IL LIBERALISMO IN ITALIA

Concetto e sviluppi

    Si potrebbe cercare, senza intenzione riposta d'arguzia, la più grave deficienza del liberalismo italiano nella mancanza di un partito politico francamente conservatore.

    Senza conservatori e senza rivoluzionari l'Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico. Di fronte al pericolo del clericalismo ora reale, ora immaginato da fantasie garibaldine, anche i retrivi si sono ridotti ad amoreggiare col radicalismo.

    Prima dell'assunzione della Sinistra al potere, la lotta per l'indipendenza nazionale e il difficile problema del risanamento finanziario contrastavano contro ogni serio proposito di preparare le condizioni favorevoli per la lotta politica. La Destra era praticamente un governo di conciliazione e di concentrazione nazionale, e La Farina con la sua lega politica non si mostrava più timido del Partito d'azione di fronte alle riforme radicali.

    Invece dopo il '70 la pratica unanime di questo radicalismo nazionalista si convertiva in un germe di dissoluzione per i nostri costumi politici.

    "Il conservatorismo - secondo il pensiero del Bluntschli - ha il suo ufficio naturale dopo una rivoluzione e dopo una trasformazione politica di un popolo, quando si tratta di mantenere i risultati raggiunti e impedire che trasmodino".

    Or di questo pensiero soltanto Stefano Jacini si faceva eco e interprete per la situazione italiana in un saggio acutissimo: "Conservantismo e Liberalismo, quando coesistano in permanenza nel seno di un corpo politico, l'uno di fronte all'altro, formano insieme le condizioni necessarie della sua salute normale; e sono destinati, nell'interesse del progresso civile, a prevalere alternativamente; questo, quando occorra dar mano ad un lavoro indefesso di riforme; quello quando occorre riparare le forze che, per effetto del lavoro, si sogliono logorare, ciascuno sorvegliando l'altro e impedendogli di trasmodare...".

    "... L'unità d'Italia, la legittimità della casa regnante, lo statuto vigente, essendo i tre fondamenti dello Stato, un conservatore italiano, affinché sia lecito designarlo con questa denominazione, non può ammetterne neppure la discussione. Eccettuati questi tre punti, i quali del resto, pel carattere loro generale, si adatterebbero e alla massima espansione di libertà praticabile nel mondo moderno e al più vigoroso potere esecutivo, eccettuati questi tre punti un conservatore italiano può sindacare ogni cosa che si riferisce allo Stato. Nel qual sindacato, appoggiandosi ad un'esperienza ventenne, esso inclinerà naturalmente a difendere tutto ciò che nelle istituzioni e nell'indirizzo del governo, risulta conforme secondo quell'esperienza, o secondo l'evidenza incontestabile; al concetto conservatore, ecc. ecc." (1).

    Assai meglio di Silvio Spaventa, preoccupato di dare espressione alle sole esigenze dell'unità e dell'autorità dello Stato, Jacini aveva capito come il problema italiano dovesse risolversi in un problema di stile politico.

    Un partito conservatore poteva compiere in Italia una funzione moderna indirettamente liberale in quanto facesse sentire la dignità del rispetto alla legge, l'esigenza di difendere scrupolosamente la sicurezza pubblica, e l'efficacia del culto delle tradizioni per fondare nel paese una coesione morale.





    Le risorse dell'hegelismo di Destra rimanevano senza influenza di fronte alle dominanti passioni demagogiche perché non parlavano agli italiani la loro lingua; i conservatori avrebbero potuto invece creare un consenso nello spirito delle classi popolari professando un ossequio severo per la religione e attenendosi alla formula cavouriana nella questione ecclesiastica. L'istinto del risparmio, la necessità di una saggia politica tributaria, l'ostilità verso le soverchie imposte che si accompagnano come frutto naturale agli esperimenti di statalismo avrebbero dovuto costituire nelle classi rurali della penisola le premesse per una chiara coscienza anti-parlamentaristica che rispettasse nel Parlamento l'istituto delle garanzie elementari di libertà e di democrazia contro lo spirito di avventura in politica estera, contro l'impiegomania e le smanie plutocratiche in politica interna, ma resistesse all'invadenza del centralismo oligarchico con una saggia riforma elettorale e con la difesa del decentramento.

    Un programma simile a questo presentato dal Jacini sarebbe stato in Italia la liquidazione preventiva della psicologia radicaloide e nazionalista che divenne invece dominante tra i parvenus di una borghesia fallita. L'insegna del conservatorismo doveva essere insomma tra noi la lotta dell'agricoltura (nelle sue possibilità di industrializzazione) contro l'Abenteuer Kapitalismus - degli industriali dilettanti e contro il parassitismo burocratico. I motivi di critica al soverchio peso delle imposte sulla proprietà fondiaria, sui quali si è soffermato in seguito con insistente convinzione Giustino Fortunato, toccavano il punto essenziale del problema del regime parlamentare in Italia: una coscienza di contribuenti era la preparazione indispensabile e sufficiente per garantire la permanenza delle istituzioni liberali. Il deputato venuto a Roma per difendere a nome di classi rurali una politica di risparmio e di emigrazione avrebbe interrotto violentemente la rete di interessi creati su cui a traverso ricatti e complicità lo Stato italiano veniva creando una pratica di parassitismo e di beneficenza per gli spostati, giocando sulla demagogia finanziaria. L'inerzia del Sud, subito dopo il '61 connessa col brigantaggio e con l'eredità del vecchio regime rese impossibile il formarsi di condizioni obbiettive favorevoli a questa lotta anti–burocratica. I documenti della psicologia e della coltura conservatrice rimasero seppelliti e dimenticati nell'Inchiesta agraria.

    Mentre falliva prima di nascere il Liberalismo dei conservatori che poteva avere la sua sede storica nell'economia del Mezzogiorno, le avanguardie del Nord erano tratte dall'immaturità della lotta politica e dei costumi nazionali a rinnegare il loro programma naturale di individualismo e di liberalismo. Tra industria e liberismo veniva a scavarsi un abisso che pretesero di trasportare addirittura nel campo della teoria e della sociologia. Ora il liberalismo non si esaurisce evidentemente nel liberismo, ma tuttavia lo comprende e lo presuppone.

    Senza cedere al vezzo di semplicistiche e chiuse definizioni si può ritenere che la passione e la coscienza di libertà e di iniziativa (che sono i concetti centrali di una teoria e di una pratica liberale) trovino naturale alimento in una vita economica spregiudicata senza essere avventurosa, capace di fortificarsi di fronte agli imprevisti della realtà senza rigidi attaccamenti a sistemi di sorta, agile e nemica della quiete provinciale nazionalista, capace di tenere il suo posto per fecondità di produzione e di intrapresa nell'equilibrio della vita mondiale. Questa è poi, se ben si cerca, la morale dell'individualismo economico che ha avuto i suoi testi e le sue esperienze nei paesi anglo-sassoni i quali ci diedero gli albori della modernità. Nel nostro secolo il primo insegnamento dell’industria dovrebbe consistere nella dimostrazione di uno spirito e di una necessità non grettamente nazionali, ma europei e mondiali: da questi orizzonti ormai l'attività inventrice e creatrice degli uomini non può più prescindere.





    Invece la nuova economia italiana nel Nord, come industria protetta, sorgeva rinnegando ogni senso di dignità. In trent'anni di polemica i nostri liberisti hanno avuto tempo e possibilità di dimostrare con calcoli e cifre tutti i danni economici del protezionismo doganale. Ridiscutere la questione in sede di economia parrebbe un anacronismo. Gli ultimi studi e gli ultimi dati non hanno concluso in nessun punto di vista nuovo, ma si sono limitati a confermare che la vita nazionale contrae, aderendo al protezionismo, un pessimo affare. Ma è ora di affrontare gli argomenti protezionisti nel loro stesso campo prediletto, dimostrando i danni politici del loro sistema, che ha inaugurato in Italia un'epoca di corruzione e di decadenza nei costumi del proletariato e della borghesia.

    L'elevazione morale degli operai era negata inizialmente dall'umiliazione di dover limitare propositi e ideali intorno a un problema di disoccupazione; la borghesia per salvarsi dall'errore delle premesse doveva cercare dei complici e pagare con una politica di concessioni la sua tattica di sfruttamento dell'erario. Così venivano a mancare i due nuclei essenziali di reclutamento per un partito liberale d'avanguardia che tendesse a rinnovare la vita politica facendovi affluire continuamente nuove correnti libertarie disciplinate intorno a una morale di autonomia: La parola d'ordine delle classi inferiori era la ricerca di un sussidio. Il krumiraggio non era che un simbolo dell'immaturità desolante dello spirito proletario e della psicologia primitiva da corsari e da speculatori schiavisti delle classi industriali. Per l'inconsistenza dei fini non si poteva costruire la fibra dei combattenti. All'individualismo (che resta la prima base dell'azione, come l'economia è presupposto della politica, e segna in un certo modo il primitivo affermarsi di una coscienza e di una dignità civile nell'uomo - le critiche della filosofia moderna infatti, valide contro la gnoseologia utilitaria sono inconsistenti di fronte a un'esperienza inconcussa della praxis) all'individualismo si sostituiva la morale della solidarietà, una specie di calcolata complicità nel parassitismo.

    Per queste artificiose conciliazioni si scavava tra Sud e Nord un abisso sempre più profondo evitandosi il cozzo solo con una alternativa di favori. Invece un'industria nata liberisticamente, non sarebbe stata l'antitesi della vita agricola, ma l'avanguardia: intorno al sistema di produzione, nella fabbrica, intraprenditori e operai, conquistando la coscienza della necessità tecnica delle loro funzioni avrebbero raggiunto responsabilità politica e potenza di azione.

    La vita italiana può parere ricca di inesorabili antitesi all'osservatore frettoloso: Invece intorno a un sistema parlamentare sufficientemente agile interessi agricoli e interessi industriali avrebbero potuto pacificamente contendersi rimanendo fedeli a premesse di dignità liberale.

    L'agricoltura (sia la piccola proprietà del Nord, sia la mezzadria toscana, sia la cultura estensiva del Mezzogiorno a mano a mano migliorata dall'emigrazione e dalle istituzioni del credito fondiario, sia la cultura moderna industrializzata delle zone emiliane e lombarde) costituisce in certo modo l'aspetto conservatore di una pratica liberale, come quella formata prevalentemente da proprietari che hanno interesse a godere delle libertà tradizionali, senza ingerenze governative e tiene fermo intanto all'eternità dei propri diritti, attaccata alle forme dominanti di proprietà, fermi a resistere contro ogni aspirazione, del proletariato agricolo, che pur nella loro resistenza viene temprandosi al senso della proprietà e al bisogno della liberazione. Invece per queste stesse condizioni di immaturità e di aspettazione messianica il proletariato rurale non si può adattare in Italia a una pratica liberale ed è tratto naturalmente ai sogni anarchici e radicali, i quali nella loro indeterminatezza e vaghezza hanno pure il merito di condurli per la prima volta alla vita sociale e di prepararli indirettamente a lotte più mature.





    L'industria alla sua volta alimenta nel Nord un liberalismo d'avanguardia e quasi l'impulso rivoluzionario del mondo moderno. La fabbrica educa al senso della dipendenza e della coordinazione sociale, ma non spegne le forze di ribellione, anzi le cementa in una volontà organica di libertà. Al culto della costituzionale tradizione sostituisce l'ideale sempre rinnovato di un ordine nuovo. L'individuo trova la sua elevazione nella morale del lavoro. E l'intraprenditore esperimenta nella conquista del mercato mondiale le leggi inesorabili dell'iniziativa moderna della produzione. Un ritmo di vita intenso in cui ognuno assolve la sua funzione in quanto sia sempre più vigorosamente se stesso alimenta una psicologia di dominio di fronte all'imprevisto, di coerenza nello sfruttamento di tutte le libere energie, di preveggenza sicura nel calcolo dell'avvenire, senza illusioni avventurose e senza i semplicismi dello speculatore. Questa morale di libertà poteva riuscire la preparazione sociale più rigorosa di una pratica politica di opposizione liberale. I limiti dello Statuto, rivoluzionario per il mondo in cui era sorto, sarebbero apparsi come ingrate costrizioni da superare con nuove esperienze di leggi future. Il senso delle libertà, per la stampa, per l'organizzazione, per la lotta politica, per la critica costituzionale si affermava trionfante nella città moderna, organismo sorto per lo sforzo autonomo di migliaia d'individui che gli danno la loro legge senza poter accettare più un'imposizione estranea. Il suffragio universale e la rappresentanza proporzionale avrebbero potuto, esperimentati nel giusto momento, preparare un'atmosfera di serenità per l'affermarsi di queste discussioni e di queste esigenze.

    Invece il liberalismo non seppe dare la parola d'ordine a queste forze nuove: gli industriali parvero costituire una banda misteriosa con nascoste funzioni demiurgiche nell'equilibrio politico italiano e si crea la parola plutocrazia per definire il sospetto e lo sdegno, pure ipocritamente rispettoso e cortigiano, con cui li considerava il pubblico italiano; gli operai trovarono nel socialismo il simbolo rivoluzionario della loro libertà, e solo in questo senso (che è precisamente l'opposto di quello riformistico teorizzato dal Missiroli) ebbero nel mondo moderno una funzione liberale.

I torti della teoria liberale

    Di queste insufficienze pratiche si può scorgere un sintomo nell'incoscienza delle teorie liberali elaborate nell'ultimo cinquantennio. Gli scrittori del liberalismo non hanno saputo fare i loro conti con il movimento operaio che stava diventando l'erede naturale della funzione libertaria esercitata sinora dalla borghesia; e non hanno elaborato un concetto dei più interessanti fenomeni della vita politica: la lotta di classe e la formazione storica dei partiti.

    La dottrina della classe politica accuratamente elaborata da Gaetano Mosca e da Vilfredo Pareto avrebbe potuto illuminare i significati della lotta nel campo sociale se fosse stata connessa più direttamente con le condizioni della vita pubblica e con il contrasto storico dei vari ceti. Il concetto di una élite che si impone sfruttando una rete di interessi e condizioni psicologiche generali, contro i vecchi dirigenti che hanno esaurita la loro funzione è schiettamente liberale come quello che scopre nel conflitto sociale la prevalenza degli elementi autonomi e delle energie reali rinunciando alla inerzia di quelle ideologie che si accontentano di avere fiducia in una serie di entità metafisiche come la giustizia, il diritto naturale, la fratellanza dei popoli. Il processo di genesi dell'élite è nettamente democratico: il popolo, anzi le varie classi, offrono nelle aristocrazie che le rappresentano la misura della loro forza e della loro originalità. Lo Stato che ne deriva non è tirannico se vi hanno contribuito i liberi sforzi dei cittadini divenuti per l'occasione combattenti. Il regime parlamentare, nonché contrastare a questa legge storica della successione dei ceti e delle minoranze dominanti non è che lo strumento più squisito per lo sfruttamento di tutte le energie partecipanti e per la scelta più pronta.





    Invano la scienza dominante anche dei sedicenti liberali si appagò di uno sterile sogno di unità sociale e non volle riconoscere altri termini fuori della gretta religione della patria e dell'interesse generale. Questa dottrina di indifferenza politica confondeva addirittura il liberalismo di governo col liberalismo come forza politica e iniziativa di popolo. La conclusione più rigorosa di queste premesse si possono leggere nel celebre saggio di Benedetto Croce sul Partito come giudizio e come pregiudizio. Nel quale, a dire il vero, la scoperta più arguta era la barzelletta d'apertura dei partiti politici come generi letterari. Il Croce ubbidiva a una logica conservatrice e prescindeva da ogni esperienza della vita politica. Infatti il partito può definirsi un genere della casistica, un'astrazione programmatica soltanto se lo si intende secondo una funzione meramente conoscitiva dei problemi pratici. Ma rispetto alla conoscenza tecnica della realtà sociale il partito rappresenta un momento di ulteriore mediazione e sintesi effettuata appunto in un'azione: basta richiamarsi alla distinzione crociana di teoria e pratica per dimostrare la natura illuministica della critica del Croce ai pregiudizi del partito. Si dovrà notare lo stesso errore quando il Croce parla della lotta di classe come di un "concetto logicamente assurdo, perché formato mercé l'indebito trasferimento della dialettica hegeliana dei concetti puri alle classificazioni empiriche; e praticamente pernicioso, perché distruttivo della coscienza dell'unità sociale". Questa critica sarà valida contro la filosofia della storia di Marx e contro l'illusione messianica, di natura mistica e hegeliana, di una abolizione finale delle classi. In realtà la praxìs ci addita ogni giorno in seno all'unità sociale il formarsi di classi distinte, che per legge naturale si ipostatizzano, si associano, combattono per interessi presenti e idealità future. A queste classi che si sentono unite, e che hanno foggiato i loro costumi e le loro aspirazioni attraverso una lotta reale nella storia, il filosofo non potrebbe senza palese ingenuità predicare l'unità sociale e spiegare la natura gnoseologica delle loro illusioni, perché queste illusioni non sono un artificioso schema come i generi letterari, ma la necessità più intima della loro vita, le loro speranze e le loro sofferenze. Né la logica dell'astratto né la logica dell'atto puro possono spiegare l'imperativo di lotta da cui scaturisce il partito politico che soltanto gli ideologi sono tratti a veder esaurito nelle soluzioni che esso presenta per varie questioni economiche e tecniche. Se la realtà consistesse soltanto di questioni obbiettive se ne potrebbe dare un concetto razionalistico e il problema sociale consisterebbe semplicemente nel trovare una serie di specifici sui quali a dimostrazione data, non dovrebbe sussistere più alcun dubbio: ma questa è la logica della Chiesa e del Síllabo, non la logica della politica. L'ideale di un partito unico resterà sempre il sogno mediocre dei regimi teocratici e corruttori (ne vedemmo infatti il risorgere nelle ideologie fasciste).

    La politica dei partiti, quando studia le questioni obbiettive, le prospetta secondo gli interessi e le forze del popolo: per essa la realtà viene trasfigurata secondo la misura dei sentimenti e delle psicologie. La mente del capo-partito manifesta la sua originalità nel momento in cui le volontà individuali esprimono non già la maturità delle loro conoscenze, ma la loro logica politica. All'uomo di governo spetta un compito di secondo grado, ossia il dialettizzare le forze esprimendone una legge che è d'interesse generale solo in quanto è il risultato di atteggiamenti contrastanti che per il partito è tutt'al più un elemento di calcolo o di previsione: mentre il capo-partito è in un senso preciso e ristretto il tribuno, l'uomo di governo e il diplomatico.

    Queste osservazioni spiegano senza equivoco le ragioni per cui noi riteniamo inconcludente la nota polemica liberale del Gentile e del Missiroli. L'uno e l'altro infatti per una comune passione dialettica e metafisica non tenevano conto del terreno storico nel quale un'indagine sui caratteri e i limiti dei partiti deve essere impostata.





    Per il Missiroli liberalismo è la stessa essenza della storia moderna, attivistica e immanentista. Il liberale più che a una posizione precisa di giudizio e di fede deve attenersi a un metodo dinamico e in certo senso opportunista. La sua azione tende a coordinare gli sforzi vivi della storia moderna e sta giorno per giorno dalla parte dei più illuminati. La tesi pratica che il Missiroli derivava da queste premesse definendo liberale l'opera dei socialisti in Italia era assai brillante e seducente nel campo storico: mentre in sede teorica il metodo missiroliano fa rivivere un pensiero genericamente progressista, che ripete l'impotenza degli illuministi nel tentativo di definire il progresso, ossia in sostanza non sa dirci come la teoria professata debba incarnarsi in azione politica.

    Il Gentile alla sua volta confondeva liberalismo con arte di governo. Privo del senso delle distinzioni e delle lotte pratiche egli si riduceva a un concetto del liberalismo come risultante di forze opposte, come conservazione che è anche innovazione, ossia al vecchio pensiero moderato che non vuole andare né a destra né a sinistra e pretende di mascherare i propri interessi conservatori gabellandoli per interessi generali. Del resto in tutta l'equivoca concezione del Gentile che vanamente si appella a Mazzini e a Cavour, si scorge l'assenza più desolante di ogni generosa passione per la libertà. Per il Gentile la politica liberale si fa dall'alto: solo il ministro può chiamarsi liberale. Un partito di governo inteso a questa funzione di moderato illuminismo conservatore è evidentemente inconcepibile, sicché il problema che il Gentile voleva risolvere viene da lui stesso negato nei suoi termini. L'esemplificazione politica delle tesi gentiliane, offerta dal ministro della pubblica istruzione di Mussolini conferma il significato reazionario che Missiroli scorse nelle prime enunciazioni: la giustificazione e la interpretazione date dal Gentile, del suo liberalismo coincidono con la morale della tirannide e il problema della libertà viene dimenticato, per un artificio dialettico nella preoccupazione, coltivata da tutti i despoti, dell'autorità.

    Le origini di questa arbitraria interpretazione filosofica del liberalismo risalgono in Italia a più di un cinquantennio addietro e si confondono coi primi tentativi della Destra dì dare una teoria dello Stato etico. Silvio Spaventa ha le sue responsabilità per l'equivoco derivato dal trasportare le tesi hegeliane in sede pratica. Poiché se lo Stato ha di fronte alla storia, attraverso le vicende, diciamo così, metafisiche dell'umanità, una funzione etica in quanto rispecchia il processo per cui l'individuo è tratto perpetuamente a esplicare volente o no una funzione sociale, è assolutamente erroneo attribuire allo Stato-pubblica amministrazione che vive dei contrasti politici e interviene nelle vicende quotidiane, una funzione metafisica, coi diritti pratici che se ne vogliono derivare. In politica checché ne sembri ai filosofi, lo Stato è etico in quanto non professa nessuna etica e nessuna teoria: questa posizione di equilibrio è la sola che non ci ponga di fronte all'insolubile problema di fissare quali siano gli organi di questa pretesa morale statale; e ci garantisce la possibilità che ogni etica, come ogni politica, sia da esso rispettata in quanto si rimette il giudizio della validità sociale di cui ciascuna idea potrà menar vanto ai risultati della libera lotta e della storia imprevista.

    Di fronte alle assurde pretese e alla dogmatica grettezza (qualità per eccellenza anti–liberali) a cui i filosofi sedicenti liberali ci hanno assuefatto, potremo con tranquilla convinzione di equità cantar le lodi degli onesti scrittori di economia, che se ebbero il torto di non salvare dalle antipatie universali la dottrina di cui erano rimasti modesti depositari, non si stancarono tuttavia di divenirne i predicatori inascoltati. L'equivoco da essi aiutato della confusione tra liberismo e liberalismo resta tuttavia il meno pericoloso e il meno assurdo di quelli sin qui analizzati. La chiusa setta dei liberisti può ben dire di aver salvato per parecchi decenni la purezza dell'idea e preparata in sede economica la formazione di condizioni psicologiche favorevoli a una rinascita liberale. L'educazione inglese se non li salvava da un tono molesto ai più e tuttavia assai spesso finemente ironico, dava ai loro costumi morali e letterari un senso austero di dignità, una coscienza severa di ossequio alle leggi e alle libertà, che li assisteva costantemente nella loro critica e contribuiva a renderli impopolari in una terra di dannunziani e di tribuni che guardava come straniere le loro figure riservate di persone educate e ammodo. S'intende che il nostro ritratto riguarda i più eletti della schiera, da Francesco Papafava a Luigi Einaudi, perché anche il liberismo ebbe i suoi tribuni e retori fanatici.





    Pure la stessa abitudine di giudicare fatti complessi di sfumature e di psicologie colla sola scorta di una scienza "esatta" e "matematica" faceva tornare naturalmente il pregiudizio che la sola logica bastasse a giudicare e agire in politica e conduceva a svalutare ancora come illusorie le distinzioni di partiti.

    Insomma la parola d'ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu:

    "tutti liberali".

    La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l'azione storica dei ceti che vi sono interessati. In Italia, dove le condizioni sia economiche che politiche sono singolarmente immature le classi e gli uomini interessati a una pratica liberale devono accontentarsi di essere una minoranza e di preparare al paese un avvenire migliore con un'opposizione organizzata e combattiva. Bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, liberali i nazionalisti e i siderurgici, interessati a un parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né i contadini latifondisti che vogliono il dazio sul grano per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà dell'opposizione alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative. Poiché il liberalismo non è indifferenza né astensione ci aspettiamo che per il futuro i liberali, individuati i loro nemici eterni, si apprestino a combatterli implacabilmente

Insufficienza democratica

    Dopo il '70 il partito liberale, risultante di tutte le debolezze teoriche ed obbiettive, è svuotato della sua funzione rinnovatrice perché privo di una dominante passione libertaria e si riduce a un partito di governo, un equilibrismo per iniziati che esercita i suoi compiti tutori ingannando i governati con le transazioni e gli artifici della politica sociale. La pratica giolittiana fu liberale solo in questo senso conservatore, e la politica collaborazionista non salvava il liberalismo, ma le istituzioni, tenendo conto non del movimento operaio, ma dello spirito piccolo-borghese del partito socialista. La naturale conversione del liberalismo in democrazia demagogica fu studiata nelle pagine precedenti e basterà richiamare la formula missiroliana della Monarchia socialista, e per maggiore evidenza di argomentazione la polemica decennale di Gaetano Salvemini che combatteva in Giolitti e nel socialismo cooperativista i due elementi determinanti dell'equilibrio parassitario. Questo periodo storico non presenta più punti oscuri. La figura di Giolitti sovrasta su tutte le altre, e nella immaturità generale i danni della sua politica diseducatrice e demagogica, sono compensati dai vantaggi di dieci anni di pace. Non si può dire che sia stato visto dagli altri uomini di stato ciò che sfuggì al calcolo e alle astuzie del domatore. La psicologia giolittiana nell'esame dei due termini liberalismo e democrazia è la psicologia dominante.

    E' difficile del resto individuare le differenze tra liberali e democratici se non si tien conto degli ambienti che li alimentano, come sarebbe malagevole e retorico distinguere con un ragionamento metafisico i due concetti storici di eguaglianza e libertà. Se invece l'osservazione storica si trasporta dal '700 all '800 e dall'Europa all'Italia potremo dire che la democrazia ci venne come una forma attenuata di liberalismo, fu il riparo cercato dagli italiani all'equivoco affrontato invano; e la sostituzione del mito egualitario al mito libertario segnerebbe appunto l'inaridirsi dello spirito di iniziativa e di lotta di fronte al prevalere dei sogni di palingenesi e di tranquilla utopia.

    Sonnino e Salandra vittime dei tempi non intendono il liberalismo meglio degli altri e sono democratici come Giolitti, con l'astuzia e l'arte di governo in meno.

    Sonnino ebbe lo spirito del retrivo che si destreggia con la metodologia dell'uomo di buon senso. Le sue esortazioni alla sincerità nascono nell'atmosfera semplicista della impreparazione politica. In lui la tecnica prevalse sull'arte. Il culto della legge si manifesta nel chiuso spirito d'intolleranza del predicatore. Era inesorabile nelle sue idee fisse con la cocciutaggine di chi crede di averle trovate con il metodo sperimentale. La morale della solidarietà coesisteva in lui con la politica nazionalista. Perciò già nella sua giovinezza, al tempo della Rassegna settimanale, (opera mirabile di cultura, caratteristica di un'epoca che si sofferma sul limitare della politica) si scorgevano i difetti del rigido uomo di Stato, grettamente calcolatore. Per lui, diplomatico fallito, la diplomazia costituiva il punto centrale della considerazione e del calcolo. Logicamente doveva scaturire da questo cervello un concetto di liberalismo del tutto inadeguato al ritmo della lotta politica. Sonnino auspicava un blocco liberale che comprendesse democratici e repubblicani proponendosi il solo fine dell'interesse generale dello Stato nazionale: anche per lui si trattava di avvincere le classi popolari a tal causa della stabilità e della pacifica evoluzione dell'organismo dello Stato con le riforme: la famosa campagna per la pensione dei sei soldi resta caratteristica testimonianza di un metodo social-democratico, di tipo germanico, dal quale Sonnino dedusse con perfetta logica, se pure con poca finezza, la sua politica imperialista.





    Anche Antonio Salandra non sa vedere nel partito liberale molto più che l'idealità della patria e il sentimento della nazione, anch'egli protesta che il partito liberale non è un partito di classe, salvo a confessare poi che attinge le sue forze dalla classe media: intento al solo problema dell'autorità e del potere, egli non si stanca di rivolgere la sue esortazioni alla borghesia perché si svegli dalla sua inerzia politica. Confonde il sintomo col problema e non avverte la sostanza della crisi che sta nell'assenza di libertà e di attitudine alla lotta. L'esperimento governativo di Salandra, che ci ha dato una tirannide demagogica e retorica è la conferma dei suoi vizi mentali.

    Prima della guerra soltanto pochi episodi di cultura e di esercitazione politica solitari e senza eco potrebbero entrare a buon diritto in una storia analitica del liberalismo. Sono tentativi di eresia, sforzi di concentrare intorno a organi di studio e di ricerca gruppi di giovani disinteressati e alieni della speculazione demagogica. I nomi sono di ieri e non hanno bisogno di essere illustrati: Salvemini, Prezzolini, Caroncini, Amendola e Slataper, confusi insieme in un compito indifferenziato di illuministi. Accanto ad essi, tollerata e quasi gradita, la bolsa magniloquenza di Giovanni Borelli, il più vuoto dei tribuni del militarismo, creduto per vent'anni, quasi leggendariamente, l'ultimo liberale. I risultati sono di cultura, la loro fecondità per l'avvenire consiste nella preparazione di classi dirigenti più mature. Il desiderio dell'azione è coltivato in questi gruppi di eretici quasi nascostamente e si manifesta chiaro soltanto dopo la guerra nel movimento politico dei combattenti: In questo le possibilità inizialmente liberali furono frustrate dalla mancanza di chiarezza nella classe politica che lo guidò e che era stata vittima di una preparazione genericamente romantica. Vi coesistettero liberalismo agrario e demagogia finanziaria, politica estera salveminiana e imperialismo, spirito anti-burocratico e simpatia per le classi d'impiegati. Romolo Murri, il più bell'esemplare della vanità del profeta fallito, grosso cervello di pedante, in cui l'aridità del prete s'accoppia con la pigrizia mentale dell'attualista dogmatico, riuscì a dare il tono a quei tentativi pratici con la scoperta di un sindacalismo apocalittico e confusionario che egli non si fece scrupolo di gabellare poi per fascista e di farne un omaggio ai vincitori.

    Tutta l'immaturità del movimento dei combattenti si rivelava nella sua incapacità di sostenere la concorrenza dei popolari come conservatore e dei socialisti come rivoluzionario. Logicamente moriva nel fascismo la confusa ideologia dei guerrieri intellettualisti.

    Le aspettazioni messianiche generate dalla guerra contrastavano irrimediabilmente con le premesse liberali: la lotta politica doveva fare i conti con i sogni di palingenesi e di unanimità. Il pensiero più maturo in questo momento storico fu quello di Nitti che tuttavia mancò dì tatto e di elasticità diplomatica per far prevalere nel momento opportuno propositi che erano di tutti. Conscio della transazione a cui la lotta politica in Italia è condannata, conscio della crisi economica permanente nel paese povero per natura, Nitti è liberale in quanto non vede soluzioni possibili fuori di una politica di emigrazione e di pace. La sua democrazia di compromesso, il suo collaborazionismo, aveva il merito di realizzare in Italia, rimanendo nell'ambito della costituzione e dei costumi di libertà, le premesse unitarie non ancora compiute.

    Non si può sapere se sulla via additata da Nitti si incamminerà tuttavia per una curiosa ironia della storia l'opera del governo fascista. Se così fosse (ma l'ipotesi è meramente accademica, quando appena si pensi alla immaturità delle nuove classi guerriere) Mussolini avrebbe tuttavia il torto di averci dato con la tirannide i risultati che stava per raggiungere l'azione parlamentare.

    Se dalla negazione fascista il liberalismo fosse tratto a ridiscutere i suoi principi, a difendere i propri metodi e le proprie istituzioni, a rinnovare quella passione per la libertà da cui nacque primamente, forse l'avvenire della nostra patria si potrebbe guardare con animo più sicuro.

PIERO GOBETTI.