POLITICA ESTERA E POLITICA INTERNA
Cesare Balbo, nel primo periodo del Risorgimento - anteriormente al '48 - ebbe a sostenere una gradualità di fini politici nazionali, per la quale convenisse mirare innanzi tutto all'indipendenza, mettendo da parte la questione della libertà. Coloro che fra noi sostengono la subordinazione della politica interna a quella estera, subordinazione per cui la prima non sarebbe se non un momento della seconda, potrebbero fare appello a questa tesi del Balbo, se non disdegnassero per sistema le tradizioni del Risorgimento. Senonché occorre aggiungere subito che la tesi di Cesare Balbo fu smentita dallo svolgimento effettivo della liberazione e unificazione italiana; nel quale - a parte anche il Quarantotto, con i suoi moti per le libertà statutarie procedenti e accompagnanti l'insurrezione contro l'Austria - vediamo la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II e la politica liberale di Cavour fungere da centri dirigenti dell'opera nazionale, appunto in forza della loro costituzionalità e del loro liberalismo; e i plebisciti avvenire sulla base dell'unione a detta monarchia, in quanto costituzionale.
Nazionalità e libertà, nazionalità e democrazia sono, in tutto lo sviluppo dell'Europa moderna, strettamente congiunti. La Nazione nasce su base popolare e democratica; essa è la nuova materia che empie lo Stato-forma del periodo assolutistico, eredità del mondo classico, ed empiendolo, ne produce altresì la trasformazione, secondo il detto evangelico che non si può mettere il vino nuovo negli otri vecchi. Tutto lo svolgimento politico moderno consiste nel riempire sempre più la forma statale di contenuto popolare: prima del contenuto-nazione, poi nel contenuto-classe; e perciò il socialismo classista è l'erede autentico e diretto del liberalismo nazionale. Nel periodo 1900-1910 la lotta di classe ed i movimenti operai costituirono il più vero contenuto della storia nazionale italiana, e ad essi in prima linea è dovuta la resistenza materiale e morale dell'Italia durante la guerra mondiale. (Non si pretende, naturalmente dai nazionalfascisti, e neppure da certi liberali "puri" che capiscano queste verità elementari; e sì permette loro di continuare a dire che quello è stato il periodo più obbrobrioso della storia italiana).
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Oggi è di moda la dottrina dello Stato-forza, sulla quale si sono gettati, con famelicità di cervelli digiuni e vuoti, molti politicanti italiani. Ma si sa cosa succede agli affamati che improvvisamente si rimpinzano di cibo; non lo digeriscono, e spesso ne muoiono. Lo Stato è forza, va benissimo; ma che cos'è questa forza dello Stato? Non la forza puramente materiale, quella che, secondo la novissima teoria, "crea i consensi". Sono, invece, i consensi che costituiscono la vera forza. E pertanto nel processo di creazione, mantenimento e sviluppo della forza statale, rientrano le soluzioni dei maggiori problemi politici e sociali; e lo Stato che meglio risolve , all'interno tale problemi, quello altresì è il più forte all'estero. Nella Russia zarista il proletariato era contro lo Stato, e durante la guerra mondiale ne procurò il crollo; nella Germania del suffragio universale, della legislazione operaia, dei sindacati, il proletariato fu una delle più valide forze di guerra, ed ancora oggi, nella Ruhr, c'è l'anima della resistenza contro il francese invasore (l'avvocato Poincaré, perfetta tipo di piccolo borghese-nazionalista, crede invece che basti far condannare dai suoi fidi tribunali militari qualche magnate tedesco per vincere quella resistenza).
Sullo stesso orientamento della politica estera non può non influire profondamente la politica interna. Siamo d'accordo che il fine supremo dello Stato-nazione è il suo mantenimento, sviluppo e grandezza. Ma queste non sono entità puramente formali; sono valori, la cui determinazione varierà necessariamente secondo le diverse concezioni della vita e del mondo. La politica interna, con le sue lotte di partiti, rappresenterebbe, a detta del nazionalismo, l'ideologia universalistico-moralistica; la politica estera, invece, la realtà nazionale. Ma questa realtà nazionale prende essa stessa configurazione e significato proprio dalle pretese, disprezzate "ideologie". Non soltanto i fini della politica nazionale variano sotto la loro influenza, ma lo stesso calcolo delle forze - base di qualunque politica estera - ne dipende. Poiché gli stati in lotta sullo scacchiere internazionale non sono quantità puramente materiali da computare, né lettere algebriche da collocare in una equazione; sono esseri viventi di cui occorre valutare e prevedere le forze, i comportamenti, le trasformazioni. Occorre una visione dello svolgimento storico, che è quanto dire, occorre una "ideologia". I conservatori e i reazionari d'Italia, anzi di tutto il mondo sono oggi, nel duello franco-tedesco, per la Francia, perché questa risponde meglio ai loro ideali di assolutismo statale e d'immobilità sociale, ideali di cui essi desiderano e i reazionari d'Italia, anzi di tutto il mondo, nel valore permanente delle nazionalità, nella vittoria della democrazia, nell'avvenire della società capitalistico-socialista, prevede e si augura la liberazione della Germania dalla stretta francese. La direzione alla politica estera dipende da questa scelta fra due concezioni, che si applicano contemporaneamente in due diverse, anzi opposte, politiche interne.
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Sembrerà, che a questo modo di vedere si opponga l'esistenza, generalmente e abitualmente constatata, di postulati fondamentali nella politica estera di ogni Stato, postulati immutabili nel cangiare delle situazioni interne e nel succedersi degli avvenimenti storici, perché fondati essenzialmente sulla posizione geografica dello Stato. L'esistenza di questi postulati è innegabile; senonché la loro effettiva permanenza e immutabilità è dovuta al carattere estremamente generico dei postulati medesimi; tale, cioè, da non poter costituire, per sé stesso, un programma di politica estera. Questo nasce soltanto quando si determinano l'impostazione concreta ed i mezzi d'attuazione del postulato, la quale ed i quali sono, essi, diversi e variabili. Prendiamo il caso dell'Italia. E' innegabile che fine supremo e permanente della politica estera italiana è quello d'impedire che ai suoi due confini terrestri, occidentale ed orientale (o nord orientale) si formi una coalizione pericolosa ed ostile di due o più potenze. Ma per l'attuazione di questo postulato si possono immaginare - e, almeno allo stato d'abbozzo, si sono effettivamente immaginati ed in parte anche tentati in pratica, già in questo breve periodo del dopoguerra - sistemi politici differentissimi. Si può cercare l'amicizia della Grande Potenza occidentale, oggi egemonica sul continente, secondandola od almeno non opponendosi ai suoi disegni di politica europea, ed ottenendone in cambio una benevola neutralità od anche un certo appoggio nei contrasti con la potenza orientale. Si può pensare a mantenere e promuovere nei bacini danubiano e balcanico uno stato di disordine e di conflitti, un bellum omnium contra omnes, una disgregazione politica ed economica, che neutralizzi, inceppi, esaurisca la detta Potenza orientale. Si può, infine, senza politica provocatrice ed ostile né ad ovest, né ad est, cercare il contrappeso naturale ai due stati o gruppi di stati coalizzabili ai nostri danni nell'amicizia inglese, germanica, russa. Nella scelta fra questi sistemi, diversi fino ad essere opposti, rientreranno in gioco quei criteri di cui sopra si è detto: visione politica e storica generale, ideologie, e dunque politica interna.
Affrontiamo pure anche il caso della Francia, che sembra particolarmente difficile per le idee qui svolte. Sicura a nord, ad ovest, a sud, la Francia ha sul confine est una nazione forte e numerosa - sono, ancora oggi, una ventina di milioni di più dei Francesi - con la quale i rapporti e i conflitti costituiscono una tradizione secolare. Nessun dubbio, pertanto, che il problema tedesco sia fondamentale per la politica estera francese. Ma questo problema ha - s'intende, dal punto di vista francese - una soluzione unica? Nemmeno per sogno. C'è la soluzione nazionalista che, basata, in apparenza, sul presupposto della perpetua aggressività germanica, in realtà sulle pretese egemoniche francesi, invoca la perpetua occupazione renana, lo sfasciamento dell'unità tedesca - da essa ritenuta possibile e facile
e insieme la perpetua alleanza antitedesca con la Polonia e la Piccola Intesa, vassalle di Parigi, o anche, con un risorto impero absburghese.
C'è la soluzione democratica, la quale non vede - una volta risolto, sul terreno economico, il problema delle riparazioni, e messa fuori questione l'Alsazia-Lorena - nessuna ragione di conflitto insanabile tra
Francia e Germania, molte, invece, di collaborazione economica e magari politica; e, ad ogni modo, per contrappeso necessario e prudente tutela contro la strapotenza tedesca, non mira ad un'assurda distruzione dello stato germanico, e non s'ipnotizza neppure nella formazione di artificiosi blocchi orientali o in più artificiose resurrezioni di imperi dinastici crollati per decrepitezza; ma pensa invece ad una amicizia, tra eguali, della Francia coll'Inghilterra e coll'Italia.
Il problema è il medesimo: le soluzioni antitetiche. E, ancora una volta, la scelta fra di esse non può esser data senza quei criteri generali che costituiscono altresì le direttive della politica interna. Si abbia, insomma, riguardo alla formazione, mantenimento e incremento della forza statale, o agli scopi a cui questa forza debba essere applicata, la politica interna, anziché apparire un momento della politica estera, ci si presenta sullo stesso piano: esse costituiscono un circolo, con scambio perenne di elementi. E la loro coordinazione, da cui deriva la unità e l'efficacia della politica generale di uno Stato, non può fare a meno di principi generali, universali, e cioè trascendenti la concezione formale dello Stato propria del nazionalismo.
LUIGI SALVATORELLI.
Siamo lieti di offrire ai lettori il primo di una serie di articoli di politica, estera che L. Salvatorelli scrive per La Rivo1uzione Liberale.
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