la sua pratica pare che miri a questo, ad assicurarsi sonni tranquillissimi. La proporzionale è troppo sincera, porta vicino al governo troppo vivace l'eco del contrasto dei partiti, e perciò via: via perfino lo jus murmurandi, questa forma così bassa di lotta politica, concessa pure agli iloti: anche il mormorio può disturbare il governo che si propone di non dormire mai!...

    Ricoperta così - con un velo illusorio - la lotta di classe, soffocata la lotta politica nelle riforme più imbottite, unica forma di attività pubblica consentita al popolo italiano rimane la "sagra": in cui l’unanimità dei consensi si manifesta sotto il sole ardente di Romagna o di Sicilia, fra lo sventolio delle bandiere, e il suono delle fanfare: dove gli italiani corrono tutti, perché amano le domeniche imbandierate e i mortaretti; dove i borghesi si dimenticano perfettamente di essere borghesi, e i socialisti - poveracci! - si dimenticano di essere socialisti, e ottengono un po' di perdono, partecipando al giubilo universale. E' l'ora di proclamarlo ben forte: mai l'Italia ha avuto un governo così ansioso di popolarità e, in effetti, così confortato da plausi popolari. L’on. Mussolini, in un tratto del suo discorso, pare lusingarsi della speranza che la popolazione italiana soffra in un dolore austero, sotto la politica del Governo "dura, crudele": sembra che aspiri, in un nobile sforzo, all'impopolarità. Illusione, illusione, on. Mussolini: voi siete disperatamente popolare, la popolazione italiana è - per dire la frase ingenua di un senatore francese ammiratore del fascismo - "in uno stato di allegria come se tutti avessero guadagnato un terno al lotto".

    Si: l’on. Mussolini, nel suo discorso, ha avuto un colpo d'ala. Ha sentito quanto egli sarebbe più grande, se gli italiani gli plaudissero meno e gli resistessero di più: ha intuito tutta la fallacia di un metodo di governo, che togliendo agli italiani i mezzi della lotta politica e sociale, toglie anche a lui l'orgoglio più alto dell'uomo di Stato, educatore, non incantatore delle nazioni.

    Fu questo, a nostro avviso, il solo momento del discorso, in cui l'on. Mussolini fu grande. No, forse ve n'ha un altro: quando l'applauso finale del Senato si infranse ai suoi piedi, ed egli, l’eternamente applaudito, ebbe un sorriso di disprezzo per questa unanimità di vecchi, anch'essi ansiosi di adulare, come lungimiranti giovinetti.

GIOVANNI ANSALDO.