MEA CULPA, MEA CULPA

Quinto al Mare, 16 Maggio.

    Signor Direttore,

    Sì: la sua analisi critica di un liberalismo italiano è veramente perfetta e definitiva. Senonché essa ha il radicale inconveniente di essere la necrologia di un personaggio mai esistito, del quale non avvenne mai - almeno allo stato vitale - la nascita, annunziata periodicamente durante una interminabile gestazione e quando questa, forse, si era già risolta in un aborto clandestino. E allora: o lei si è voluto burlare dei suoi lettori con le risorse magiche della sua immaginazione, come quel bizzarro gallese, il quale scrisse un mirabile trattato geografico dell'Atlantide; o, nella perfetta buona fede della sua giovinezza sopravvenuta nella politica italiana in questi ultimi tempi, lei ha creduto "storia" una leggenda ed ha conferito un valore storico ad una tradizione della recente preistoria dell'attuale Italia risorta.

    Ebbene io - che sono un rimasuglio di siffatta preistoria italiana e che di essa conservo buona memoria per avervi vissuto - le attesto che il liberalismo, non soltanto, ma il conservantismo, la democrazia, il socialismo e il resto (di cui lei discorre) in realtà non esistettero in Italia, negli ultimi venti o trent'anni. Tutte cose inventate da un gruppo di professionisti della politica e del giornalismo, miei contemporanei, allo scopo di giustificare e dissimulare la loro verbosa disoccupazione, la infecondità accademica delle loro giornate. Fu una colossale mistificazione, alla quale partecipammo tutti; e dopo averla escogitata finimmo col crederci anche noi - attrappés par nos pièges - il che prova soltanto che eravamo affetti da una forma di isterismo post-bellico... ed anche prebellico.

    Come le narravo, un gruppo di politicanti e di giornalisti visse in Italia -tra il 1900 e il 1922 - e si dedicò a "fare i partiti". Constatata la ben nota e antica repellenza degli italiani a costituire partiti - cioè degli aggruppamenti più o meno omogenei di cittadini operanti con coerenza verso determinate finalità e mediante metodi previsti e approvati in un loro Statuto sociale; e preso atto della necessità di uniformarsi alle consuetudini di altre Nazioni, nelle quali i partiti sono considerati indispensabili strumenti del consorzio politico; noi, en petit comité, stabilimmo di asserire ad alta voce, da quel momento in poi, che avevamo costituito dei partiti (molti partiti), senza pregiudizio di ulteriori divisioni in gruppi, tendenze, ale, sezioni autonome, ecc.

    Un siffatto scenario di cartapesta, una tale costruzione da esposizioni quadriennali ci consentiva di dare in essa le rappresentazioni di giorno, senza impegnarci a farvi dimorare le nostre coscienze, i nostri vari "sensi di responsabilità", la fede, il carattere... - il contenuto reale ed operativo, insomma, di ogni vero e rispettabile partito politico. Noi tirammo su alla svelta e gaiamente, insomma, delle cose, che ci consentissero una speculazione (nel senso filosofico, per gli uni, nel senso commerciale per gli altri, a seconda delle rispettive vocazioni) senza propriamente obbligarci a fare sul serio, ad operare dei fatti conformi alle nostre parole, a realizzare le nostre idee, ad attuare i nostri programmi.

    Così, avemmo un liberalismo, che si specializzò nel difendere la paura della libertà - detta rivoluzione. Avemmo un cattolicesimo politico di miscredenti, intento a reagire alla spiritualizzazione della politica con un accanimento di procacciantismo da far crepare di invidia il riformismo siciliano e cremonese e operosissimo nel sostituire alla Provvidenza le provvidenze dei vari ministeri "attualmente in carica". Avemmo un socialismo rivoluzionario, che si guardava bene dall'osare una rivoluzione, anche una "regia" rivoluzione, ma che in nome di questa si opponeva a qualsiasi iniziativa altrui, reputata offensiva rampogna alla propria inerzia contemplativa e che asseriva ciò che non voleva, voleva ciò che non confessava e cacciava la testa fra le gambe degli altri e persino tra le proprie, per impedirsi di camminare in qualsiasi direzione. E, finalmente, avemmo una democrazia occupatissima nello sventare qualsiasi realizzazione democratica della Nazione e dello Stato e, non avendo altro da fare in casa propria, affacendata nel fare la spola fra conservatori e socialisti per metterli d'accordo giorno per giorno, acciocché i socialisti diventassero un po' più conservatori e i conservatori alquanto socialisti: ossia, gli uni e gli altri, dei veri democratici italiani, o quasi.





    Così stavano le cose, allorché verso la fine dell'ottobre scorso alcuni cittadini animosi ed avveduti - che conoscevano bene la improvvisata inconsistenza delle nostre costruzioni, per avervi partecipato e avervi dimorato e rappresentato - inarcando le spalle e gonfiando le gote, per simulare un grande sforzo e una eroica volontà, dettero una squassata alla nostra città di stuoie, gesso e cartapesta e la mandarono in frantumi, per edificarne un'altra, forse con i medesimi materiali; al suo posto. E la lamentevole catastrofe avvenne perché i carabinieri e le guardie regie - che di solito erano di guardia ai crocicchi delle strade della nostra Calcinopoli - non "agirono" e forse dettero una mano ai demolitori.

    Persino i pompieri si mostrarono stanchi di vigilare le nostre baracche e stettero a guardare l'incendio con inerzia sorniona.

    Questa è, signor mio, tutta - o quasi - la verità.

    Io - che nei tempi dei tempi qualche calcio, per stizza o disprezzo, sferrai al baraccame demolito - non mi afflissi troppo delle sue rovine. Il fatto che si trattava di roba finita, di facciate erette dinanzi al vuoto, ha dei vantaggi: ci dispensa dal contristarci coi rimpianti e non sarà, il nostro lavoro di ricostruzione, un giorno, infastidito dalla ricerca dei materiali da utilizzare, delle fondamenta da rabberciare. No: tabula rasa!

    Almeno, questa è l'opinione di uno fatto esperto di ingegneria politica dalla lunga esperienza delle improvvisazioni di stuoie e di stucchi. Ed io sorrido con tutte le mie speranze alla coscienza dei giovani, come lei, che vedo animati da una rude sincerità, dalla volontà di costruire con pazienza, ma con solidità, la nuova casa della politica italiana: parva sed apta mihi...

    Cordialmente.

Uno di ieri l'altro.

    Vogliamo commentare parcamente, con la cordialità che resta grato dovere ospitale, la leggenda arguta di uno di ieri l'altro, che non è, ma potrebbe essere pacificamente, come il lettore ben intende, Filippo Turati o Filippo Sacchi, Fera o Ciccotti.

    Egli ci offre invero sotto forma di poetica autobiografia una bella esemplificazione di quell'Italia a cui nel saggio sul Liberalismo facevamo per l'appunto al processo; e conferma l'esattezza della nostra analisi con la sua autorità di uomo politico che fu ai primi posti e oggi è capace di provarsi brillantemente della dialettica dello storico e dell'accusatore.

    Senonché, come accade, la penitenza è forse un po' troppo compunta sino a scordare l'indulgenza verso se stessi, che anche al peccatore è dovuta. Invece a noi pare che sia una moda troppo fascista è perciò appunto troppo sventata quella di liquidare senza pietà gli anni di vita italiana (1900-1922) in cui tra tante commedie e artifici si faceva almeno della onesta amministrazione e della moderata preparazione economica, senza abbandoni mistici alla politica di Pulcinella. Chissà che l'Italia non debba rimpiangere come il buon tempo antico la vita di ieri l'altro! Noi insomma vogliamo fare a modo nostro e non rimetter su gli uomini del passato che si mostrarono impreparati, e ringraziamo il nostro ospite cortese di averci capiti sin qui, ma degli anni trascorsi vogliamo scrivere la storia non la polemica. Chiediamo il dono della serenità.