LES DEMI - SOLDES
Durante il periodo della "dittatura" giolittiana il Partito socialista era stato quasi maturato per diventare partito legalitario. Se l'ambiente parlamentare presentava ancora qualche ostacolo da superare, qualche compromesso da trattare, la struttura e lo spirito generale delle organizzazioni si erano modellati già sufficientemente alla struttura ed allo spirito burocratico, unica realtà – triste realtà – esistente dell'organismo statale in Italia. E' un punto della storia italiana dell'avanti guerra, illuminato in viva luce dalla indagine di Mario Missiroli, nella Monarchia socialista. La guerra di Libia provocò uno scarto fatale non tanto per la crisi suscitata con la secessione di Bissolati e dei suoi amici, quanto pel fatto che il partito socialista si trovò disorientato, ricacciato all'indietro di alcuni anni e ancora davanti a un nuovo e ormai sterile processo di revisione del proprio bagaglio ideologico, che era stato messo "in soffitta" e stava bene lì. Il partito socialista, che, nella sua maggioranza, era diventato così alieno e così impreparato alla rivoluzione (lo spirito delle masse non permetteva di ammonire che rivoluzione significava privazione); tuttavia ancora una volta fu padroneggiato precisamente da quei rimasugli rivoluzionari che per pigrizia morale o per calcolo di miope furberia si ci era adattati a tenersi in casa, come una riserva per i tempi incerti. Fu quella la prima campagna di Benito Mussolini contro il socialismo italiano, ed io sono persuaso che fece più male allora, che era nel partito in una posizione preminente, che dopo che n'è uscito. L'azione dissolvente di Mussolini in seno al partito, nel periodo 1912-14, culminata nella strage di polli e in altri goffi vandalismi perpetrati nella famosa "settimana rossa" ha lasciato un mal seme di nuove equivoche velleità rivoluzionarie in un partito che aveva già voltato le spalle alla rivoluzione. Serrati ora non fa che ripetere, mutatis mutandis, gli atteggiamenti mussoliniani, e questo fatto è una misura sufficiente della inferiorità di Serrati di fronte a Mussolini e del nuovo e maggior male che, dopo Mussolini, ha cagionato Serrati al suo partito, dalla fine della guerra in qua. Eppure, malgrado le derivazioni e le involuzioni, per le quali il partito socialista si trovò mal preparato davanti al grande evento della guerra europea, esso era già di spirito tanto conservatore che per istinto, più che per una determinazione maturata dallo studio delle cause, fu contrario alla guerra, insieme coi cattolici e con Giolitti. Alla prima ventata foriera del più vasto uragano che si stava per rovesciare sull'Europa, e che avrebbe sconvolto quell'equilibrio economico, nel quale solamente era possibile la graduale ascensione delle classi meno abbienti, e il loro assorbimento entro l'ambito delle istituzioni, il partito socialista ebbe la paura più che la comprensione del pericolo imminente, abbandonò armi e bagagli sul non glorioso campo rivoluzionario, dimenticò le recenti schermaglie parlamentari contro Giolitti, e rientrò nelle file conservatrici giolittiane. E' vero che lo fece senza una coscienza precisa di ciò che faceva e senza capire tutto l'intimo significato dell'avvenimento, a cui portava un così notevole contributo. Schierandosi di fatto coi neutralisti, esso non capì il significato storico del così detto neutralismo, che significava conservazione dei valori europei, equilibrio, mercé il quale poteva attuarsi un programma riformista. I socialisti, i cattolici e Giolitti, con altri pochi gruppi isolati, in gran parte d'intellettuali, sono stati gli ultimi veri conservatori d'Italia, alla vigilia della guerra. I socialisti ebbero una vaga intuizione di ciò, sentirono per istinto di conservazione che dovevano volere anche la conservazione politico-economica europea, e dovevano quindi rientrare nel programma legalitario giolittiano, dal quale la prepotente minoranza mussoliniana li aveva fatti allontanare nel' 12. Furono guidati da questo istinto, ma il pensiero era intorbidato dal rivoluzionarismo latente, ed avevano quasi vergogna di quello che facevano: versavano fiumi di lagrime espiatorie sul misero Belgio, e Tonino Graziadei faceva l’uomo preoccupato di obbiettività, pesando il pro e il contro dell'intervento sulle bilancine del farmacista. Mussolini, l'ispiratore della "settimana rossa", uscì dalle file socialiste, e fu per la guerra. La scissione si verificava su di una linea perfettamente logica. La neutralità era il bisogno di conservazione, l'intervento, la guerra era la porta aperta alla rivoluzione: era logico che per quella passasse Mussolini. Questi, nel 1915, si trovava in una direzione ideale molto vicina a quella di Lenin e dei suoi amici, i futuri bolscevichi, i quali infatti, gioirono anch'essi dal loro esilio svizzero dell'entrata in guerra della Russia. Se non che, logico nel suo slancio iniziale e nelle sue linee generiche, anche il fascismo nasceva coi suoi equivoci organici. Uscito dall'equivoco socialista (un conservatorismo che crede suprema sapienza tenersi in riserva una ritirata rivoluzionaria) entrava nell'equivoco delle varie tendenze eterogenee che determinarono l'intervento italiano, sotto la spinta di idee e sentimenti diversissimi e contrastanti: da una parte le tendenze democratiche per quel complesso di ideologie sopravviventi, le quali si possono con abbastanza approssimazione indicare sotto il titolo di "wilsonismo", e che ebbero la più caratteristica espressione nella frase bissolatiana: Soldato dell'Intesa (dell'Intesa, non dell'Italia); da una altra parte le tendenze dei partiti di destra e nazionalisti, i quali considerarono anche questa guerra alla stregua delle altre, come un gioco di forze, dentro le quali era opportuno far giocare anche quelle italiane, per risolvere alcuni problemi particolari sciaguratamente non risolti a tempo debito e rimasti anacronisticamente sospesi, o per ottenere particolari vantaggi economici, coloniali, ecc. (Sacro egoismo). N'è l'una né l'altra tendenza pensava che quelle ideologie sarebbero naufragate e quegli interessi sarebbero stati soffocati dentro l'ondata oceanica, nella quale mescolavano e confondevano, senza sapere per quanto tempo, le nostre modeste acque mediterranee. Il fascismo - bisogna riconoscerlo - durante la guerra e subito dopo non fu un beneficiario, ma piuttosto una vittima di quelle alleanze e di quegli equivoci. Esso portò a combattere sotto le bandiere regie elementi anarcoidi schiettamente rivoluzionari, e subito dopo Versailles dovette partecipare della responsabilità delle disillusioni nazionali. La sua posizione fu poi aggravata dal fatto che esso poteva tanto meno giustificare la propria condotta davanti ai suoi proseliti, in quanto che il fine ultimo della sua azione veniva a mancare: l'Italia, malgrado tutto, non faceva la rivoluzione, quella rivoluzione che se fosse scoppiata anche nella primavera o nell'estate del 1919, avrebbe ritrovato alla sua testa molto più probabilmente Mussolini e i comunisti torinesi che Turati, Treves e lo stesso Serrati. Invece il socialismo, alla fine della guerra, si trovava in una situazione privilegiata di fronte a grandi masse, nelle quali facilmente si radicava la convinzione nelle virtù profetiche dei capi. Questi si trovavano, con poca fatica, davanti ad un bel tesoretto costituito dalla fiducia popolare. In quel momento bastava che il socialismo continuasse per la sua strada, ritrovata quasi per caso durante la crisi della neutralità, e che sfruttasse tutti i vantaggi che presentava il programma giolittiano di Dronero, per la effettuazione di un'azione di governo social-democratico. Esso, infine, doveva intuire questa conseguenza rigidamente logica degli avvenimenti precedenti: che, non avendo voluta la guerra, non poteva volere la rivoluzione. Che se poi si sentiva proprio ripullulare in seno i bollenti spiriti, e, andando a ritroso del proprio cammino, voleva saltare un'altra volta il fosso della rivoluzione, allora non doveva perdere l'unica occasione che gli si presentava, quando migliaia di "compagni" e migliaia di malcontenti erano ancora soldati ed avevano ancora in mano le armi ed ancora nello spirito l'abitudine di maneggiarle indifferentemente; doveva attuare l'unica rivoluzione possibile, la rivoluzione di quelli che tornavano dalla trincea, e non trovavano lavoro. In questo caso, con rapida mossa, doveva "smobilitare" la sua propaganda di guerra e "mobilitare" una propaganda con tutt'altro spirito, che andava diretta tra le fila dei reduci. E, come prima conseguenza di questo rovesciamento di programma, doveva mettere da parte gli elementi riformisti (conservatori) e richiamare a sé o allearsi con Mussolini. Non fece niente di tutto questo: lasciò che il governo disarmasse i proletari e armasse la Guardia regia: lasciò che inconsulti rancori e sordidi egoismi umiliassero e invelenissero i reduci; lasciò che gli organizzatori ripetessero su più vasta scala gli errori del 1912-13, fino al pietoso conato dell'occupazione delle fabbriche. Il socialismo, con le sue tante e ricche organizzazioni, con le sue fitte schiere, con la sua bella disciplina, col prestigio acquistato durante la guerra, e non solo in mezzo al proletariato, sperperava in pochi mesi queste ricchezze come un qualsiasi pescecane senza cervello. In queste circostanze era fatale che tornasse l'ora di Mussolini, a breve scadenza; ma era ugualmente fatale che, tornando per effetto di una mancata chiarificazione del socialismo, dovesse sentire esso stesso, per contraccolpo, nel proprio seno, gli effetti funesti di quel fatto. Il programma dei fasci, steso da Mussolini – si ricordi – non prima dell'autunno del 1919, lasciava ancora aperte le porte a tutte le eventualità rivoluzionarie (riconoscimento delle principali rivendicazioni proletarie, sindacalismo, nessuna pregiudiziale sul regime, la Costituente, eco.). Mussolini era tutt'altro che sicuro di quello che l'avvenire poteva riservare, e con gelosa cura si conservava ampia libertà di movimenti. Ma l'errore socialista lo costrinse a rimanere nelle ibride alleanze di guerra (destra e nazionalismo) e ad inquadrare le proprie masse – alle quali doveva dare uno sfogo – in quella che è stata ed è ancora la parte più odiosa dell'azione fascista, lotta di proletari contro proletari, la quale viene aizzata e sfruttata da interessi ristretti, egoistici, sordidi, che hanno giustificata ampiamente la frase dannunziana dello "schiavismo agrario". Malgrado tutto questo risucchio di equivoci, che è andato salendo da mesi, malgrado il peggiore di tutti gli equivoci, cioè i menzogneri ed ipocriti "blocchi" delle elezioni del’21, io penso che il perno della lotta tra socialisti e fascisti resti sempre il problema non risolto nel 1918-19, alla fine della guerra, vale a dire eminentemente un problema di disoccupazione. Il socialismo non capì questo fatto, che saltava agli occhi di tutti, che specialmente dopo la guerra il proletariato non si esauriva nei tesserati delle camere del lavoro; che s'era formato un vasto proletariato ai margini della borghesia, forse difficile ad individuare ed irregimentare, perché composto in buona parte di spostati, ma che appunto per questo richiedeva tutta l'attenzione e le cure di organizzatori sagaci, per non lasciarselo sfuggire. Bisognava ricordare che le "giornate di luglio" in Francia, furono in buona parte l'opera degli spostati delle guerre napoleoniche, dei demi-soldes. La rivoluzione fascista, a cui assistiamo oggi in Italia, ha molti punti di contatto col fenomeno francese del 1830. Al chiudersi della guerra, si avanzava una schiera eterogenea di paria, che si trovava in una condizione molto inferiore a quella del proletariato organizzato. Questo negò loro di riconoscerli, per uno spirito di chiuso ed avaro conservatorismo; lo stato li abbandonò a se stessi. Dopo pochi mesi quelle classi di diseredati, cacciate dal bisogno, si avventavano all'assalto più facile e più promettente di bottino, quello delle organizzazioni dei proletari tesserati, i loro parenti benestanti. Un episodio della lotta di popolo magro contro popolo grasso. Gli interessi agrari, industriali, ecc., hanno sfruttata una lotta, che, messa in termini economici, è stata di vera e propria concorrenza, giocando al ribasso sulla disoccupazione, avendo di mira precipuamente la diminuzione del tasso dei salari. MARIO VINCIGUERRA.
(Da Il fascismo visto da un solitario di prossima pubblicazione presso l'editore Piero Gobetti).
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