MOTIVI DI STORIA ITALIANA

I.

    Diplomazia e dilettantismo

    Dai nostri comuni sono sorti gli elementi della vita economica moderna. Il Comune è un governo di partiti, che insegna la vita politica attraverso le lotte civili. Il Signore che opporrà con calcolo astuto ai suoi rivali operosi di città gli interessi conservatori dell'economia agraria e la psicologia schiavista dei contadini ha imparato nel Comune le arti dell'uomo di Stato. Senonché accanto all'autonomia che ha fatto sorgere queste figure di diplomatici moderni, mentre da qualche secolo la diplomazia italiana era stata lo strumento inseparabile delle superiori arti pontificie, è mancata la garanzia dei movimenti autonomi. La spontaneità elementare dell'azione in questi albori della politica, doveva rimanere povera di austera-passione costruttiva.

    Lontani dalla politica armonia di Roma i Comuni oppongono alle cattoliche gerarchie un senso arguto del particolare; avvertono l'agile varietà dei bisogni individuali scordando l'abito unitario imposto dalla Chiesa per esigenze dogmatiche; e a gara con la diplomazia ecclesiastica rivendicano i diritti delle nuove classi contro l'edificio dell'impero feudale.

    Per una sorte singolare e sfortunata i Comuni non giunsero a proporsi problemi europei se non quando il periodo della vita economica comunale aveva ceduto alle nuove istituzioni dei Signori. Mentre Genova e Venezia avrebbero potuto rappresentare secondo valori unitari il problema italiano, mancò la coesione della penisola e l'interdipendenza di agricoltura e commerci.

    Entro questi orizzonti la morale non poteva sostituirsi alla politica, né la civiltà prodursi a contatto della vita civile e nazionale. Prevalse il senso cattolico dei limiti e la pratica della disinteressata comunicazione tra le idee.

    L'agilità della cultura e l'esercizio diplomatico impedirono la Riforma e tardarono l'evoluzione politica nazionale: nel 500 si determina stabilmente la fisionomia della nostra vita economica, che non si può alimentare di rigorismo etico o di ascesi organica; non è senso d'indipendenza e bisogno di limitarsi rinunciando e cercando la specializzazione, ma prolungamento eclettico della vita individuale.

    La morale protestante creava insieme alla libera discussione un senso di solidarietà nell'economia del lavoro e Lutero ha qualche diritto di precursore di fronte all'umiltà moderna del taylorismo; invece la libertà in Italia era l'artificio mantenuto da un tranquillo spirito di conciliazione. Le Corti, unico centro dì vita intellettuale, seguivano pacificamente il modello dogmatico di Roma, cosicché lo spirito critico dovette appagarsi, anche quando si trattò di Galileo, di risonanze dilettantesche, che neanche il martirio seppe trasformare in preparazione ascetica.

    La nostra riforma fu Machiavelli, un teorico della politica, un isolato. I suoi concetti non trovarono uomini capaci dì viverli, né un terreno sociale su cui fondarsi. E’ uomo moderno perché instaura una concezione dello Spirito ribelle alla trascendenza e pensa un'arte politica organizzatrice della pratica e professa una religiosità civile come spontaneità di iniziative e di economia

    Storicamente l'esperienza di Machiavelli si potrebbe definire come la Signoria più il Comune, se lo studio della romanità non ci avesse aggiunto alla sua osservazione un più ampio sfondo realistico.

    Veramente in lui l'opporsi alla Chiesa fu istinto di politico mosso in qualche modo da gelosia di mestiere, non già risultato di coscienza laica e rionale come ha voluto qualche pedante contemporaneo. Per le sue stesse abitudini di osservatore doveva avere il gusto dell'etica realistica e i1 culto dello Stato. Invece queste complesse attitudini poterono sembrare un desiderio di contemplazione d'arte e 1a serietà del suo concetto di virtù parve attenuarsi in tenui giochi di astuzia, perché le risorse del diplomatico si mostravano in primo piano. In realtà la fama di negligenza morale che lo accompagna e l'opinione comune del suo dilettantismo sono prodotti dalla mancanza di consenso: e gli italiani alla loro volta mancarono all'appello perché la Corte li aveva educati al culto piccolo-borghese dell'onore parassitario e ne aveva fatti degli aspiranti impiegati. Il principe sognato da Machiavelli avrebbe trovato nel 500 gli stessi elementi e le stesse psicologie che hanno aiutato Mussolini nella sua presente rivoluzione piccolo-borghese. Gli artefici della politica non riuscivano a superare gli ostacoli opposti dai limiti di un ambiente meramente diplomatico.

    Due secoli dopo il Vico deve accontentarsi di risognare il mondo della praxis intuito da Machiavelli, e non trovando eco alcuno nella realtà deve rifuggire dalla politica e votarsi a una elaborazione ascetica di concetti storici.





    La sostanza di queste osservazioni potrebbe suggerire un equivoco che non è nei nostri intenti se alcuno volesse derivarne l'affermazione di una necessità che in Italia si formi un movimento riformatore. Invece sarebbe assurdo generalizzare l'esperienza anglo-sassone. Si tratta per noi di continuare le nostre doti istintive che ci portarono più naturalmente verso una riforma (rivoluzione) politica che morale. Nell'insegnamento di Machiavelli c'è la finezza del cittadino esperto di contingenze storiche non il programma rumoroso dei contadino che proclama il libero esame e sente il bisogno di provvedere alla sua formazione spirituale in pubblico. Un'indagine dei motivi psicologici dominanti nella storia italiana potrebbe perciò opportunamente intitolarsi: Del riserbo.



II

    Maturità piemontese nel 700

    All'Italia indifferente fu imposta la rivoluzione da motivi esterni e da contingenze di politica europea. Solo il Piemonte rudemente travagliato intorno a un'esperienza disordinata di forze e di lavoro seppe compiere la sua missione.

    Alla fine del settecento complesse esigenze di modernità caratterizzavano la vita sociale piemontese. La fisionomia generale della vita agricola poteva riassumersi nella lotta contro il latifondo. Veramente il governo piemontese, fondato su un'aristocrazia anche se moderato dal re, non perseguiva di proposito una politica favorevole allo spezzettamento della grande proprietà; questo era il risultato singolare di due condizioni, l'assenteismo della nobiltà, occupata negli impieghi e negli onori, e il forte peso tributario derivante dalla politica dispendiosa e bellicosa dello Stato Sabaudo. La classe dominante non poteva evitare che le imposte venissero a pesare sul patrimonio fondiario, anche se la danneggiavano direttamente, per mancanza di altre industrie o commerci; e d'altra parte non riusciva, assorta in altre cure, a far fruttare le terre tanto da soddisfare le esigenze del Tesoro. Così naturalmente doveva formarsi per una selezione di capacità inevitabile e connessa con le trasformazioni moderne della borghesia una nuova classe economica indipendente, capace di assolvere il suo compito e di creare una piccola proprietà. Questa classe non fu di coloni, ma di affittuari, per la maggiore indipendenza in cui si trova l'affittuario rispetto a1 padrone e per le sue attitudini a trovar denaro e spenderlo per migliorare la cultura. Senonché questa trasformazione portava con sé la miseria del coltivatore e generava un problema sociale sinora sconosciuto, il pauperismo. Il contrasto preoccupava vivamente i conservatori e si ebbe come ripercussione delle difficoltà obbiettive un singolare rifiorimento di letteratura economica di cui furono rappresentanti il Vasco ed il Solera. Col pauperismo nelle campagne si veniva manifestando il pauperismo cittadino a cui invano dalle classi dominanti si cercava di resistere con l'opporre un protezionismo operaio al protezionismo industriale. Tutte le lusinghe della politica sociale promossa per una vecchia astuzia del tiranno istintivamente democratico non riuscirono a impedire l'affermarsi delle differenze, e la politica dei conservatori valse soltanto a evitare le soluzioni intransigenti quando non erano ancora sufficientemente mature.

    Contemporaneamente alla lotta tra aristocrazia latifondista e affittuari e tra affittuari e proletariato si venivano ponendo, per la consuetudine di uno Stato laico e di un governo attivissimo, i problemi della vita sociale moderna, l'antitesi tra Stato e Chiesa, i rapporti tra mentalità militare ed economica, tra educazione letteraria e educazione civile. Qui i1 politico trovava terzetto per le sue esperienze, perché il Piemonte, Stato-cuscinetto tra interessi spagnoli e interessi francesi, diventava un osservatorio sempre più notevole. (Singolare la cultura in questo vecchio Stato nemico della cultura: Baretti, Radicati, Denina, Botton di Castellamonte, Gerdil, gli economisti, Alfieri).

    Un esempio dì psicologia, la figura del conte Napione, ci caratterizza conclusivamente questa complessa situazione dì eclettismo e di risveglio enciclopedico. Sorprendiamo in lui lo sconvolgimento portato nel valido buon senso piemontese dai compiti nuovi e raffinati d'economia moderna e di politica internazionale. Il Napione riusciva a salvarsi col guardare le cose da buon diplomatico, libero da ogni crisi spirituale. E’ la politica quella che naturalmente separa i valori, e dove la cultura lascerebbe troppe sfumature, impone pratiche classificazioni. Le soluzioni proposte dal Napione ai problemi del suo tempo sono quelle caratteristiche del piemontese lontano dalla metafisica e dal romanticismo: lo Stato al disopra della religione, anche se si è buoni cattolici, la scuola politica come diplomazia e non come letteratura o strategia. Non per nulla la vecchia classe feudale si veniva specializzando in Piemonte nell'adempimento della funzione militare. Con questa astuzia di amministratori anche i problemi più lontani si possono chiarire nel loro significato attuale e resterà sempre un modello di genialità il progetto che l'onesto e mediocre Napione presentò per una confederazione nazionale che riconoscesse suo capo il Pontefice, ma sopratutto servisse agli interessi piemontesi per la difesa contro la Francia. L'astuzia del leale servitore del re preveniva addirittura i sogni neo-guelfi.

    In questo movimento regionale l'opera critica di Vittorio Alfieri compie una funzione unitaria.





    La sua polemica antildogmatica, l’istinto pragmatista pronto a consacrare la validità di ogni sforzo di autonomia, la negazione della rivoluzione francese, la quale nonostante gli entusiasmi dei nostri illuministi diventava tirannide appena trasportata in Italia, l'elaborazione in parte cosciente in parte indiretta dei concetti di popolo, di nazione, di libertà superavano i limiti del movimento piemontese, lo ricollegavano a una tradizione, determinavano il nucleo sostanziale romantico del mito rivoluzionario che doveva governare il nostro Risorgimento. Le peregrinazioni alfieriane attraverso l'Europa, l'insistenza della sua polemica antiregionale portavano nella chiusa sicurezza demiurgica della vita piemontese, il respiro di una più ampia civiltà europea.

    L'invasione francese che per istinto di uomini di Stato non trovava tra i piemontesi gli entusiasmi che aveva sollevati nelle altre regioni del Nord, turbando e interrompendo un processo appena iniziato impedì l'organizzarsi di una aristocrazia che da una generica adesione agli ideali alfieriani riuscisse a un'azione politica positiva. Anzi l'incertezza delle contingenze genera due correnti imprecise di pensiero e di azione che sino al '21 tengono divisi gli spiriti tra ipotesi irreali. Gli aderenti al movimento rivoluzionario cercano per un lato, scimmiottando il sensismo, la loro consistenza ideale fuori delle tradizioni. D'altra parte i governi, fiduciosi nella reazione, fermi alla rivelazione di verità promessa dall'assolutismo vedono nei nuovi fermenti di idee anarchia e disorganicità e vi contrappongono l'ordine del passato. Tra questi equivoci le abitudini feudali continuano a governare il paese, miste con la destrezza dei diplomatici, sino al principio del secolo XIX.

    (Continua).

PIERO GOBETTI