LETTERE SCOLASTICHE

IV.

Esiodo, il maestro del villaggio

    Caro Gobetti,

    Tra monti e paludi, fuori dalle vie del mare, una miserabile terra, trista d'inverno, tremenda d'estate, buona in nessuna stagione.

    Su questa terra, figlia di questa terra, una razza di gente umile e rozza, che un'antica maledizione ha condannata a vivere del suo aspro lavoro: oziosa e intemperante per natura, laboriosa e sobria per necessità, egoista più che avara, sordida più che previdente, nemica del potente più per invidia e paura che per istinto di ribellione, credula e diffidente, misogina e sensuale, superstiziosa più che religiosa, disperatamente pessimista e ferocemente individualista, come tutti coloro che vivono a eterno contatto con le forze elementari e brutali della natura.

    Questa razza è quella del contadino beota contemporaneo di Esiodo, ma potrebbe anche essere quella del contadino calabrese contemporaneo del comm. Michele Bianchi, perché è, insomma, la razza del contadino di tutti i tempi.

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    Su quella terra nacque e su quella terra visse non meno di otto secoli prima di Cristo, Esiodo, il primo e perfetto maestro di villaggio, autore delle Opere e giorni, il primo e perfetto libro di lettura per la scuola rurale. Veramente Esiodo oriundo non era di quel miserabile borgo sotto l'Elicona: ci si era stabilito suo padre, capitato li da Cuma di Eolia, varcando gran tratto di mare sulla nera nave, per sfuggire la triste povertà; ed Esiodo era venuto su fra quella gente, simile a loro ma diversa da loro, Beota ma Cumano, contadino ma Omerida, e si fece da se il maestro di quella gente. Ma a quei miserabili più bruti che uomini, non andò mica a narrare, per ammaestrarli, la favola di Achille o di Odisseo che i rapsodi ricantavan per le chiare città del litorale, ma gli argomenti al suo ragionare più che cantare egli trasse tutti e soli dall'abbietta e disperata vita dei contadini fra cui egli viveva.

    Anche miti narrò: ma quelli scelse che dessero a quella gente la ragione della loro triste esistenza: la vendetta di Zeus per la colpa di Prometeo reo di aver troppo amato, lui Dio, gli uomini; e la successione delle età degli uomini: da quella d'oro quando gli uomini vivevano come Dei, spensierati, senza fatica e senza pianto, e la terra produceva da se ogni frutto e la vita era una continua ribotta, e alla fine li pigliava sonno e morivano così senza neanche saperlo; fino a quella del ferro, quella d'oggi, che meglio sarebbe stato o viver prima o nascer dopo, e tutti son nemici a tutti, e la gente si fa giustizia di sue mani, e più è onorato chi più mal fa, e la pudicizia e la giustizia sono salite al cielo, vestite di bianco, e qui non c'è rimasto che invidia e maldicenza e iniquità e miseria.

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    Ma Esiodo, dopo essersi con la sua gente disperato di tanti mali, non li lascia alle prese co1 loro tetro pessimismo, ma li conforta e li sorregge: li ammaestra, cioè li umanizza, li aiuta a disfarsi bruti ed a rifarsi uomini. "Zeus ha posto alle bestie la legge di mangiarsi fra di loro, ma agli uomini ha dato la Giustizia". Ecco il riscatto: la fede in Dio, la pratica e l'attesa della Giustizia.





    Gli uomini dell'età argentea, per esempio, sono stati sterminati perché non rendevano onori agli dei beati; noi preghiamo e sacrifichiamo agli dei con pietà e purezza, essi ci daranno del bene; l'occhio di Giove vede tutto se vuole, e Giove drizza lo storto e ingobbisce il superbo; e ci sono per la terra almeno tre volte diecimila angeli di Zeus, custodi degli uomini, e vanno dappertutto espiano i giudizi e le azioni dei potenti: e poi, o tardi o tosto, l'eccesso stesso dei mali, richiama in terra la Giustizia, che viene e muove procellosa, vestita di bruma, per città e popoli e dà male a chi fece male; ed ecco allora torna, con la giustizia, l'età dell'oro che si piangeva perduta, "fioriscono città e popoli, e per la terra non è più guerra sinistra ma pace che ci risparmia la gioventù, non più fame né disperazione, ma festa e abbondanza di tutto, ghiande, miele, lane, figli che assomigliano ai padri, e ogni bene, sottomano, senza che la gente si debba affidare al volo delle navi malsicure".

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    E per avere giustizia praticar la giustizia. La pratichino gli umili in casa fra figli e padri, tra fratelli e fratelli, e fuor di casa fra parenti e parenti, tra vicini, e vicini, ma la pratichino soprattutto i potenti, i principi, i basileìs. Non è solo l'antica vendetta di Zeus che ha fatto tanto male agli uomini, ma è anche la imminente oppressione degli uomini potenti sugli uomini umili, dei principi sui sudditi, dei basileìs sui kahoì.

    Questi signorotti, prepotenti e vili coi deboli, come lo sparviero con l'usignuolo, son venali con chi può spendere, e nel rendere giustizia si fan comprar dai doni, e spesso causano con la loro malizia la rovina di tutta una città, e per la loro stoltezza chi ne va di mezzo è il popolo.

    Esiodo, il contadino caro alle Muse, il maestro della kòme beota, in quella primordiale lotta fra le classi, prende, naturalmente le parti degli umili, che sono anche le parti sue, perché anche lui è vittima della iniquità dei grandi, e insorge arditamente contro i potenti, e li chiama stolti e venali, e denunzia ed enumera le loro malefatte, e parla a loro senza riguardo: "O re, tenete conto anche voi di questa giustizia: ché vicino agli uomini ci sono gli dei che spiano chi rispetta la giustizia e chi no; e la Giustizia, figlia di Zeus, quando alcuno in terra l'offende, fa suoi piati in Olimpo seduta a lato del padre, e alla lunga chi fa male ad altri fa male a sé, e la cattiva azione ricade su chi l'ha fatta".

    Non però Esiodo dà per consiglio alla sua gente di mettersi contro i potenti. "dissennato chi pensa di porsi contro il più forte: vincere non potrà, e avrà con la vergogna il danno".





    Esiodo resta perciò pessimista; ma mentre si attende che torni il regno di Dike, e con questo la composizione dell'aspra e ineguale competizione, un altro modo addita Esiodo a suoi villani, per risolvere la questione, e liberarsi dalla soggezione dei potenti e dei ricchi: quella di divenir essi ricchi e potenti a loro volta; e con che mezzo? col lavoro: "Se lavori, presto sei ricco e invidiato: e alla ricchezza s'accompagna virtù e rinomanza: e allora tu sei simile a un Dio".

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    Ed ecco dove Esiodo, come maestro rurale, è originale e grande: nell'aver posto a base di tutto il suo insegnamento il fatto "lavoro".

    E' risaputo che la parte più caratteristica di quel suo libretto è una serie di precetti sui lavori agricoli, sulla loro esecuzione e distribuzione, una specie di Pescatore di Chiaravalle scritto da un abate di genio; ma anche all'infuori di questa parte,che ha dato il nome all'opera, tutto il resto del poemetto è, in sostanza, un inno al lavoro. "Le opere e i giorni" di Esiodo sono la esaltazione del lavoro, anzi la riabilitazione del lavoro, e il motivo dominante ne è questo:

    "somma felicità è il vivere senza lavorare; ma questa felicità fu di tempi passati, sarà forse di tempi futuri; per adesso lavorare bisogna, e fuori del lavoro non c'è ne vita ne salute".

    Fin dai primi versi, dove parla delle due Eridi, la cattiva e la buona, dice che la buona è buona perché "sveglia al lavoro anche l'uomo infingardo". E tutta la parte morale, i famosi ammonimenti a Perse, si assommano effettivamente nell'imperativo "lavora": lavora quando si levan le Pleiadi e lavora quando le Pleiadi tramontano, e lavora quando l'aurora guarda Arturo, e quando nascono le Iadi e Orione e quando spariscono, e lavora quando il sole dardeggia la sua vampa sudorifera, e quando Giove d'autunno piove, e quando primavera mostra il capo spolverato di bianco; il lavoro tien lontana la fame, la fatica è via alla virtù, il lavoro fa l'uomo caro agli Dei, il lavoro fa dell'uomo un Dio.

    E il perfetto tipo di umanità è per Esiodo "un pezzo d'uomo di quarant'anni, che, mangiatosi a colazione in quattro bocconi un pane d'otto quadre, se ne va dietro ai bovi, e quand'è sul lavoro traccia dritto il suo solco, e non si distrae a guardare i compagni, ma tutto il suo animo è nel lavoro"; come il tipo più abbietto è quello di "colui che vive senza far nulla, simile ai fuchi ottusi e inerti, che consuman la fatica delle api da miele, scioperati, buoni solo a mangiare".

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    "Per il lavoro gli uomini diventano ricchi di greggi e di roba...: e se lavori presto ti arricchirai e la gente avrà invidia di te": ecco il pregio più evidente del lavoro e più persuasivo per i conterranei di Esiodo: ed Esiodo lo sa e insiste su questa nota. Fin dai primi versi dà di questi consigli alla sua gente: "badate prima a far roba poi v'impaccerete di litigi e di beghe"; e a metà torna a dire: "Se l'animo tuo davvero aspira a ricchezze, fa a modo: lavora, lavora e lavora"; alla chiusa del poemetto ribadisce: "beato e ricco chi, seguendo questi miei precetti, lavora...".

    Intorno all'equazione "lavoro = ricchezza" Esiodo "organizza" tutta la vita de suoi alunni. La produzione della ricchezza e la difesa della ricchezza acquistata sono la base dei rapporti fra uomo e uomo: centomila miglia lontani dai parenti, "in un'occorrenza i vicini son già a soccorrerti anche svestiti, i parenti si stanno ancora stringendo la cintura"; ma anche coi vicini andar guardinghi: "dona a chi dona, e a chi non dà, non dare; e della donna diffida, ché ti viene intorno "con la veste stirata sul culo e ti fa girar la testa colla lusinga del suo cinguettio, e intanto ti spia per tutta la casa, e chi si fida di lei si fida dei ladri"; e aver un figlio unico non è male "perché così s'alimenta la sostanza paterna, e la ricchezza cresce nella casa": ma se la famiglia è numerosa, meglio, e perché Giove più dà a chi più è, e in più si lavora, e più si risparmia".

    E la preoccupazione della ricchezza è quella che presiede ai rapporti, non solo fra uomo e uomo, ma anche fra uomo e Dio: "Come più puoi onora gli Dei immortali con mente santa e Pura: propiziali con libagioni e sacrifici e quando vai a letto e quando spunta la sacra luce, perché ti tengano sereno il cuore e l'animo, e tu possa comprare il pezzo dell'altro, non l'altro il tuo".

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    Pratiche religiose, accanimento al lavoro, lotta con la miseria, invidia ai " signori" , ecco i motivi dominanti della vita del contadino beota dei tempi di Esiodo (e non solo di quello, né solo di allora), ed ecco anche gli argomenti essenziali dell'insegnamento di quell'antichissimo (e modernissimo) maestro di villaggio. Il quale parla alla sua gente come si parla agli umili, per proverbi e parabole, e mutando in mito tutto quel ch'egli tocca nel suo discorso. Perché egli è anche poeta: una volta sull'Elicona gli si son rivelate le Muse e l'hanno assunto alla regione dei canti, e come ex-voto per la grazia egli in quel luogo consacrerà il tripode orecchiuto che avrà vinto con un suo inno a Calcide d'Eubea di là dall'èuripo; realmente egli aveva in se la semente del cantore, perché suo padre veniva da Cuma d'Eolia, la culla di ogni poesia, ed egli era venuto su fra quei Beoti, indigeno ma forestiero, villano ma poeta.





    Forestiero e poeta, ma indigeno e contadino. Egli incomincia il suo poema, la sua lezione, nel nome del Padre degli Dei, perché egli crede e teme e confida nel Dio, ne più ne meno che i suoi uditori; e si scaglia contro Perse, contro l'altra umanità, poltrona, viziosa, pettegola, parassita, perché quel Perse non è l'uomo cattivo in astratto, ma è suo fratello, e da lui non ha avuto che dispiaceri; e insorge contro i potenti, perché quei potenti l'han rovinato con la loro venalità, la loro dorophagia; e teme la miseria e la fame perché fame e miseria ha provato, e predica il lavoro perché anche lui è artiere d'ogni arte, e anche lui sa tracciare, a esempio d'altrui, un solco bello dritto, e accomodarsi l'aratro da sé, e mettersi insieme un carretto con cento pezzi di legno.

    E così il poeta contadino assiste il suo prossimo nel travaglio del suo "umanarsi", "umanandosi" con lui: uomo lo fa, ma lasciandolo contadino, perché uomo egli è divenuto, restando contadino: superstizioso lo trova e superstizioso lo lascia, solamente volge la sua superstizione a pietà, da una parte, a proprietà e ad igiene dall'altra; taccagno e diffidente è quel contadino, e il maestro non si incaponisce a togliergli taccagneria e diffidenza ma intende mutare in ragionevole prudenza e in previdente risparmio, non disgiunti l'uno da tempestiva liberalità, l'altra da ponderata fiducia in chi la merita; e anche pel lavoro, martella assiduo il ritornello del faticare e dell'operare, ma egli sa bene che l'ideale del suo uomo è l'ozio, e concede pure della pause a quel diuturno faticare, e la sua poesia non è mai tanto suadente come quando canta il dolce far nulla: "quando il cardo è in fiore - ricordi ? - e la strepitosa cicala posata sull'albero versa il suo arguto canto fitto fitto di sotto l’ale, nel tempo del caldo snervante, quando più grasse sono le capre e più buono il vino, e più lascive le donne ecc. allora è bello bere del vino rubinoso, sedendo all'ombra, rimpinzato di mangiare fino a rècere, con la faccia rivolta dalla parte della brezza, mentre l'onda del rivo trascorre via continua e pura".

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    Tale m'è sempre parso Esiodo: il tipo perfetto del maestro di villaggio. Ed anche oggi il maestro classico per la nostra scuola rurale, è un Esiodo moderno, è un Ascreo visitato dalle Muse, è un contadino che sappia di lettere.

    D'accordo che questo maestro nessuna scuola magistrale ce lo farà mai: un maestro così, se si fa, si fa da sé. Ma è certo che se una scuola magistrale sarà in grado di meglio preparare un maestro così fatto, questa non sarà una scuola che sia classica o umanistica perché dentro ci si sia messo come materia centrale il latino, ma sarà una scuola in cui insegnamento fondamentale sia quello che ponga in grado il maestro contadino di rispondere ai grandi perché dei fanciulli grandi e piccini che vivono in contatto con la natura: il perché dell'andar degli astri, e del soffiar dei venti, e del correre delle acque, e del mutarsi delle stagioni, e del nascere e del morire di tutte le creature; i perché intorno a cui si affaticarono i poeti–filosofi della scuola ionica, e intorno a cui s'affaticò Socrate, finché fu giovane, prima cioè d'esser Socrate; i perché dei quali mi assedia la mia Luisotta e, davanti ai quali io resto così spesso reticente e imbarazzato e dolente di veder sprecata, per l'ignoranza mia, tanta bella e buona curiosità.

    Ma questo insegnamento non istia da sé nella nuova scuola magistrale "classica non classica", ma vi sia tutt'uno con l'esercizio dell'arte di cui dovranno vivere gli scolari del futuro maestro; sì che la nostra scuola magistrale "classica" sia una fattoria, un'officina, una bottega, dove anche si insegni la storia della natura. E insegnamento di lettere non ve ne sia affatto, o quel poco vi sia ridotto tutto alla lettura, continuata e fatta per diletto, a veglia, dei grandi libri del popolo.

    Ma una scuola così, sta sicuro Gobetti, nessun governo di nessun filosofo ce la darà mai: se la darà il popolo da sé, appena potrà. Ma perché possa, occorre a noi, che vogliamo essere di questo popolo gli illuminatori, la volontà di dargli questa scuola e la libertà di farlo.

    6 gennaio 1923.

AUGUSTO MONTI.