MOTIVI DI STORIA ITALIANA

II.

    Equivoco neuguelfo.

    Il primo tentativo di fondare una classe dirigente e uno Stato dopo la rivoluzione francese risale al '21. Sorge in Piemonte, perché ivi il governo e le tradizioni politiche erano i primi modelli e i primi educatori (per un'antimonia più che per un proposito) di esperienza politica.

    Il nuovo contenuto spirituale venne alla rivoluzione dall'affermarsi di un romanticismo idealistico che respingeva i sistemi sensisti e intellettualisti, propugnava i valori storici e vi fondava i concetti di tradizione nazionale, di realismo politico, di progresso e di svolgimento gradualmente continuo.

    Questo nucleo romantico di pensiero si era formato in Piemonte durante la dominazione napoleottica.

    Il misogallismo imparato da Alfieri si sviluppa nell'affermazione del concetto di indipendenza e determina oltre le limitazioni del pensiero alfieriano una violenta polemica anti-sensista, che significa ritorno alle tradizioni e libertà dall'influenza culturale francese. La scuola di Alfieri libertario doveva nello stesso tempo condurre a ripensare il concetto di libertà.

    Il vizio dello spiritualismo romantico rimaneva nei limiti posti dalla tradizione cattolica e nell'esigenza dell'ortodossismo implicita in ogni sistema fondato sul principio della teocrazia e della trascendenza. Perciò il nostro romanticismo mentre traeva vantaggio dall'agilità politica dello spirito cattolico, non riusciva alla esplicazione matura del proprio vigore intimo e non poté raggiungere la vitalità del romanticismo tedesco.

    Dopo l’Alfieri una coscienza dei compiti intellettuali che spettano all'Italia moderna per fuggire un passato provinciale si trova in Luigi Ornato, che elaborò il suo spiritualismo prescindendo da ogni teoria cattolica e rivolgendosi piuttosto a un cristianesimo platoneggiante capace di rispondere ai nuovi bisogni religiosi e morali, senza soffocarlo in un duro schema. Il misticismo ornatiano culminando nel concetto di libertà santificava ogni ardore dello spirito e faceva sentire l'importanza laica di una vita religiosa che si chiarisse e risolvesse come vita morale e filosofica.

    Ma già nel Santarosa la coscienza libertaria dell'Ornato si affievoliva in uno spiritualismo dogmatico e dualistico e l'espressione dell'esigenza religiosa si confondeva nell'ossequio alla Chiesa. Né è meraviglia poiché il cristianesimo, iniziale impulso di sentimento, momento ideale naturalmente anarchico, eretico, atto che tende a non esaurirsi in un fatto, affermazione violenta di spiritualità contro tutte le determinazioni perfette, non può avere vita ideale né compimento nella realtà se non effettua l'ardore in organismo e non sostituisce alla purezza astratta della aspirazione l'ordine solido della praticità. Le correnti religiose romantiche non avendo avuto la forza di creare attraverso il primo impulso cristiano una riforma religiosa, dovettero necessariamente venire assorbite dal cattolicismo. Il culto romantico della storia diede un fondamento di tradizione a questi ritorni cattolici. Le risonanze eretiche del pensiero di Luigi Ornato venivano contenute dalla moderazione dei conservatori.

    Il liberalismo diventò termine inseparabile dal cattolicismo. La teocrazia riusciva con le armi stesse dei liberali, col loro spiritualismo e con la loro fede, a stroncare ogni movimento che mettesse in discussione il passato. Per un'eredità storica il primo movimento democratico diventa un'arma di conservazione. Il neo-guelfismo era un risultato di conciliazione necessario per un popolo che trovava nella diplomazia tutti i suoi vizi e tutte le sue virtù.

    Non cadremo nell'errore degli studiosi moderni che sono andati ricercando i significati della storia italiana secondo mere dialettiche di concetti. La politica è un'arte degli imprevisti e la sua razionalità non segue la logica dell'intellettualismo. Constatando dunque l'immaturità ideale dell'Italia del Risorgimento, o la mancata partecipazione popolare, non si vuol fare un processo alla cultura o agli uomini, ma un semplice calcolo di forze: i fermenti d'idee liberano infatti il mondo dell'azione dai pericoli dogmatici e reazionari lasciando libero l'uomo di Stato ai suoi compromessi e alle sue astuzie. L'espediente del neo-guelfismo si risolveva invece in un equivoco generale.

    Distrutta la giovane aristocrazia del '21 la classe dominante che rimane è tuttavia lo strumento di un governo reazionario e l'espressione passiva dei risultati promossi dalla Santa Alleanza. Il '48 dopo una preparazione febbrile interrotta dalla coincidenza di moti stranieri più maturi è nient'altro che un '21 divulgato con Gioberti tribuno. Tutta l'educazione cattolica di Gioberti e la sua chiusa volontà dogmatica affiorano nel suo equivoco pensiero democratico. Il neo-guelfismo e poi il cattolicismo liberale respingono ogni proposito di aperta discussione e di libera iniziativa suggerito dal liberalismo. L'ossequio alla Chiesa indebolisce le volontà che dovrebbero produrre il nuovo Stato. Il pensiero ufficiale di questo attenuato liberalismo; fuori delle apocalittiche sintesi giobertiane, capaci di promuovere entusiasmi ma non suscitatrici di esperienze realistiche, scorge nello Stato e nella Chiesa un dualismo di corpo e spirito, spoglia la funzione dello Stato da ogni significato moderno e lo intende come mera amministrazione lasciando la cura delle anime alla Chiesa.

    La dominante psicologia libertaria di questi anni poteva accettare per mera inerzia una forza tradizionale come la Chiesa, ma si dimostrava inesperta e immatura a fondare il nuovo Stato; e, poiché la storia nella sua dialettica europea superava le contingenti volontà delle moltitudini italiane, si accettò l'ossatura esterna, il meccanismo dello Stato liberale senza vivificarlo dall'interno.

    Restava così un nome senza soggetto. Ma la coscienza pratica di questa immaturità si avverte nelle polemiche agitatesi durante il Risorgimento a proposito del problema scolastico. L'opera del governo, la sola forza di cui si fosse tenuto conto sinora in terra di politici e di politicanti, si rivelava insufficiente finché la materia faceva contrasto con la forma invano imposta. L'educazione popolare pareva il solo strumento di formazione civile. Prima di esercitare le sue funzioni di garanzia e di difesa, il nuovo Stato doveva creare gli elementi capaci di suscitare e arricchire la lotta politica.

    Di qui il dissidio implicito nel nostro liberalismo che non si può accontentare di esprimere il risultato della dialettica delle forze politiche, ma deve rinunciare alla libertà per imporre un elemento al disopra degli altri. Il governo erede del cattolicesimo ha conservato una funzione etica astratta di egualitarismo democratico: il Risorgimento anteponeva democrazia a liberalismo per continuare le patriarcali tradizioni teocratiche. Senchè sostituendosi il cattolicismo liberale al neo-guelfismo penetrava nel mito democratico l'elemento moderno che lo doveva dissolvere: il governo in realtà indulse al cattolicismo soltanto per indulgere al popolo e per potersi assumere senza contrasti la funzione provvisoria di educatore.

    La legge Casati imponendo allo Stato il compito di vincere l'analfabetismo costituiva una violenta contrapposizione di un principio trascendente all'iniziativa che nasce dal basso, ma poneva le premesse per far superare al popolo la malattia feudale. Così s'erano incontrati ancora una volta nel problema della scuola conservatori e rivoluzionari. Un decennio di attività pedagogica valse in Piemonte a creare mediante tutti gli artefici una classe media, che fu la classe patriottica e s'inserì come forza di conservazione e di moderazione proprio al centro del dissidio tra popolazione agricola e manifatturiera.


IV.

    Critica repubblicana.

    Il neo-guelfismo era stato almeno il prodotto istintivo degli italiani cattolici e poté risolversi infine in un eccellente strumento di propaganda nazionale. Invece le metafisiche del mazzinianismo e del socialismo di Ferrari ebbero il torto di nascere come dottrine derivate dagli stranieri ripugnanti al gusto e alla possibilità degli spiriti italiani, lontani dal gioco e dall'equilibrio preciso delle forze. Mazzini e Ferrari riuscirono a trovar eco soltanto nell'ambiente artificioso delle eresie e degli esuli tra i quali la loro funzione di avanguardia ritenne sempre un significato romantico e nebuloso. Le loro dottrine si ridussero a due confusi edifici teocratici che attingevano motivi episodici e sviluppi parziali dai variopinti movimenti d'idee nati in Europa dopo l’Enciclopedia. I motivi intellettualisti di Ferrari, gli elementi mistici di Mazzini riducevano in conclusione i due sogni a una riforma religiosa attenuata che doveva restare impopolare in un ambiente estraneo. La disperazione eroica di Mazzini poi sorgeva dalle nobili delusioni di un ottimista che aveva creduto di far la rivoluzione con la propaganda. Di fronte a queste ideologie che risuscitavano la pratica delle congiure e degli sdegni letterari il liberalismo sabaudo aveva almeno il merito di offrire dei quadri sicuri e pronti per la politica estera della rivoluzione.

    Il solo motivo vitale del federalismo si ebbe nella critica di Carlo Cattaneo, il solo realista tra tanti romantici e teorici. La fisionomia speculativa del Cattaneo si rivela tutta in una professione di cultura: né dal sensismo, né dal razionalismo si può dedurre un concetto dell'attività umana; per la drammaticità della storia egli rinuncia agli schemi più semplici come ai più complicati messi in uso dal Risorgimento. L'impopolarità del Cattaneo derivava necessariamente dallo spirito della sua polemica che constatava il tramonto del razionalismo e delle discussioni tra classici e romantici e rimaneva estraneo al neo-guelfismo, ultimo tentativo messo in opera dall'esasperazione romantica. La sua filosofia è la prova che l'originalità speculativa italiana si suole affermare, dopo le parentesi di misticismo, nel riconoscimento dei più gelosi valori della personalità. La sua finezza ci è attestata dall'atteggiamento anti-romantico, libero da ogni peccato di sensismo, il suo rigorismo morale dall'opposizione inesorabile contro i demagogismi unitari e le illusioni patriottiche.

    Se la forza dinamica del suo pensiero è stata nel secolo scorso meno esuberante di quella di Mazzini; il suo spirito ci appare ora meno indeterminato e meno vaporoso, la sua figura è più ricca di insegnamenti, la sua eresia politica può presentarsi ancora come un programma, i suoi scritti non sono diventati illeggibili come i Doveri dell'uomo.

    Guardò al passato senza atteggiarsi a profeta, capì senza l'enfasi dell'apostolo che il fondare uno Stato non era impresa da letterati entusiasti, cercò nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. Gli italiani erano usi a parlare di libertà come di cosa da dimostrazione: Cattaneo offrì l'esempio di un pensiero che si identificava tutto con la libertà e l'autonomia e ne raccoglieva organicamente le esigenze senza farne risquillare ad ogni istante con ingenua retorica la parola. Invece per certi spiriti non giova che il tamburo.

    La libertà di Cattaneo si esprimeva come realismo in etica, come impulso alla produzione e alle iniziative in economia, come creatività liberale in politica, come valorizzazione dell'esperienza in filosofia, come culto classico dei valori formali e della tradizione liberatrice in arte. Per queste caratteristiche di misura che sono il segreto della sua vitalità gli toccarono in sorte i compiti di critica più arditi e più ingrati, che gli servirono poi di disciplina e di temperamento.

    Dovette starsi contento della solitudine e della impopolarità e sembrare retore del pessimismo come Mazzini: diedero a lui, realista e uomo positivo, un ufficio di Cassandra.

    La sua opera resta il solo esempio di critica interna dello sviluppo dialettico del nostro Risorgimento, per il quale egli fu il solo, dopo Cavour, a postulare una preparazione economica. Visti in questa luce i suoi motivi anti-unitari, ancora validi, appaiono l'equilibrata antitesi dell'illusione patriottica di risolvere con l'unità tutti i problemi popolari, e il suo regionalismo è soprattutto un problema di stile e di misura.


V.

    Cavour.

    In mezzo a questi fermenti inespressi l'unità italiana doveva venire dall'iniziativa del dispotismo. Fu gran ventura per un popolo che non sapeva distinguere tra Cattaneo e il giobertismo, che si trovasse a guidarlo Cavour, il Cattaneo della diplomazia, che seppe evitare l'isterilirsi della rivoluzione in una tirannide. Il dissidio tra Cavour e Vittorio Emanuele II, re mediocre e negato alla comprensione dei tempi, fu in questo senso la vera Provvidenza dell'unità italiana.

    Il ministro piemontese sovrasta ai suoi contemporanei perché guarda gli stessi problemi con l'occhio dell'uomo di Stato. Tuttavia la sua figura è qualcosa di più che un esempio della coscienza di un governatore quale poteva essere offerto dai ministri del '700. Genio e costanza non insegnavano a governare l’Italia delle sette e della reazione clericale. La singolare virtù di Cavour è piuttosto nella franchezza della sua astuzia. Egli era il diplomatico che sapeva parlare alle folle e, pur senza mendicarne il favore, non avrebbe mai arrestato o attenuato la forza che proviene dall'entusiasmo di un popolo. Dominanti i costumi della demagogia e della teocrazia Cavour ha saputo incominciare il processo moderno di una rivoluzione liberale, pur disponendo soltanto di un esercito e di una dinastia. Educatore e demiurgo ha trovato l'adesione del popolo senza corromperlo. Paragonato con gli uomini politici che lo seguirono, tranne Sella, appare di un'altra razza: per Depretis e per lo stesso Giolitti, che pure, ha mente di uomo di Stato, il giusto termine di paragone non è Cavour, ma Rattazzi, modello di equilibrismo, di equivoco e di demagogia.

    Invece il possibilismo di Cavour, pur non indulgendo a professioni di fede o a programmi, non comprometteva il futuro. Seppe disarmare il radicalismo col connubio con Rattazzi, che era più una vittoria che un'alleanza e frenò il clericalismo con una politica ecclesiastica ferma, ma moderata e non demagogica.

    La libertà economica fu il perno educativo su cui egli impostò la sua azione popolare. Perché la rivoluzione trionfasse contro la reazione bisognava che sulla libertà si venisse fondando la vita privata e pubblica; combattendo il protezionismo egli apriva il Piemonte a una diretta comunicazione con l'attività economica europea e creava un movimento di attività e di iniziativa che permise allo Stato di affrontare venti anni di politica avventurosa. Il liberismo di Cavour mirava a far entrare nella vita nazionale nuove forze operose: senza giungere alle pratiche corruttrici della politica di beneficenza il suo filantropismo s'opponeva apertamente all'indifferenza dei governanti per le classi inferiori.

    Mentre creava nella vita popolare le condizioni obbiettive per una rinascita moderna fondata sugli imperativi dell'economia e non sui sogni della religione, il liberalismo di Cavour era lo strumento fondamentale della sua politica estera. Con una tradizione secolare di diplomatici troppo astuti, costretti a far conto soltanto sulla propria dignità personale perché non sorretti dal sentimento della nazione, gli italiani erano diventati estranei alla politica europea, perché non le offrivano alcuna garanzia e non potevano fondarsi su esigenze reali e su virtù positive per partecipare all'equilibrio internazionale. Cavour seppe dare all'Europa l'esempio di una pratica di governo dignitosamente liberale, capace di mantenere i propri impegni e di conquistare la fiducia del paese. Di fronte all'Austria egli mostrava la possibilità di un governo nazionale che non aveva bisogno di ricorrere allo Stato d'assedio.

    Ma il capolavoro di Cavour – bisogna riconoscerlo, dopo tanti fraintendimenti – fu la politica ecclesiastica. Egli comprese la vanità di ogni lotta contro il cattolicesimo in un paese cattolico e la necessità di combattere la Chiesa non su un terreno dogmatico, ma sul problema formale della libertà di coscienza. Intesa secondo questi principi, la formula libera Chiesa in libero Stato non è più un'ambigua trovata di filosofia del diritto, ma un'astuzia di politica internazionale e la prova delle virtù diplomatiche e della maturità costituzionale del nuovo Stato. Lasciando ai tribuni e ai capi della lotta politica il compito di combattere il dogmatismo e riservando alla cultura libera la funzione di elaborare le nuove ideologie, Cavour obbligava i paladini di una verità medioevale ad accettare per la lotta una pregiudiziale moderna. Il suo ossequio per la Chiesa poi provava soltanto il suo senso di misura e la sua profonda convinzione che l'autonomia di un popolo moderno non potesse fondarsi su una demagogica propaganda anticlericale. Non si poteva andare oltre il cattolicismo se si dimenticava la tradizione cattolica.

    Confrontata con i complessi motivi dell'opera promossa dallo statista appare aridamente dogmatica la critica opposta alla formula cavouriana dagli hegeliani teorici d'intolleranza e ancor più pedantemente dal Vera.

    G. M. Bertini fu tra i critici della politica ecclesiastica cavouriana il solo che toccò con misura i motivi più delicati e difficili postulando la necessità di una polemica inesorabile contro i residui di assolutismo inerenti in qualsiasi politica ispirata dalla Chiesa. Senonché questi motivi di pensiero del Bertini ripresi poi dagli Spaventa e dalla Destra hegeliana erano validi per prevenire ogni rinascita di un equivoco neo-guelfo nella lotta d'idee e nella cultura nazionale, non potevano ispirare una politica di Stato che deve tener conto del Vaticano come di un elemento della vita diplomatica internazionale. In realtà l'opera di Cavour era l'opposizione più vigorosa ad ogni ingerenza neo-guelfa; la sua politica era assai più astuta di quella che gli potesse esser suggerita da una qualunque ideologia immanentista perché sconfiggeva l'assolutismo con risorse completamente realistiche. Sotto l'amministratore c'era anche qui il politico che aveva risolto modernamente i più difficili problemi dello spirito.

PIERO GOBETTI.