OTTIMISMO FINANZIARIO

    Vorremmo associarci al coro delle lodi con cui è stato accolto il discorso dell'on. De Stefani anche da alcuni giornali che non sono molto teneri dell'attuale regime, e lo faremmo anche più volentieri perché le idee di carattere generale, forse troppo generiche, riaffermate dal Ministro sull'indirizzo della politica tributaria e sui rapporti tra finanza ed economia, il senso di relativismo e di sano realismo che anima tutta la parte più schettamente personale del suo discorso sono in piena rispondenza coi principi che la R. L. ha sempre propugnato. Ma quello che ci rende estremamente titubanti al consenso è tutta la parte positiva del discorso e la sua stessa intonazione di fronte al fatto del disavanzo.

    Noi sapevamo di lotte quotidiane che il Ministro delle Finanze ha dovuto sostenere per indurre colleghi e dipendenti a porre un freno effettivo alle spese; avevamo sentito ripetere da molte parti che egli avesse molte volte manifestato il suo scoraggiamento di fronte all'ostinata resistenza di certe tendenze in assoluto e stridente contrasto con le necessità del bilancio, avevamo notato, come un sintomo di solidarietà in questa lotta, la forma solenne ed un po' teatrale con cui il Presidente del Consiglio avea sottoposto alla revisione il bilancio dei propri Ministri; e ci aspettavamo perciò che il discorso di Milano dovesse risuonare come una diana ammonitrice per richiamare alla realtà tutti coloro i quali si illudono di vivere ancora nel regno dell'abbondanza, in cui lo Stato possa seguitare ad essere largo dispensatore di grazie. E' naturale quindi che siamo rimasti delusi e stupiti dal tono di facile ottimismo che traspira non tanto dalle parole, quanto dalle cifre esposte dal Ministro delle Finanze.

    Di quelle cifre noi non possiamo e non vogliamo mettere in alcun modo in dubbio la più scrupolosa esattezza, come non vogliamo disconoscere - e ne siamo lietissimi - che da un anno in qua la situazione del nostro bilancio è sensibilmente migliorata.

    Ma nessuno vorrà negare che dal tempo della guerra in poi si siano moltiplicati nell'esposizione della situazione finanziaria del nostro, come di tutti i paesi belligeranti, tutti quegli elementi soggettivi, per cui la cifra del disavanzo può essere facilmente ingrossata od attenuata senza che si modifichi sensibilmente la situazione di cassa ed il rapporto delle entrate e delle spese effettive. Di tutti o quasi tutti questi elementi soggettivi il Ministro delle Finanze si è valso per diminuire la cifra del disavanzo; e forse da un punto di vista puramente tecnico egli ha avuto pienamente ragione di farlo. Così se le obbligazioni 3,50 per cento per il risarcimento dei danni di guerra sono state garantite in modo da trovare un facile collocamento, non si può non lodare il provvedimento che permette di raddoppiare la somma destinata a questo scopo nel prossimo anno, limitando il peso dell'erario a soli 76 milioni per interessi ed ammortamento. Cosi è degna d'approvazione la cancellazione dal bilancio di una gran parte dei residui di spese, approvate ma non erogate per opere pubbliche, che potranno essere rinviate ad epoca migliore.

    Assai più discutibile ci sembra il criterio di cancellare l'impostazione in bilancio di quelle somme che si spera di non dover mai pagare, ma di cui non si può escludere che un giorno o l'altro ci si chiedano tutti gli arretrati. Ma sopratutto ci sembra discutibile l'opportunità politica e morale di giovarsi in questo momento di tali mezzi e di tali criteri contabili per diffondere la convinzione che in sei mesi la previsione del disavanzo per il 1923-24 si è ridotta da 3587 a 1187 milioni. A testimoniare del buon impiego dei pieni poteri sembravano sufficienti i 900 milioni ottenuti con aumento di entrate e con diminuzione di spese effettive. L'aver voluto ingrossare questa cifra fino a portarla a due miliardi e mezzo minaccia di diffondere nel paese un senso di ottimismo e di faciloneria finanziaria assai pericoloso per il fine che si vuole raggiungere.

    Le economie, anche più che gli aumenti di entrate, si devono purtroppo ottenere con sacrifici assai gravi dei ceti più umili: i licenziamenti e le riduzioni di stipendi e di salari del personale più basso sono provvedimenti dolorosi i quali possono essere tollerati, senza lasciare strascichi pericolosi, soltanto a condizione che ne sia dimostrata la necessità indeclinabile, e che sacrifici proporzionati siano richiesti a tutte le altre classi sociali. Quando invece sia proprio il governo a diffondere l'opinione che in sei mesi si è già compiuta più dei due terzi della strada necessaria per raggiungere il pareggio, e che alla mèta si potrà ormai arrivare senza sforzi eccessivi, il peso di quei sacrifici apparirà intollerabile e le proteste dei danneggiati si faranno sempre più numerose e vivaci.





    Ma per una ragione assai più grave l'ottimismo ufficiale può diventare estremamente pericoloso. Il bilancio dello Stato è assediato, oggi più che mai, da appetiti d'ogni genere, vecchi e nuovi, e tutti ugualmente vivaci. Banche, industrie e cooperative che vogliono essere salvate a spese dell'erario, braccianti che chiedono opere pubbliche, intermediari che si valgono di questi bisogni e della loro influenza politica per iscroccare ricchissime mediazioni, smobilitati, laureati e diplomati a decine di migliaia che attendono un collocamento nei pubblici impieghi, questi e cento altri interessi in attesa, che in regime di pieni poteri trovano il mezzo di assediare i Ministri e i loro capi di gabinetto non meno che in regime parlamentare; riprenderanno oggi nuovo vigore dopo la parola confortante di Milano, che non è certo stata pronunciata per loro, ma che essi sfrutteranno ai propri fini.

    D'altra parte quella tendenza antico-romana, imperialistica, che va facendosi strada nei discorsi un po' ingenui non solo di elementi irresponsabili, ma anche di qualche Ministro, e che fa a pugni con una politica di rigide economie, troverà anch'essa nuova esca nell'ottimismo suscitato dalle parole dello stesso Ministro delle Finanze.





    Fra i discorsi allarmanti di due anni e di sei mesi or sono e la parola confortante di ieri, noi - pur convinti che un miglioramento c'è stato e che esso è anche in parte dovuto all'energia con cui si sono sapute risolvere alcune questioni annose - seguitiamo a credere agli allarmi più che alle notizie ottimiste. Per un paese che ha sopportato quattro anni di guerra, che per due anni dopo l'armistizio ha seguitato a fare una finanza da gran signore, per un paese che ha più di centodieci miliardi di debiti, noi seguitiamo a credere che non sia possibile raggiungere il pareggio senza un periodo abbastanza lungo di sacrifici durissimi. Se poi ci ingannati dovremo concludere che l'Italia è davvero un paese felice; e che dal '48 al 1824 la sua storia è destinata a ripetersi: dallo Statuto al Suffragio universale, dalla giornata di otto ore al risanamento delle finanze di guerra, tutte le conquiste che si ritenevano più difficili, saranno state raggiunte con un minimum quasi impercettibile di sforzi e di sacrifici.

GINO LUZZATO.