LIBERALISMO COME STATO D'ANIMO
Ringraziamo Alessandro Levi di aver voluto partecipare alla nostra discussione. Come noi intendiamo e accettiamo il liberalismo quale stato d'animo, come tuttavia la passione per la libertà e la concezione rivoluzionaria rimanga il concetto centrale e dominante del nostro pensiero, spiegheremo con più agio nel prossimo numero rispondendo insieme al Papafava e al Levi. Caro Direttore, Permettetemi d'iniziare questa lettera con una confessione: mi è mancato il tempo di seguire il vostro periodico con tutta l'attenzione ch'esso indubbiamente merita: non so, pertanto, se le idee che mi accingo ad esporre soneranno talpoco stonate nella Rivoluzione Liberale o se, invece, saranno giudicate dai vostri lettori come una conferma, se non una ripetizione, di altri scritti già apparsi, ed a me sfuggiti, nella vostra Rivista. Alla quale mi dirigo, a preferenza di altre, per la simpatia che desta in me, a prescindere da inevitabili punti di dissenso, il giovanile movimento d'idee ch'essa rappresenta. Il liberalismo sarà... tutto quello che voi volete: tendenza economica, partito politico, tradizione rivoluzionaria, retaggio storico da conservarsi nella sua forma costituzionale e da impinguarsi di nuovo contenuto, parola d'ordine per oggi e per domani. Ma oltre e forse prima di tutto questo a me sembra che il liberalismo sia uno stato d'animo. Il quale può essere proprio di alcuni che non hanno mai militato, non militano e probabilmente non militeranno mai nelle file dei così detti partiti liberali (a proposito: quanti sono?), e può invece, a dispetto delle coccarde e delle insegne, non essere né possesso né conquista di tanti altri, che pure fanno professione politica di liberalismo. Lo stato d'animo liberale può essere, appunto, un possesso od una conquista. Merita maggiore considerazione quest'ultimo, poiché il primo, il quale è talvolta l'indizio di un temperamento equilibrato, può altresì equivalere a fiacchezza d'idee od a gretto amore di quieto vivere, laddove la conquista di uno stato d'animo liberale, appunto perché conquista, cioè prodotto di una lotta interiore, rivela una consapevolezza critica del bene spirituale raggiunto non senza resistenza o contrasti, del valore di esso e delle situazioni già in sé stesse sperimentate che gli si contrappongono, dei doveri non solamente passivi, ma attivi che esso bene impone a chi lo voglia servire. Ardirei aggiungere che tale stato d'animo è un requisito di quell'aristocrazia morale, che richiede rarissime virtù di pensiero e di azione: padroneggiamento delle passioni, disciplina del carattere, riconoscimento dei limiti della personalità propria, rispetto della personalità altrui. Questo è, infatti, a mio avviso, il contenuto del liberalismo come stato d'animo: l'ossequio, non professato a fior di labbra ma schiettamente sentito, alla dignità della coscienza umana; una sincera tolleranza, o – meglio – una doverosa deferenza per ogni altra onesta fede e per la condotta che a questa sia coerente. Che se tale stato d'animo si analizzi più dappresso, nei motivi profondi, e non sempre consaputi, dai quali deriva, a me pare si debba giungere alle seguenti conclusioni: Stato d'animo più che portato di un ragionamento, il liberalismo, così inteso, poggia assai più su motivi sentimentali che non su rigorosi fondamenti logici. Pur tuttavia esso implica una concezione della vita morale la quale, da qualunque fonte derivi, si alimenta di queste convinzioni: che la vita etica (ed anche la politica, intesa nel suo più puro significato, è moralità pratica, non soltanto perché il giudizio morale investe tutto il campo dell'attività umana, ma altresì perché l'azione politica, più che soddisfacimento d'interessi od esercizio di diritti è, o avrebbe ad essere, compimento di doveri) che la vita etica è l'espressione di una fede, cioè, sempre la creazione o l'accettazione di un valore amato come buono in sé, che tale fede, rampollando dalle più intime sorgenti della personalità umana, è sacra per gli altri soggetti perché sacra è la personalità, la quale dev'essere rispettata come fine e non considerata come mezzo; che, se è formalmente identico in tutte le coscienze umane il principio della moralità, e cioè precisamente l'adesione ad un valore da cui deriva l'auto-imposizione del dovere, vari sono gli aspetti che esso assume nelle diverse coscienze; varii tali aspetti, ed insindacabili, solo che da questa fede morale non siano giustificate attività le quali possano mettere in pericolo la vita sociale, e cioè siano giuridicamente punibili. Il principio della libertà di coscienza vuole che si rispetti, come un santuario, la coscienza stessa, fonte dell'agire umano, sempre che, per necessità sociali e nei rigorosi limiti in cui queste sono tradotte nell'ordinamento giuridico, non ne derivino atti contrari alle leggi. Né questa concezione formale del principio etico, o – che è forse lo stesso – questa convinzione della formalità di esso principio può confondersi con lo scetticismo o legittimarlo. Al contrario. Perché tale concezione o convinzione né mette alla pari tutte le fedi né, tanto meno, viene ad escludere ognuna di esse. Non esclude la necessità della fede, ma anzi l’afferma, dimostrando come la moralità sia sempre fede; e non legittima, ma anzi esclude, ogni professione d'indifferenza di fronte alle varie fedi, prima di tutto per la ragione anzidetta, che secondo la stessa concezione non vi può essere moralità senza una fede, e inoltre perché, nei limiti giuridici imposti alle attività per necessità sociali, concepisce la vita morale della società come una lotta civile, e cioè una libera concorrenza fra le varie fedi, si oppone, come a sua netta antitesi, ad un altro stato d'animo, donde deriva un'altra forma di attività umana: e cioè al settarismo od intolleranza. Anche questo stato d'animo può dipendere da diverse cause, personali e sociali, emotive ed intellettuali: disconoscimento del principio formale della moralità, adorazione fanatica della propria idealità che sembra giustificare od anzi esigere la violenta imposizione che di essi si tenti alle altrui coscienze, dispregio delle altre idealità concorrenti o addirittura negazione a codeste del carattere di idealità; e via discorrendo. Tale stato d'animo – oggi, a prescindere dai bassi motivi egoistici che ne simulano l'apparenza, molto diffuso – è mera antitesi, od è anche, come alcuno sostiene, superamento dello stato d'animo liberale? E' facile la risposta a tale quesito, solo che si pensi che il settarismo combatte il liberalismo e ne disconosce la legittimità, laddove il liberalismo, che conosce e riconosce il settarismo come una fase per la quale passa quasi ogni coscienza e quasi ogni idealità, lo spiega, e cioè storicamente lo giustifica, ma gli si oppone a ragion veduta, lo risolve in sé, e quindi lo annulla, dimostrando che, a dispetto di un diffusissimo luogo comune secondo il quale la vera fede sarebbe intollerante, non è dar prova di fiducia nella propria fede, ma anzi dimostrare mancanza di fiducia nella stessa il volerla imporre con la violenza, soffocando, e non discutendo, le fedi diverse e concorrenti. Vero che, secondo il notissimo esempio, i settarii possono chiedere ai liberali libertà per la propria fede in omaggio ai principi di costoro e negarla, invece, agli altri per ossequio ai principii propri. Ma questa medesima più larga tutela che il liberalismo accorda a tutte le fedi – anche alle intolleranti, quando non eccedano i limiti che l'ordine giuridico impone alle attività pratiche – laddove il settarismo nega cotesta tutela ad ogni altra fede, non dimostra forse che è essenziale al liberalismo la fiducia nel trionfo del bene come prodotto della libera discussione di tutti i principi, quelli settari non esclusi? Perché, infine, a me pare che lo stato d'animo liberale ben lungi dall'essere una condizione di inerzia mentale, o di cosiffatta tolleranza che indulga a tutte le fedi e di tutte accetti qualche cosa nel suo sfiancato eclettismo, e diventi un sinonimo di quell'accomodantismo che è la negazione della moralità, imponga, anzi a chi voglia essere degno della intima serenità ch'esso promette a chi lo conquisti, una dura milizia. E cioè l'adempimento di questi non facili doveri: un austero controllo su sé stessi, un rispetto scrupoloso per le sincere fedi altrui, un'attiva vigilanza, che in certi casi può divenire lotta assai aspra, in servizio di quel bene spirituale, da cui trae nome ed ispirazione: la libertà. Certo, la libertà non è il solo bene dello spirito; è anzi, come diceva il Mazzini, mezzo per fare il bene. Ma è un mezzo dal quale non si può prescindere, solo che si accetti il postulato che la personalità umana va rispettata come un fine. E se anche altri possa, a traverso e non contro la libertà, mirare ad ideali che ritenga nella propria coscienza ancora più alti, e cioè consideri la libertà non come il culmine supremo dell'ascesa umana, ma soltanto il valico per altre cime – io, per esempio, credo che più alto ideale della libertà sia la giustizia; e per ciò sono socialista – pure la libertà è tale bene, la cui difesa può accomunare quanti, discordi in altre convinzioni, credano che solo per mezzo della libertà possa raggiungersi durevolmente ogni altra più elevata conquista. Se io non m'inganno, caro Direttore, la vostra Rivoluzione Liberale, campo aperto alle discussioni, mira appunto a sostenere ed a diffondere tali convinzioni, e cioè non ad addestrare giovani reclute pei così detti partiti liberali, ma ad un fine assai più alto: a promuovere specialmente tra i giovani tale stato d'animo liberale. Per tratteggiarne alcuni aspetti ho preso la penna. La depongo, esprimendovi la speranza che la vostra coraggiosa Rivista contribuisca a preparare al nostro paese una generazione che torni a sentire tutto il valore del principio di libertà, fondamento sicuro di una sana educazione morale e politica. ALESSANDRO LEVI.
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