CONTRADDIZIONI LIBERISTE
Luigi Einaudi non è un formalista e vorrà ammettere che uno scolaro polemizzi con un Maestro. In un articolo che non rinnego rilevai alcune palesi contraddizioni degli economisti liberali del movimento operaio. Il Prof. Einaudi, non entrando in merito, sollevò una eccezione pregiudiziale in linea di metodo che si compendiava in un pedagogico "fuori i testi!". Rispondo: 1) Contraddizione nel voler applicare i principi della libertà di organizzazione e di concorrenza ad un movimento che, come quello sindacale, trova la sua base, il suo elemento vitale, nello sforzo costante di eliminare la concorrenza tra i membri detentori della forza-lavoro. Cito un chiaro economista che si professa liberale: Giuseppe Prato. Dopo aver ricordato come l'economia classica osteggiò in un primo tempo le organizzazioni operaie (la documentazione si può trovare per esteso nel volume dei Webb: Industrial Democracy) egli si arresta in una posizione intermedia, difficilmente sostenibile, affermando che colla creazione delle leghe operaie, siano pure esse in concorrenza tra loro - concorrenza del resto augurabile - viene assicurata la eguaglianza in posizione strategica dei due contraenti, offerenti e datori di lavoro. Dimenticando come ormai, nel campo dei datori di lavoro, anche limitandosi al nostro paese, la tendenza unitaria ha trionfato. Si ricordi il caso Mazzonis! Non mi soffermerò sulle contraddizioni interne di questo scrittore (vedi ad es. i due articoli in "Gerarchia", 25 Settembre 1922 e Febbraio 1923) che dopo aver combattuto aspramente per più di dieci anni (Il protezionismo operaio: Torino, 1910; "Sulle premesse economiche del contratto di lavoro", Bocca ed., Torino 1916, ecc.) le aristocrazie sindacali socialiste e non sempre a torto, patrocina ora una sorta di sindacalismo di élites che ne costituirebbe più che un classico doppione. Lamenta che il fascismo assorba le masse senza una "adeguata selezione". "Il peso morto - egli dice - di codesta turba avventizia potrebbe riserbare alla eletta schiera suscitatrice e guidatrice della rivolta ideale delle origini, amare delusioni e tristi sorprese". Il Prato sembra non comprendere che legge immanente del sindacato è di tendere ad assorbire tutti gli elementi della categoria. Come si fa d'altronde a rifiutarne una parte, se il rifiutarla significa scavarsi colle proprie mani la fossa o nominarsi i sicuri successori? Il sindacato ha da essere necessariamente aperto a tutti, necessariamente democratico, se vuole ottenere un qualche effetto nel campo economico. Il Cabiati insiste su questo punto, con copia di argomenti, da più di quindici anni, e le esperienze attuali non sembrano dargli torto. Il dire, come fa il Prato, che "l'organizzazione operaia agogna continuamente, ma non raggiunge mai, per le forze inibitrici spontanee sprigionate dalla sua stessa azione, un vero monopolio..." (art. cit. pag. 495) è verità sacrosanta. Ma il Prof. Prato mi insegna che unità non significa sempre monopolio; il quale ultimo, tutto sommato, appare irraggiungibile stabilmente nel regime attuale. Insomma la questione non sta tanto tra concorrenza e monopolio, ma tra concorrenza ed unità nel moto operaio. E del resto la pratica lo conferma a chiare note. Una concorrenza reale tra leghe simili non segue che in periodi di crisi, e più che concorrenza rappresenta l'applicazione del classico "levati di qui, ci vo' star io!" 2) Contraddizione nel negare il fatto lotta di classi predicando la collaborazione, l'intesa tra le medesime, per poi gridare al "crucifige" non appena il verbo collaborazionista riceve applicazione. Ricordo due articoli del Prof. Einaudi che mi fecero molta impressione ("Corriere della Sera": 11-9-1922 e 18-9-1922). Nel primo si negava la lotta di classe parto della "dottrinella marxista" e si domandava: "Quanti fascisti e bastonatori d'oggi sono i figli degli "evangelici" socialisti di ieri? E non è ridicola, dinanzi a questi fatti, la celebrazione del mistero della lotta di classe, tra due classi l'una contro l'altra armate sino allo sterminio?". Ma una settimana dopo il mistero si svelava e il Prof. Einaudi era costretto a scendere in campo contro il collaborazionismo fascista pei fatti di Livorno (concordato tra fascisti e cantiere Orlando), di Siena e di Budrio, osservando amaramente: "Non sembra che la nuova collaborazione (chi mai la invocò? n. d. s.) abbia sostanzialmente connotati molto diversi da quelli della vecchia lotta di classe. Quando i fascisti prendono le parti di un certo gruppo operaio o contadino, se l'industriale o l'agricoltore non cede subito, sono botte da orbi". Naturalmente: chi proclama di porre a base della propria azione (sindacalismo fascista) il principio della subordinazione degli interessi della categoria o della classe a quelli della Nazione, una volta entrato in lotta non può ammettere opposizione pel fatto stesso di rappresentare l'interesse nazionale! Come si rimpiangerà il gretto spirito bottegaio delle organizzazioni socialiste che almeno avevano la franchezza di scendere sul terreno armate del loro interesse particolare! Ma v'è di più. Il Prof. Einaudi è andato denunciando da molti anni i casi di accordi tra categorie operaie e categorie padronali (ad es. siderurgici) per lo sfruttamento della collettività attraverso sussidi, tariffe doganali, ecc., ecc. Io sostengo che questi casi di innegabile "parassitismo" sono fatali laddove trionfa una concezione puramente collaborazionista dei rapporti sociali. Se si nega il legame e la solidarietà di classe, se si fa della categoria e dell'individuo una forza a sé, avulsa dalla massa organizzata, se si riconosce che ogni categoria agisce in base ai suoi particolari interessi, come negare che all'atto pratico le due parti, le due organizzazioni un tempo contrastanti, non si accorderanno per sfruttare la collettività? Ma questa non è collaborazione, si dirà. Si, è collaborazione, anzi è la ragione prima se non unica della collaborazione. 3) Non ho mai pensato né scritto - e quindi sarebbe difficile darne prova coi testi, se si tolgono il Bastiat, il De Molinari, il Leroy-Beaulieu, vale a dire autentici economisti liberali sia pure classificati tra i cosiddetti ottimisti - che la scienza economica si fonda sul "dogma" della libera concorrenza, del libero giuoco delle forze economiche. Al contrario! io ho parlato di economisti liberali che basano la scienza economica su tale dogma... Certo, da un punto di vista astratto, in economia pura, esiste ed una economia e un prezzo di concorrenza ed una economia ed un prezzo di monopolio, di fronte ai quali uno scienziato deve mantenersi indifferente. Pareto, ad es., ha esaminato, nel suo Cours d'Ec. Pol. tanto famoso, una economia collettivistica, indipendentemente da ogni giudizio di merito. Ma siccome la scienza economica e soprattutto gli economisti non astraggono dalla realtà, ed anzi tendono, com'è logico, ad applicare le resultanze dei loro studi teorici alla pratica, e siccome essi credono (parlo ora dei liberali), in base anche a dimostrazioni che sembrano rigorosissime, che il principio della libera concorrenza valga generalmente ad assicurare il massimo edonistico collettivo, così in pratica, in economia applicata - della quale appunto parlavamo, - sono portati a ritenere scientifico quel principio ch'essi ritengono più utile alla collettività condannando come antiscientifico quello contrario. Non sarebbe però male riprendere in esame la affermazione, che troppo spesso tende ad autonomizzarsi dalla sua fonte primitiva (dimostrazione) e quindi a tradursi in dogma, della pretesa superiorità in tutti o quasi tutti i casi, dal punto di vista dell'interesse della collettività, del regime di concorrenza su quello di monopolio. Almeno in qualche caso, e qui si potrebbero citare il Barone e il Pantaleoni, sembra che il principio sia impugnabile. Troppo spesso si è disprezzato un elemento fondamentale, vale a dire il costo della concorrenza, la perdita secca che ne risente la società in energie, in fattori produttivi, in efficienza e dimensioni delle imprese. (Già assai spesso la concorrenza si riduce ad un mito, proprio laddove più ci si illude di riscontrarla). 4) L'uso, tanto biasimatomi, della formula "libero giuoco delle forze economiche" che costituisce né più né meno che il sinonimo della formula "libera concorrenza" e che io usavo in relazione agli economisti liberali, significava l’anti-interventismo statale in un regime fondato sul principio della concorrenza applicato ad individui e forze semoventesi in base al loro particolare interesse. Le frasi "corso naturale delle cose", "ordine naturale", "libera concorrenza", "leggi naturali", si rintracciano ad ogni pié sospinto in senso affermativo su pei libri degli economisti classici che almeno in parte ho studiati. Dice ad es. il Say (Cours complet d'Ec. Pol. pratique, Bruxelles, 1840, pag. 261): "C'est des efforts auxquels chacun se livre dans sa sphère, selon les projets dont il a conçu le plan, selon la manière dont il en poursuit l’execution, que nait l’ordre général. Au milieu d'une libre concurrence mieux un industrieux défend ses intéréts privés, et mieux il sert la fortune nationale. Toute interposition d'une autorité nuit au but, qui est de produire, parce que nulle autorité ne peut s'y connaître assi bien que le particulier". Tanto è convinto J. B. Say della grande efficacia del libero giuoco delle forze economiche, che talvolta il lettore (ad es. pag. 182, op. cit.) è portato a considerare il contrabbando una funzione socialmente utilissima. Così pure nel Say si parla sovente di leggi naturali alle quali non ci si può ribellare (pag. 2, op. cit.). Così ad es. per la proprietà privata. E più innanzi: "Or c'est la connaissance de ces lois naturelles et constantes sans lesquelles les sociétés humaines ne sauraient subsister, qui constitue cette nouvelle science que l'on a designée par le nom d'économie politique". E a pag. 6: "Quiconque agit au dépit des lois de la nature n'épreuve que des désastres". E nel Traité d'Ec. Pol. (ed. italiana in Bibl. dell'"Economista", pag. 107): "L'interesse personale è il miglior giudice nella scelta della produzione". D'accordo collo Smith riteneva che il vantaggio economico dell'individuo coincidesse con quello della società. (Qui mi sembra che il dott. Riccardo Schüller non vedesse sempre giusto). E per venire infine ad un economista liberale moderno, il Leroy-Beaulieu, ecco come parla della concorrenza: "La concorrenza è un fenomeno economico per eccellenza: si è potuto dire che, senza di essa, la Economia Politica, come scienza, non esisterebbe". (Ho allora il diritto di affermare che, almeno per un economista liberale – vi sono poi il Bastiat e il De Molinari – principio fondamentale della scienza economica è la libera concorrenza?). E più oltre, sempre il L. B. : "La concorrenza è il solo regime che sia normale, il solo che assicuri il progresso indefinito e regolare". (Trattato di Economia Politica, trad. in Bibl. dell'"Economista", pagg. 437 e 472, I vol.). Qui mi fermo, per due ragioni. Primo, perché a mio avviso il Say è il capo più autentico della scuola liberale in economia, oggi a torto troppo dimenticato; secondo, perché spero di aver mostrato al Sen. Einaudi che scrivendo l'articolo incriminato avevo presenti i testi da lui invocati. CARLO ROSSELLI
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