LINEAMENTI DEL NAZIONALFASCISMO

    Il nazionalismo italiano nacque alla vigilia delle feste cinquantenarie del 1911, in un'atmosfera di brumose incertezze che ne velava le linee e ne attutiva il rilievo. Parve a molti - a molti, anche, di quelli che vi aderirono da principio, o almeno simpatizzarono con esso - che nazionalismo fosse sinonimo di patriottismo e che in sostanza il nuovo partito si proponesse di ridestare nei cuori italiani il sopito amore per la madre Italia. E invece il nazionalismo intendeva essere non solo un partito politico, ma una dottrina politica. Soltanto, questa dottrina doveva rimaner da principio celata per non abbagliare lo sguardo dei proseliti e del pubblico. Il nazionalismo, insomma, ne più ne meno di una sètta religiosa dell'antichità, aveva un contenuto esoterico, che poteva solo esser conosciuto e contemplato dagli iniziati ai misteri. E' il fondatore che ce lo dice: "Il nazionalismo veniva giudicato senza contenuto, perché aveva creduto bene di non scoprire troppo il suo contenuto che era magnifico e nuovo, quanto quello degli altri, di tutti gli altri, era povero e vecchio".

    Questo contenuto,"magnifico e nuovo" era di varia origine. C'era un po’ di Nietzsche, attraverso D'Annunzio e Scarfoglio: culto della violenza eroica, negazione del sentimentalismo umanitario, compiacenza per le pose gladiatorie, disprezzo del volgo servo ed ignaro, del "vile pedone". C'era un po' di positivismo spenceriano: lotta per l'esistenza, selezione, trionfo del più forte. Ricordo che uno dei più ferventi adepti del nazionalismo dimostrò in occasione della morte di Spencer, con quel suo stile abbondante di parole se non di pensieri, come e qualmente Spencer fosse stato il più grande dei filosofi passati, presenti e futuri, e come la sua dottrina fosse proprio l'ultima parola dell'intelligenza umana. C'era un po' di sindacalismo: esaltazione del fatto economico e delle organizzazioni delle forze produttive come elementi che dovevano dirigere, al posto delle vecchie formazioni politiche, la vita sociale. Ma c'era anche la divinizzazione tedesca dello Stato, nel quale e per il quale soltanto vivono gli individui e prendono scopo e senso i fatti economici, sociali, religiosi. Infine e sopratutto vi era molto, moltissimo nazionalismo francese, tutto Charles Maurras, letto, copiato, imparato a memoria e cucinato in tutte le salse. Dopodiché nulla di più naturale che i nazionalisti si presentassero come quelli che avrebbero aperto la strada "a una formazione italiana politica, morale e spirituale", espellendo ogni infiltrazione di pensiero straniero, e particolarmente "le sopravvivenze della rivoluzione borghese gallica e della rivoluzione socialista tedesca"; programma questo dell'espulsione delle idee straniere e della scrupolosa nazionalizzazione del pensiero, che essi naturalmente, avevano preso di peso dal solito vangelo francese maurrasiano.





    Questa dottrina nazionalista dai colori variopinti e chiassosi era dunque frutto di una mezza cultura, superficiale ed abborracciata; ma nella Beozia del mondo politico italiano era pur sempre qualche cosa e produceva un certo effetto, aumentato dalla orgogliosa assurance con cui veniva presentata come l'ultima parola della modernità originale. Pochi erano capaci, fra i politicanti italiani, di scorgerne e di rilevarne le lacune colturali, la superficialità astratta, le sbrigative semplicizzazioni; mentre d'altra parte il fervore suscitato negli adepti, e che fu ed è una delle grandi forze del nazionalismo Italiano, era tale che per questi veramente l'ipse dixit divenne la suprema norma intèllettuale. Così, il Maurras italiano poté a suo agio scorazzare per i campi della storia e della sociologia, con disinvoltura di teorico agile, originale e profondo: e poté; senza far ridere il pubblico, sbrigarsela dei profeti ebrei - degli antenati, cioè, del cristianesimo e della religiosità di cui ancora oggi vive il mondo - come d'una incarnazione "dell'eterna demagogia anonima e vagante"; ridurre "le idee democratiche; liberali e socialiste" a "immondizia da rovesciarsi nel vuoto degli spazi interparlamentari", sentenziare che l'Italia risorse "in nome delle idee dissolventi", perché al liberalismo italiano mancò il concetto di stato, ignorando così puramente e semplicemente il pensiero politico della Destra storica. E poterono anche, egli e i suoi costruire le basi ideali del nazionalismo italiano affermando che gli stati sono organismi che nascono, crescono e periscono (il che, come vedete, era nuovo ed illuminante); che la lotta delle nazioni va sostituita alla lotta dì classe, perché ci sono le nazioni proletarie e le nazioni capitalistiche; che il socialismo è sbagliato perché il problema economico non è di distribuzione ma di produzione; e che l'individuo non à ragione d'essere ché per lo stato, ma d'altra parte questo non ha autorità per sé, ma n'è investito dalla nazione (il che puzza maledettamente di contrattualismo alla Rousseau, alla rivoluzione francese); e che insomma la nazione è tutto, ma poi, essa, è indefinibile, perché è al disopra o a1 di fuori di tutto: non è ne democrazia, ne assolutismo, ne proletariato, né borghesia, ne repubblica, ne monarchia. Ego sum qui sum: indefinibile e inconoscibile come Dio, e, come lui, da adorarsi in silenzio, la fronte nella polvere.

Sovversivismo conservatore

    Il nazionalismo italiano svolse le sue teorie con "rigoroso procedere metodico" che riempiva di gioia, come egli stesso ci attesta, l'animo di Enrico Corradini. E passò, così, attraverso una serie di crisi interne. Chi non aveva ben capito, da principio, di che si trattava, finiva per andarsene, a mano a mano che progrediva la rivelazione della dottrina esoterica. Prima uscirono i democratici; poi i liberali; e così rimasero... i nazionalisti. Ma - nuova e stupenda applicazione del detto evangelico: cercate il regno di Dio, e il resto vi sarà dato in soprappiù - il nazionalismo, divenendo sempre più sé stesso, in un continuo eroico sforzo di ascetica purificazione, trovò le due cose che gli abbisognavano: i voti dei clericali e i quattrini degli industriali.

    Alla vigilia della guerra europea le basi teorico-pratiche del nazionalismo italiano erano definitivamente posate. In politica interna, il partito era innanzi tutto per l'autorità suprema e assoluta della Stato-nazione, e quindi contro il liberalismo, la democrazia, la massoneria, il socialismo. Una violentissima campagna antimassonica da una parte, le alleanze aperte con i clericali, consacrati come buoni patrioti, anzi gli unici buoni patrioti, dall'altra, avevano finito di dare la fisionomia al partito: fisionomia schiettamente conservatrice, ma di un conservatorismo - per usare una parola carissima ai nazionalisti - dinamico, che tendeva non a mantenere, come il meno peggio, i rapporti esistenti tra le forze politiche, ma a rivoluzionarli, in danno dei partiti di sinistra. Conservatorismo che prendeva in prestito dai sovversivi i gesti, il linguaggio, l'aggressività personale, la tumultuarietà piazzaiuola; ma - s'intendeva - non per rinforzare la piazza, sì invece per spodestarla a profitto dell'assoluta autorità dello stato nazionale. Spodestare la piazza demagogica da una parte, e dall'altra i liberali, che "non hanno più vitalità neanche per capire che son finiti". In economia, la tesi della necessità di aumentare la produzione, si traduceva per i nazionalisti nel più completo e intransigente protezionismo a favore delle industrie nazionali, in particolare a favore dell'industria pesante.





    Ma il pezzo forte del nazionalismo era, o almeno pareva, la politica estera, e logicamente, perché l'affermazione suprema e definitiva dello stato nazionale si verificava, secondo essi, all'esterno, nella lotta internazionale. Il loro motto; pertanto, era 1'imperialismo italiano. Esisteva, secondo essi, una gerarchia di nazioni in Europa, nazioni capitaliste e nazioni proletarie: e tutto il nazionalismo culminava nell'affermar la necessità di rivoluzionarla, questa gerarchia, "per portar su l'Italia". Le nazioni capitaliste - quelle, dunque, nel cui abbassamento consisteva l'imperativo categorico della nazione italiana erano la Francia e l'Inghilterra, che consèrvavano la loro posizione grazie al pacifismo armato. La Germania apparteneva anch'essa alla categoria delle nazioni bisognose di rivolgimento, come l'Italia, perché anch'essa aveva meno capitali dei suoi bisogni. Dunque, alleanza con la Germania. La quale alleanza, come spiegava una volta l'Idea Nazionale, non era puramente contingente, occasionale e temporanea, ma si fondava sopra dati necessari e permanenti: era insomma, qualche cosa d'immutabile ed incorruttibile come una idea di Platone.

    Alla vigilia della guerra europea il nazionalismo esercitava in Italia una forza d'attrazione non trascurabile. Molti italiani, che non prendevano troppo sul serio la "dottrina nazionalista" e neppure i suoi predicatori, trovavano tuttavia che questi compivano funzione socialmente utile reagendo, sia pure con eccesso, contro la democrazia massonica e francofila, e contro il demagogismo di piazza, in cui troppo facilmente cadeva il partito socialista. E così eran tratti a guardare con una certa simpatia il movimento.

Tra Francia e Germania.

    La guerra europea venne ad offrire al nazionalismo italiano una magnifica occasione per affermare la propria dottrina, mostrando nei fatti la riprova di questa. La Germania scendeva in campo contro la Francia e l'Inghilterra. Fra la famosa gerarchia europea che veniva messa in causa; era l'occasione bramata per rivoluzionarla e "portar su l'Italia". La linea di condotta di questa era dunque - per il nazionalismo - indicata senza contestazione: contro le nazioni "capitalistiche" occidentali.

    Il primo impulso del nazionalismo fu infatti per la guerra a fianco della Germania, ed è rimasta celebre l'invettiva dell'Idea Nazionale contro il "sentimentalismo austrofobo". I gregari si pronunciavano chiaramente, anche dopo la dichiarazione di neutralità. Ma i leaders, più prudenti, non si erano compromessi in formule troppo definitivamente impegnative. Sotto la veste di teorici dogmatizzanti c'era in loro - o almeno in alcuni di loro - stoffa di uomini pratici; e quel fiuto che li aveva condotti in parlameto e alla direzione di un giornale quotidiano, li avvertì ben presto che governo e paese non erano sulle direttive della guerra imperialista che sola avrebbe corrisposto alle loro teorie. E allora che fare?

    La "dottrina nazionalista" avrebbe forse imposto di battersi fino all'ultimo per le proprie idee, di tentare con ogni mezzo di trascinare il paese sulla via giudicata unica giusta. Ma sarebbe stato troppo sforzo d'eroismo, per il momento, riguardo al Mediterraneo. Invece nella egemonia franco-inglese, il nemico fu il pericolo germanico. Qui lo zelo dei neofiti passò spesso la misura: quelli che avevano sempre proclamato come la francofilia fosse la sifilide dell'Italia scrissero articoli per dimostrare come i democratici francofili fossero innocenti come bimbi appena nati, di fronte all'indurimento antipatriottico dei germanofili. E questa Germania che, come sapete, era alleata naturale, necessaria ed eterna dell'Italia - così com'è naturale, necessario ed eterno che due più due faccia quattro - divenne colei "che dal '66 del secolo avanti non aveva cessato mai la sua guerra" - naturalmente a danno dell'Italia, come provano le vicende di Venezia e di Roma -; ma che dico dal 1866?" da due millenni e più un’antitesi esiste nel centro della storia d'Europa, quella tra il pensiero latino e il pensiero germanico". Antitesi, questa, del pensiero latino e del germanico, che, inteso su 1a bocca del realistico e francofobo nazionalismo, dovette far esclamare a qualche vecchione 33 il "Nunc dimittis servum tuum, Domine".

La guerra reazionaria.

    Eppure - nonostante i ripieghi pietosi e le goffe capriole con cui la polemica intensiva del nazionalismo cercava di spiegare come e qualmente l'Italia, nazione dinamica, dovesse schierarsi a fianco dell'Inghilterra e della Francia statiche, contro la dinamica Germania, per conservare quel sistema europeo, che, secondo il nazionalismo di qualche mese avanti, avrebbe dovuto essere distrutto - nonostante, dico, tutta questa polemica da mozzorecchi, il nazionalismo italiano avrebbe potuto con qualche ragione sostenere ch'esso rimaneva fedele al suo spirito interno, se non alle sue tesi politiche. Quell'atteggiamento demagogico con cui esso si era presentato nell'agone politico, non era puro espediente pratico ed occasionale, ma rispondeva invece al suo carattere più profondo. I nazionalisti erano essenzialmente una piccola minoranza, ben decisa a divenire padrona, ad ogni costo, della vita pubblica, violentando la resistenza passiva della maggioranza. Occorreva a loro, per questo, la sospensione dei rapporti politici normali, la lotta rivoltosa, il colpo di mano a danno dei poteri costituiti. Ed ecco, la propaganda per la guerra intesista fornire a loro l'occasione di tutto questo: l'occasione di scendere in piazza, di esautorare il parlamento, di dominare il governo, di stabilire insomma la loro dittatura, a favore della propria forza politica e di quegli interessi economici di cui erano aperti sostenitori. La rivoluzione reazionaria e plutocratica: ecco quello che offriva la guerra al nazionalismo italiano.





    Tuttavia, da solo esso non bastava all'impresa. Minoranza, cercò altre minoranze, decise, come lui, a prepotere. Trovò i repubblicani, ben lieti di rispolverare, dopo cinquant'anni di oblio, il programma del "partito d'azione": i sindacalisti-anarchici della settimana rossa; i veri transfughi del socialismo, che avevano bisogno di qualche altra cosa per far fortuna; quei radicali che, impazienti di non essere stati prescelti da Giovanni Giolitti, volevano gustare la torta del potere, e servire, insieme, il Grande Oriente francese. Tutti costoro si trovarono, si squadrarono, si pesarono, conclusero che si poteva mettersi insieme per l'unica vera rivoluzione che valesse la pena di fare: la conquista del potere. E così dal nazionalismo nacque il nazional-fascismo, che nelle giornate del maggio radioso seppe persuadere il paese, piegare il parlamento. Fra un nazionalismo più vero e maggiore, che, sublimando la sua intima essenza, si spogliava di tutte le scorie. Fra la sottomissione del parlamento, la messa in disponibilità della costituzione, la dittatura militare e poliziesca, e, dietro tutto questo, "la marcia dei produttori".





    Pure la vittoria non era completa. Il governo non era in mano dei nazional-fascisti, se anche ne subiva la influenza; il parlamento continuava a riunirsi, di quando in quando; l'ancien régime, almeno virtualmente, almeno in teoria, esisteva ancora. Il male non era che la guerra si prolungasse, poiché, anzi, "c'era urgenza di una guerra duramente combattuta"; il male non erano le offensive sanguinose e sterili del Carso: "quando ripensiamo a quello che avviene in questi giorni lassù, lungo 1'Isonzo e sul Carso", scriveva il duce del nazionalismo dopo la offensiva più sanguinosa e più sterile di tutte, quella dell'ottobre 1915, "mandiamo un grande respiro di sollievo e ci sentiamo consolati"; il male non era neppure l'accumularsi dei debiti, la distruzione economica, poiché dieci generazioni di famiglie di produttori "non sarebbero bastate a promuovere nel mondo tanta espansione delle loro industrie, quanta dal solo nome dell'Italia ne avranno domani". No, tutti questi mali erano beni supremi. Il male vero era la permanenza, in Italia, del "vecchio liberalismo di temperamento", del "regime liberale", che impediva di prendere "disposizioni straordinarie", che riapriva il parlamento, non badando che "chi crei impedimenti, diminuzioni, debilitazioni, si toglie via e si passa oltre"; che non s'ispirava, insomma, all'esempio della già detestata "rivoluzione borghese gallica", quando "anche là ci dovettero essere quelli che invocavano la concordia nazionale, la concordia dello statu quo, la concordia del vecchio regime; ma i condottieri della rivoluzione, quelle furie scatenate, preferirono quella concordia dinamica che sola poteva creare e alimentare di fiamma viva gli eserciti della Francia guerriera e vittoriosa", preferirono cioè, il Terrore. Con più brevità, il capo del sindacalismo interventista - parte essenziale del nazional-fascismo - invocava contro i socialisti italiani le "quattro palle".

LUIGI SALVATORELLI.