LETTERE SCOLASTICHE

V (e ultima)


La scuola del popolo

    Caro Gobetti,

    Fino a non molto tempo addietro la questione del miglioramento della scuola elementare in Italia veniva intesa praticamente come "questione del miglioramento della scuola già esistente" e, più praticamente ancora, come "questione del miglioramento economico e giuridico dei maestri insegnanti nella scuola già esistente". In tempo più recente alla preoccupazione del miglioramento economico e giuridico, per opera di alcuni benemeriti studiosi del problema, si è unita, per non dir sostituita, quella del miglioramento intellettuale, o, altrimenti, della cultura del maestro. Ma sempre la questione è stata dalla comune posta e intesa, ripeto, come "miglioramento alla scuola esistente di fatto in Italia".

    Invece, come da parecchio tempo anche qui si va predicando, benché meno utilmente, da qualcuno in Italia, per ora e per un pezzo, la questione non è tanto quella di migliorare la scuola dove già esiste, quanto quella di creare la scuola elementare dove ancora non esiste; la questione non è tanto di migliorare le condizioni economiche giuridiche intellettuali del maestro insegnante nella scuola attuale, quanto di dare alla nuova scuola, (e in parte anche all'antica), il suo maestro stabile devoto fedele.

    Per una buona metà dell'Italia, a esser molto ottimisti, la scuola elementare non esiste: il mezzodì agricolo non ha ancora la sua scuola elementare: non ce l'ha in modo assoluto il mezzodì agricolo del Sud (persistenza e aggravamento dell'analfabetismo assoluto) non ce l'ha in modo relativo il mezzodì agricolo del Nord (classi riunite, orari ridotti, calendari assurdi, mutamenti di insegnanti, analfabetismo relativo). A codesto mezzogiorno settentrionale e meridionale non si potrà mai dare una scuola, se a questa scuola non si riesce a dare il maestro suo; il maestro di tipo moderno, di tipo governativo, fatto a macchina nella normale regia o pareggiata, "equiparato" nella carriera e nello stipendio all'"impiegato governativo", non è il maestro di questa scuola; "migliorate" questo maestro finché volete, raddoppiategli lo stipendio, riformategli il Monte pensioni, fatelo movibile entro la regione anziché entro la provincia, insegnategli il latino in una normale liberale e umanistica, voi avrete aggravato lo stato di cose; un maestro ben pagato, ben "garantito", bene addottrinato, sarà, nella scuola del contadino basilisco o camuno, uno spostato; non ci andrà, se ci va non ci rimarrà, se ci rimarrà ne sarà sempre assente con lo spirito e con l'affetto.

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    Il problema posto così nel senso di "dare alla scuola rurale il suo maestro", o, più modestamente, di "assicurare ai borghi calabresi e alle frazioni valtellinesi il maestro stabile e devoto" non si può risolvere altrimenti che tornando al sistema dell'"assunzione di personale del luogo indipendentemente dal titolo legale".

    Io cominciai a persuadermi di questo, stando, per ragioni d'ufficio, in paesi del mezzodì, in paesi dei due mezzodì, e sempre più mi convinsi della bontà di questa idea ragionando di queste cose con persone innamorate di questi problemi ed esperte di questi luoghi, purché naturalmente non fossero impiegati degli uffici provinciali scolastici.

    Ognuno che sia stato nel mezzodì con occhi aperti a queste cose sa dell'esistenza della mastra (si chiama mastra anche se è un mastro, come al reggimento la lavandaia è la lavandaia anche quando è un lavandaio): questa mastra non è che la persona la quale, con o senza titolo, più senza che con, tiene una scoletta privata che va dall'asilo alle ultime classi elementari. L'istituzione della mastra è dai più tenuta in non cale e considerata quasi come un documento della miseria scolastica locale: le autorità, naturalmente, la ignorano o la combattono, invece a me è sempre parso che tale istituzione meritasse non il disprezzo o l'ostilità, ma la attenzione più viva di quanti si occupano di questi problemi: anzi ora io ritengo che l'istituzione della "mastra" sia da considerarsi in senso largo come la base su cui fondare l'edificio della scuola popolare dei mezzodì, come l'albero selvatico e nativo su cui innestare il pollone più domestico e fecondo.





    Anche nel Nord accade, o almeno accadeva, qualcosa di simile: assai numerosi erano specie nelle scuole di piccoli e medi comuni rurali, i maestri pervenuti all'insegnamento senza aver fatto la scuola normale, muniti d'un titolo di studio anche modestissimo, abilitati poi in seguito; né mancavano gli insegnanti provvisori non "abilitati" del tutto. Le autorità scolastiche, dopo l'approvazione della legge Daneo-Credaro sono state inesorabili contro questi irregolari dell'insegnamento; io, facendo qui in Brescia un'inchiesta di questo genere, ho udito dichiararmi con fierezza e orgoglio dal factotum di questo ufficio scolastico che "avanti l'applicazione della legge vi erano in provincia di Brescia ben settanta maestre senza titolo, a legge applicata non ce n'era più neanche una, se non forse qualcuna superstite annidata in qualche spregiabile comune autonomo"; proseguendo l'inchiesta presso persone non "impiegate", sebbene anch'esse colte e ragionevoli, mi convinsi che l'eliminazione degli irregolari non aveva per nulla migliorate le sorti della scuola rurale, né della Bassa né dell'Alta Bresciana, ché anzi le nuove maestrine prodotte dalle normali di Cremona o di Brescia o di Bergamo erano sì graziose, ben calzate, bene incappellinate, ma, troppo spesso, l'umile "tollerata" di prima, nata e cresciuta nel luogo, che si reputava aunobilita da quell'ufficio e ci sofferse tanto quando ne fu esclusa, "faceva la scuola" assai meglio della "signorina" che va e viene col tram, che manca spesso e volentieri, e che si cambia tutti gli anni o magari due volte l'anno.

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    E di fatto tutte le volte che nel campo della scuola elementare rurale si è voluto fare in Italia qualcosa di buono e di concreto per dar la scuola a chi non l'aveva, anche recentissimamente s'è dovuto venire, o tornare, a questo dell'assunzione del personale insegnante indipendentemente dal titolo di studio. Nell'Opera delle Scuole pei contadini dell'Agro Romano "l'assunzione degli insegnanti è libera e volontaria" e insieme coi diplomati vi sono altri insegnanti "non" ancora forniti di diploma, i quali se lo sono procurato... studiando e compiendo il loro tirocinio, utilmente, nelle scuole per i contadini...; altri i quali non posseggono il diploma, ma hanno una sufficiente cultura avendo frequentato, quasi tutti senza compierli, i corsi secondari... ve n'ha alcuni che provengono dalla carriera ecclesiastica". Nell'Opera contro l'analfabetismo, istituita col D. L. del 28 agosto 192l, gli insegnanti sono scelti dalle Associazioni delegate indipendentemente dal titolo di studio, ed è anche per questa libertà di scelta che l’Associazione per il Mezzogiorno, delegata per Sicilia, Sardegna e Calabria, riesce a impiantare in dieci giorni una scuola che lo Stato con i suoi organi non avrebbe messo in piedi neanche in dieci anni. Il disegno di legge che Benedetto Croce aveva allestito per mantenere, anzi, per restituire alle popolazioni della Valle d'Aosta e delle Valli Valdesi la loro scuola elementare progressivamente rovinata dalla routine e dalla uniformità burocratica, conteneva appunto, fra le altre, una disposizione la quale permetteva alle autorità di assumere all'insegnamento elementare nei comuni dei circondari di Aosta e Pinerolo "persone del luogo anche non abilitate".

    Tre esempi, uno per l'estremo Nord, uno per il Centro, uno per l'estremo Sud, da cui risulta che necessariamente, per ora, in Italia, se qualcosa si vuol fare di concreto per la scuola del contadino, si deve venire, anzi tornare, al sistema ch'io dico della "assunzione locale, e revocabile, se si vuole, di personale non abilitato".

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    Eh! lo so; la prevedo l’obbiezione che molti mi faranno. La coltura di questa gente. Renato Fucini. "I maestri della vecchia guardia, i maestri improvvisati subito dopo il 1859, quando venne la frenesia di aprire scuole popolari, quando non c'erano né maestri né scuole normali; uno zuccone, un idiota qualunque, basta che sapesse scrivere la sua firma senza metterci troppi spropositi, era braccato come un Pico della Mirandola"; i maestri come quello che dei suoi scolari zucconi diceva: "Ènno solidali, ènno come l’ova: più si cociano e più induriscano". Lo so bene, ma il titolo a che serve? era bene laureato, era bene avvocato il sindaco di quel comune pistoiese, di cui parla ancora il Fucini, il quale, volendo dire che nella popolazione non c'era più l'accordo d'un tempo, diceva "che dopo l'affare della fonte, c'è entrata la dissenteria, e non è possibile metterli d'accordo".

    Scherzi a parte, oramai è "pacifico" che il titolo non vuol dir niente: abbiamo avuto cinquant'anni di "titolomania", devono venirne cinquanta di "titolofobia". Del resto dal '59 in qua, volere o no, il livello della coltura media o poco o molto si è innalzato, e non è difficile ora trovare in tutti i comuni rurali persone che, anche senza aver la patente, sono in grado, se ben dirette e ben vigilate, di tener bene una classe elementare nel loro paese. Si tratterà, se mai, questi insegnanti, non solo di assumerli ma anche di guidarli, di migliorarli (come del resto van facendo la Direzione delle Scuole dell'Agro, e l'Associazione pel Mezzogiorno) con visite, suggerimenti, corsi di perfezionamento a base, non di conferenze pedagogiche, ma di lezioni modello, libri, ecc.





    Anzi questa potrebbe divenire la scuola normale ideale, la "scuola in azione", la scuola del "docendo discitur": l'unica scuola capace di darti i maestri come Arcangelo Verta, "pastore di pecore fino a dieci o dodici anni... allievo di chiunque potesse insegnargli qualche cosa", poi maestro, poi emigrato, poi soldato al fronte, mutilato, poi ancora maestro, "maestro in casa propria, colla lavagna rotta e i banchi preistorici... per tutto arredo scolastico", quindi sognatore della "scuola bella" per il suo villaggio di capre, e finalmente creatore, con l'aiuto della brava gente, della Scuola Torino di Sant'Angelo di Cetraro.

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    Del resto, se anche non persuadono questi ragionamenti e questi esempi, bisogna farsi capaci di questo: che per dare al mezzodì della bassa e dell'alta Italia la sua scuola rurale, per ora, si deve passar di lì: assumere in luogo e pro tempore personale non abilitato; se non altro per questa ragione che, se anche fosse possibile trovare oggi tutti gli insegnanti abilitati che occorrono per tutte le classi che si devono creare nei vari Sant'Angelo di Cetraro e Fumero di Sondalo delle varie Calabrie e delle varie Valtelline d'Italia, non ci sarebbe, con gli stipendi attuali, nessun bilancio di nessun ufficio scolastico né provinciale né regionale capace, né per oggi, né per domani, di reggere alla spesa necessaria.

    E questa del risparmio che si potrà realizzare col sistema ch'io predico sarà forse, in un avvenire neanche lontano, la ragione che farà adottare, anche su scala molto vasta, il sistema stesso.

    Il materialismo storico e la paura del fallimento fanno, alle volte, di questi miracoli.

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    Ed ecco io torno, al momento di concludere, alla mia idea: creare una scuola libera. La mia idea fissa, dirai tu, un poco indulgente e un poco spazientito. La tua idea fissa, sia pure, ma tu, caro Gobetti, hai torto di sorriderne e di spazientirti.

    Io ho sempre creduto, e l'ho detto anche su R. L., che la libertà della scuola è la sintesi di tutte le libertà, e l'azione per questa scuola libera è la sintesi dell'azione liberale; tu, allora, non hai detto di no. Ho detto più di recente che la reazione della scuola libera locale interessata, alla scuola-laico-retorica ribattezzata in scuola nazionale sarà una delle forze su cui si potrà contare per la riscossa contro il fascismo predominante; non capisco perché ora queste affermazioni non possano più avere il carattere di verità e di attualità che avevano prima. Anzi, se il colpo di stato fascista è in parte, come ho dimostrato e ammesso, un rafforzamento del regime vecchio, una "riacutizzazione" di quella dittatura cronica che ci deliziava da decenni, io credo addirittura che quella che prima era una verità adesso sia la verità; e che l'azione per la scuola libera, che prima poteva ancora parere o accademica o differibile, adesso sia divenuta praticissima e improrogabile.

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    Ci sono molti in questo momento in Italia i quali ripensano ai tempi e ai luoghi in cui una maggiore o minor parte del nostro paese era sotto lo straniero, sotto "gli Alemanni" come diciamo in Piemonte; ebbene ripensiamo anche noi a quei tempi, e ricordiamoci di quel che fosse la scuola, libera e locale, per quelle minoranze di Italiani viventi in servitù; scuole comunali di Trieste, scuole della Lega Nazionale in Istria e via; pensiamo, sempre senza uscire dai nostri confini, a quello che è divenuta la questione della scuola nella cimose mistilingui del Trentino e della Venezia Giulia tanto per gli allogeni che per gli italiani; e, senza uscire dal nostro Piemonte, pensa a quello che è ridiventata la questione della scuola elementare per i franco-italiani di Valle d'Aosta.

    Ora, facciamo conto che esistano adesso in Italia delle minoranze, che, per mutate, o peggiorate condizioni politiche, vivano, o si presumano di vivere (che è lo stesso) in istato di minorata libertà, e che siano, o si sentano, tra le maggioranze od ostili o inerti, delle vere e proprie minoranze allogene, se non per lingua, certo per origini etniche o sociali e per finalità ideali; ebbene, quale questione più urgente per codeste minoranze che quella di organizzarsi la propria scuola, per foggiarsi, o affinarsi, in essa la propria coscienza, e prepararsi a conquistare il diritto di vivere la vita propria nella compagine statale? Perché io sono così entusiasta dell'opera che Lombardo Radice e Isnardi van facendo da due anni in Sicilia ed in Calabria, lavorandovi per conto dell'Associazione del Mezzogiorno e per delega dello Stato a crearvi la scuola elementare in regime di libertà e di regionalismo? Specialmente per questo; perché quel Siciliano fedele alla Sicilia e quel Piemontese innamorato della Calabria, lavorano insomma per dare a quelle due isole, o meglio ai contadini di quelle due isole una coscienza loro, una personalità loro, senza della quale non potranno mai vivere la loro vita (conquistar la loro libertà) nella compagine nazionale.

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    Fino alla vigilia del colpo di stato fascista, che per me, è entrato nella sua fase risolutiva col ministero Bonomi, dopo le elezioni del '21, io duravo fatica a credere alla fatalità e alla realità della "lotta di classe"; adesso, dopo il colpo, ci credo, perché, mentre prima la udivo soltanto predicare sconclusionatamente nei comizi e nei giornali, adesso io l'ho vista combattuta effettivamente per le strade e per tutti gli organi della vita pubblica. Ma dai recenti casi io ho ricavato anche un altro insegnamento, oltre quello della realtà e fatalità della lotta di classe: ho inteso cioè che menare la predica della lotta di classe era venuta sempre dalla parte del "proletariato" alla resa dei conti il regolamento di codesta lotta, quello serio, è venuto dalla parte della "borghesia". E perché mai, mi son domandato, alla scuola della "lotta di classe" è stata proprio la borghesia quella che ha fatto maggior profitto, mentre quelli del "proletariato" non appresero bene quell'arte? Le ragioni saranno molte, mi son risposto, ma la ragione mi pare debba essere questa: che una borghesia in Italia, o bene o male, esisteva, un proletariato, no; la borghesia italiana dal '48 al '18, attraverso una rivoluzione e una guerra, con una mentalità teoricamente anticlassista, aveva acquistato figura propria e autonoma coscienza di classe: un proletariato italiano, in cinquant'anni di predicazione classista e in venti di pratica collaborazionista, non s'era potuto creare.





    In Italia, la prova chiara e lampante se n'è avuta ora, nella crisi fascista, non esiste il proletario, esiste solamente il "popolano". Siamo ancora là: al popolano che, nelle convulsioni politiche o guerresche, segue il borghese, come lo scudiero il cavaliere, dividendone i rischi senza comprenderne gli ideali; al popolano che, al tempo delle sette e delle congiure e delle occupazioni, accoltellava "l’alemanno" nei fossi di Alessandria o nei trivi di Livorno, come, dopo l'unità, andava a caccia di "polizzi", la notte, lungo le rive di Porto Corsini.

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    Per un pezzo io ho creduto che codesta figura del "proletario" non ci fosse, né da noi né fuori, ritenendo che non ci potesse essere in natura un "proletario"; e pensavo che, essendo la borghesia una classe "a ruoli aperti", a mano a mano che dall'humus della plebe qualcuno si sollevava per ricchezza di danaro o di cultura, questo qualcuno subito venisse naturalmente ad essere collocato nella borghesia, che era, in sostanza, la classe "omnibus", che, anzi, non era una classe ma era la nazione.

    Questo l'ho creduto sino a ieri: oggi non lo credo più. Vedendo il fascismo all'opera, e cogliendo, nei giorni del colpo di stato, non le parole, che poco si parlava allora, ma le espressioni dei volti intorno a me, io ho avuto netta la sensazione, anzi la visione, che la "borghesia" non era la nazione ma era una classe, cioè un individuo sociale con una sua anima, con una sua maschera, con un suo volere, con un suo parlare; e che questa persona "sociale", e forse anche "etnica" non era larga e invitante, e accogliente, ma era, adesso, esclusiva e rinchiusa, era "o con o contro di noi". E contro di lei, l'altra classe, il quarto stato non resistette perché non esisteva: o, per lo meno, se esisteva, era ancora qualcosa di incerto, di amorfo, di nebuloso.

    Ma quello che non è, sarà, quello che è amorfo e nebuloso piglierà forma e consistenza, in un domani più o meno lontano; è la legge: la borghesia ha trovato se stessa quando fu stretta alla gola, non dico dal proletariato, ma dal "popolo" travagliato dalla gestazione del proletariato; il proletariato troverà se stesso sotto la pressione della borghesia infellonita.

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    E qui le vie, almeno teoricamente, sono due: o il perdurare dell'"infellonimento", cioè la persecuzione, o il riprendersi, anzi l'iniziarsi dell'apostolato, dell'educazione. In Italia alla possibilità di una persecuzione lunga, sapiente e sistematica d'una razza contro un'altra, d'una classe o d'una credenza contro un'altra classe o un'altra fede, io ci credo poco; ad ogni modo staremo a vedere. Più credo nella necessità di battere la seconda via, quella dell'educazione. E per questo fine, fra i mezzi più acconci, tu non mi vorrai negare che uno dei più acconci sia la scuola, e che tanto più acconcio torni questo mezzo, quanto meno aperte sono, in regime di non libertà, le vie che a te paiono maestre, della stampa e della lotta politica.

    Se un proletariato in Italia non c'é, ma se c'è invece un "popolo" sempre più inclinato a diventar "borghesia minuta", una delle ragioni va anche cercata nel fatto che in Italia non c'è stata, nonché una scuola del proletariato, neanche una scuola del popolo. E se per il "popolo", e anche per la borghesia, in fondo, e anche per l'Italia in sostanza, è bene che da questo popolo, di fronte a questa borghesia si esprima questo proletariato, uno dei mezzi per ciò sarà anche la creazione di questa scuola del proletario, dell'operaio, del contadino, di cui son venuto dicendo in queste lettere.

    Senza perdere d'occhio tutto il resto, io credo si dovrebbe subito tener in mira anche questo punto della scuola. Anzi, siccome per ora, e forse, per un pezzo a tutto il resto poco si potrà badare, io credo che converrebbe cementare ora tutte le nostre attività nella creazione di questa scuola, locale, tecnica, interessata, libera.

    E la libertà? mi dici tu? Come esser così ingenui da attendersi una libertà da chi toglie la libertà? Al che io potrei anche rispondere, ritorcendo, che è forse troppo aprioristico, ritenere che possa togliere la libertà chi par disposto a concedere una libertà. Ma queste non sarebbero che inutili schermaglie di parole. Io dico, e ho finito: poniamo pure il caso della più perfetta eclissi di libertà, perché una nostra unione per una nostra scuola non potrebbe divenire il collegium licitum mediante il quale ottenere le immunità necessarie per lavorare, come intendiamo noi, alteri seculo? Se in quest'altro medio-evo accanto alla chiesa sorsero le scuole, alcune delle quali furono anche le prime scuole del popolo, perché, in questo nuovo medio-evo, all'ombra della scuola non si potrebbe tener in vita la nostra Chiesa?

AUGUSTO MONTI.