PER UNA BEATIFICAZIONE
Agli arcadi impenitenti ed agli imperterriti sognatori di una patria idilliaca, a tutti i buoni italiani nei quali le professioni di fede dell'onorevole Mussolini hanno ridestato sopite nostalgie e, chissà, qualche rimorso, proponiamo come tema da meditare la beatificazione del cardinale Roberto Bellarmino, della Compagnia di Gesù, celebrata solennemente domenica scorsa nella Basilica Vaticana. Non è il caso di fare delle induzioni sul significato che la Curia Romana, i cui atti non sono facilmente fortuiti, abbia voluto attribuire a questa cerimonia. Intanto, essa potrebbe servire a far riflettere un poco – se tant'è che ne fossero capaci – certe soavi anime di hegeliani da strapazzo che pullulano, oggi, come funghi da un suolo fecondo. A molti laici potrebbe servire come un invito ad approfondire il problema dell'idea politica cattolica, a molti ingenui a mostrare che la Chiesa Cattolica non è nè un sindacato, nè una camera del lavoro che il cipiglio dell'on. Mussolini basti a scuotere dalle fondamenta; infine ai molti miopi – e sono i più – ai quali un prepotente senso della nazionalità, gloria di moderni tempi, ha soffocato del tutto il senso della vastità del mondo, e che riducono il problema politico-ecclesiastico ad una questione puramente nazionale, il beato Cardinale può insegnare che, per una chiesa Cattolica, il problema è, innanzi e sopratutto, universale. Che più? Tanto poco è nuova la Chiesa a questo problema (mentre nuova a questo cimento e inesperta è questa quarta Italia dalle giovanili baldanze), che da tre secoli, da quando, fallito il sogno medioevale, le grandi linee del mondo moderno hanno cominciato ad emergere, essa l'ha risolto, e, con due grandi gesuiti, ci ha dato perfettamente elaborata, l'unica soluzione possibile dal suo punto di vista: come d'altro canto la Riforma ci dava quell'altra soluzione, cui ha arriso, per le ragioni che sappiamo, la vittoria. L'una all'altra opposta irrimediabilmente, come opposta è la visione della vita da cui procedono (noi viviamo nel compromesso), lo spirito delle due civilizzazioni che rappresentano: opposizione che, non senza ragione, taluno – e proprio su queste colonne – ha voluto drammatizzare. Per noi, non arrossiamo di confessare che l'esperienza quotidiana dello stato divino (non è tutto qui il travaglio del liberalismo, evitare le estreme conseguenze statolatre, logicamente fatali?), ci fa toccare per mano i pericoli di un troppo esaltato immanentismo, e ci fa decisamente rimpiangere le dottrine che dell'attributo della divinità facevano un privilegio esclusivo della Chiesa, la quale senza alcun dubbio, per la missione che si propone, vi ha un inoppugnabile diritto. Ma s'era promesso di lasciare in pace il significato della cerimonia di domenica, bastandoci di assaporarne l'ironia. La lezioncina davvero è buona, e la contrapposizione non potrebbe essere più felice. Alle parole dolci, alle proteste di devozione dei suoi nuovi non disinteressati amici, alla retorica di gente usa a ridurre tutto quanto a una questione di retorica, la Santa Sede risponde rifacendosi a delle solide idee, a un simbolo chiaro. Al cattivo gusto insanabile degli italiani rinnovati, che per intanto non che la loro anima, non hanno saputo rinnovare neppure il vecchio scenario convenzionale di tutte le manifestazioni patriottiche dal '70 in qua, e si sono affrettati di accettare, se non a parole coi fatti, senza beneficio di inventario la preziosa eredità di tutti i ferravecchi della terza Italia massonica, nume tutelare Carducci tonante poeta della romanità (e ci hanno regalato anche il Natale di Roma festa nazionale), all'Italia oggi fascista che, cinta la testa dell'elmo di Scipio s'asciuga una furtiva lagrimetta cattolica – la chiesa cattolica risponde ritirandosi in mezzo ai vestigi del suo gran secolo, e celebra ieri Filippo Neri, oggi Roberto Bellarmino. Cosi Roma barocca rimane tutta al Pontefice: le chiese della Controriforma sovraccariche di ori e di marmi, dove ti vien fatto d'immaginare folle multicolori ed esotiche e ti par d'udire l'eco delle solenni liturgie e delle prediche infiammate; le cappelle dalle architetture inquietanti e prodigiose, fatte, sembra, per rispondere all'angoscia di chi, perduto, pensa talvolta che nella loro penombra potrebbe, anche oggi, rinnovare l'esperienza di S. Ignazio; le statue campate in aria dai gesti drammatici e violenti, sconvolte non sai se da un perpetuo vento o da un tremito interiore; un mondo di pietra creato, si direbbe, da un bisogno insaziabile di dire, di esprimere, di realizzare una concezione superba ed impossibile – ed infine la gloria della Cattolicità trionfante: San Pietro. Italia anche questa, profondamente italiana, che vuole sfuggire al monopolio e non si piega a salire le scalee dell'Altar della Patria: e quando non ci si rassegni agli schemi ed ai luoghi comuni, e non si vuol saltar a piè pari due secoli di tradizione italiana appiccicandovi sopra l'etichetta di età nera e di età barbara, è in questa Italia che ci s'imbatte. Un'Italia aristocratica che, se oggi si è chiusa in disinteressato silenzio, non vuol saperne di essere liquidata, e, di tempo in tempo, sa rompere il mutismo per impartire una lezioncina di storia. La lezione fa onore al maestro: i rinnovatori d'Italia farebbero bene, infatuati di aristocrazia, a meditarla, e a riconoscersi dei poveri scolaretti di fronte a un simile maestro. Dovrebbero anche riflettere alla china su cui si sono messi: chè, a solleticare cosi l'estetismo innato degli italiani (sembra che su di esso, come sull'amore per la teatralità e la coreografia, facciano più che su ogni cosa affidamento), potrebbe darsi che questi antichi dilettanti si raffinassero in breve tanto da non contentarsi più delle feste che i padroni attuali loro provvedono quotidianamente, spettacoli dozzinali e un poco barbari: quel giorno non sarebbero capaci – anche soltanto per puro estetismo – di invaghirsi d'un tratto di quell'autorità ieri deprecata, che ha saputo, e non è il merito suo minore, salvare il buon gusto d'altri tempi, e mantenere in mezzo a mondane vicende, una linea impeccabile, quello che veramente a noi piace chiamare uno stile? TIMON.
Questo saggio di un cattolico, amico di R. L., ci sembra felicissimo e perfettamente concorde con la nostra critica fin dove le considerazioni riguardano lo stile e le psicologie: ma c'è implicita una riserva metafisica che noi non consentiamo di accettare per motivi che i nostri lettori conoscono. Teniamo valido tuttavia il parallelo tra Fascismo e Chiesa nella sua sostanza artistica ed ironica. (N. d. R.).
|