LETTURE

Pensiero fascista

    S. PANUNZIO - Diritto, forza, violenza (Biblioteca di studi sociali

    diretta da R. Mondolfo - Bologna, Cappelli, 1922 - L. 8).

    In questi anni in cui tanto s'è parlato di violenza e tanta se n'è sperimentata, l'osservazione di ciò che avviene sulla strada ha portato anche i più schivi all'intimo convincimento che il più forte ha sempre ragione, in ogni campo dell'umana attività. O non diceva già molti e molti anni or sono un nostro grande scienziato: «Che peccato che le artiglierie non fussero al tempo di Aristotele; avrebbe ben egli con esse espugnata l'ignoranza e parlato senza punto titubare delle cose del mondo!»? È naturale quindi che il problema della violenza e del diritto fosse sentito come assillante ed attuale anche dai giuristi, e ne fosse tentata una trattazione sistematica.

    Dice dunque, Sergio Panunzio: Il diritto si divide in diritto naturale e diritto positivo, o, se meglio vi piace, jus condendum e jus conditum, violenza e forza. L'uno, il diritto naturale, la violenza, è attività, spirito, libertà; l'altro, il diritto positivo, la forza, è passività, meccanicità coazione. Sono, insomma, diritto positivo e naturale, due contrari: «La violenza non è il contrario del diritto, sì bene della forza». Così solo la guerra offensiva è guerra giusta, poiché è libera e attiva: la guerra difensiva, passiva e coatta, rientra sotto il concetto di pena. D'altra parte la violenza è veramente tale solo se ha capacità effettiva di istituire un nuovo diritto, di trasformarsi cioè in forza, in diritto positivo, di contraddirsi trasformandosi nel proprio contrario.

    Ma a che tanto mutarsi e contraddirsi del diritto? A che tanta lotta di forza e violenza? Il mondo attuale è disarmonico, molteplice, ingiusto: il diritto è il processo di educazione dell'umanità alla «società dell'amore e della comunione degli spiriti in uno spirito solo». «L'evoluzione o l'educazione umana è il passaggio dall'esterno all'interno, dall'ingiustizia al diritto, dal diritto al giusto, dal giusto all'amore, termine finale: l'Anarchia». La Giustizia è un grado e una condizione per arrivare all'amore». La violenza, creatrice di nuovi diritti è perciò «la luce della giustizia e dell'amore». «Il diritto naturale è superiore al diritto positivo, e la violenza è più giusta e più bella della forza».

    Questo, all'incirca, il succo delle 216 pagine del volume «Diritto, Forza e Violenza». Come il lettore può facilmente vedere, molto di vecchio e qualcosellina di nuovo, almeno nell'accostar vecchie idee abituate ad abitar lontane.





    Il Pannunzio, con onestà veramente scrupolosa, non ci cela le sue fonti e non rinnega i suoi maestri: il suo libro è graziosamente costellato di note, di richiami, di rimandi, di citazioni, attraverso i capitoli lunghi che si stirano fino alle folte appendici. Lo stile è il tipo perfetto, il paradigma normale dello stile da tesi di laurea, sì che pare che l'autore badi con tesa attenzione a non lasciar nascosto un angolo solo della sua erudizione; come lo studente all'esame che s'appiglia a tutti gli uncini per sciorinare i panni del suo sapere.

    Due soprattutto sono gli autori da cui il nostro deriva: Prudhon e Sorel: nell'uno troveremo la affermazione del diritto della forza e la divinizzazione della guerra; nell'altro la distinzione di forza e violenza, sia pur ridotta al caso speciale della lotta operaia: nell'uno e nell'altro quella profondità, quella concretezza arguta ed umana che ci fanno perdonare i molti errori e le molte incertezze. Il Panunzio, come si conviene a un discepolo, è spiritualmente agli antipodi dei due scrittori francesi: e ci fa l'impressione del professore la cui perpetua ebullizione per nebulose metafisicherie cela una sostanziale eclettica frigidezza. Con gli insegnamenti prudhoniani e soreliani si incontrano nel Panunzio dottrine giusnaturaliste, e quell'infarinatura dogmatica di idealismo che entra ormai, a proposito o a sproposito, in tutti i discorsi, anche i più alieni dalla filosofia.

    Quando Giorgio Sorel diceva: «La borghesia ha adoperato la forza fin dal sorgere dei tempi moderni, laddove il proletariato reagisce ora, contro di essa e contro lo Stato, con la violenza», o quando sosteneva «una differenza tra la forza che sì muove verso l'autorità e cerca realizzare una obbedienza automatica, e la violenza che vuole spezzare quell'autorità», non parlava in vero di altro che di forza borghese e violenza proletaria; affermava due concezioni e due metodi distinti per ragioni storiche e concrete; forza e violenza assumevano il valore di miti, o energie storiche, e perciò la distinzione era valida.

    Prendere questa distinzione, gonfiarla a sistema, astraendo da ogni contenuto storico, significa vuotarla di ogni significato reale.

    Non è nostra intenzione, né si conviene ad una modesta recensioncella, buttarci ad una polemica contro il diritto naturale. Certo i criteri distintivi panunziani tra forza e violenza, considerate come fatto ed atto, necessità e libertà, non sono validi a giustificare piuttosto la guerra offensiva che la difensiva, l'attacco che la difesa, l'insurrezione che la conservazione.





    Per conservare un diritto bisogna adattarsi alla «qualità dei tempi», e nessuna arte è più attiva di questa conservazione sapiente. Ogni guerra è offensiva, è rivoluzionaria, sia che ne esca vittorioso lo Stato che è mosso all'attacco, sia che trionfi quello che ha difeso i propri confini. Due principi, due interessi si trovano di fronte, e il dissidio non si può eliminare, poiché ognuno di questi principi o interessi offende l'interesse o il principio contrario: scoppia la guerra: Chi ha offeso? Chi ha dovuto difendersi? Passivo, costretto è colui che non si difende, e cede senza combattere; ma la difesa è tanto attiva e libera come l'attacco; e, a rigore, non si differenzia in alcun modo dall'attacco stesso. A rigore, lo Stato che si difende non è diverso dallo «Stato che attacca» mussoliniano, traduzione, così all'ingrosso, in termini politici, delle distinzioni panunziane.

    Se il diritto naturale è indirizzato ad un fine, sia pure anarchico, come potrebbe parere da alcune pagine del nostro, non ogni movimento rinnovatore del diritto dovrebbe cadere sotto la categoria della violenza, ma solo quei movimenti che a questo fine fossero rivolti; che se invece, come il Panunzio più chiaramente sostiene, il diritto naturale non è che il diritto positivo nel suo attuarsi, la distinzione si dimostrerà oziosa; ché il diritto positivo non è tale che nel suo attuarsi; e il diritto attuato non è diritto, avendo perso con l'attualità le sue insegne, la forza. Il diritto in atto è quello che si discute nei fori e che si adatta e si svolge con quotidiano travaglio; il diritto fatto, anziché essere una forza, è un leggiadro adornamento degli scaffali delle biblioteche. Lo stesso concetto comune di forza non si disgiunge da quello di attività, di movimento. Il diritto positivo è forza ed è libero ed attivo. L’Etat c’est Hercule, un Ercole ben armato di clava e ben capace ad adoperarla.

    Il Panunzio non può non cadere in contraddizioni, (come quando, dopo aver stabilito tra forza e violenza la contrarietà che intercede tra fatto e atto, riduce la contrarietà a semplice differenza di grado: «la violenza è più giusta e più bella della forza») o in difficoltà (come quando mendica pretesti per negare alla Germania l'onorevole titolo di violenta).





    Il criterio poi della riuscita, della vittoria, che viene usato a distinguere la vera violenza dal conato sterile, non mi pare efficace: se la giustizia della guerra è nella capacità di fare un nuovo diritto, il tentativo non riuscito adempie la giustizia come quello riuscito; che se anche il vecchio diritto esce dalla lotta apparentemente immutato, esso sarà tuttavia diverso, aumentato di forze e di consensi, ricco dell'autorità proveniente dalla vittoria. Nulla si perde compiutamente, né sono inefficaci le società segrete, i colpi di mano, le guerriglie, le opposizioni senza speranza.

    Lasciando di occuparci di questi argomenti che avrebbero bisogno di troppo maggiore sviluppo, e rinunciando ad un paragone particolareggiato che potrebbe forse a taluno sembrare interessante fra i concetti prudhoniani sulla guerra e i suoi limiti e i corrispondenti panunziani, mi preme piuttosto di fare osservare come il libro del Panunzio, se non ci insegna nessuna nuova idea, né ci scopre nuovi orizzonti, possa invece avere una certa pratica importanza.

    Intanto la dottrina panunziana ci spiega a meraviglia quel passaggio dei sindacalisti italiani al fascismo, che altrimenti dovremmo spiegarci caso per caso con ragioni di psicologia o di interesse materiale. La deformazione che il nostro ha fatto subire alle idee di Sorel permette agli adoratori della violenza proletaria di trasformarsi con poca fatica in adoratori di una violenza del tutto generica e scolorita. Di qui a farsi zelatori della violenza antiproletaria e del «dovere sociale» è breve il passo. Poiché in Panunzio non solo il concetto di violenza, ma anche quello di sindacato è passato attraverso il filtro capovolgitore della sua mente astratteggiante: «oggi non si parla più tanto di Sindacalismo rivoluzionario, negativo, parziale, operaio; ma di sindacalismo costruttivo, organico, generale, di tutte le classi, integrale: «Sindacalismo nazionale».

    La violenza generale, il sindacalismo generale, ecco una fortunata terminologia, che lasciando intatte le forme del vecchio sindacalismo, ne fa un comodo ponte per passare all’altra riva, un ingannevole specchio per attrarre i disoccupati amatori della violenza; una giustificazione a base di attività, di spirito, di libertà della tirannide paterna e della passiva servitù.

    Dalle idee del Panunzio sorge anche la possibilità di una generica apologia della tirannide. «Contro il sovrano che opprime e tiranneggia (violenza) il popolo non insorge con la violenza, ma si difende, o meglio resiste con la forza». E poiché la violenza è più giusta e più bella della forza, il tiranno è più giusto e più bello del popolo che difende la sua libertà.

    Dottrina, come ognun vede, in perfetto accordo coi tempo.

c. l.




Economia

    FRANCESCO ANTONIO REPACI - Il livello del protezionismo in Italia. - Pubblicazione del Gruppo Libero Scambista Italiano, Torino, «La Riforma Sociale», 1923.

    Bisogna essere molto grati ai tenaci, pazienti e precisi libero-scambisti italiani, per la conoscenza esatta che cercano di diffondere nel pubblico, sull'altezza meravigliosa raggiunta in Italia dai dazi protettori.

    Che questa conoscenza divenga veramente effettiva, cioè penetri nelle coscienze, svegli opposizioni, scontenti rancori capaci all'occasione di stimolare una azione contraria efficace, è molto dà dubitare. Lamentele platoniche e platoniche affermazioni di principio, molte: ma coscienza diffusa della enorme importanza del problema, volontà di agire in senso opposto, poco o niente.

    La importanza maggiore delle cifre che il Repaci con chiarezza allinea, sta proprio nel far comprendere come la soluzione del problema sia difficile, incerta e lontana.

    La tariffa del 1921 è stata varata alla chetichella ed ha sovvertito la situazione anteriore portando l'Italia fra le primissime nazioni protezioniste del mondo.

    Essa ha tutte le possibili doti.

    È tecnicamente perfetta e nulla le sfugge nessun prodotto può trovare fra le sue maglie il più piccolo adito per passare di straforo, immune da tassazione o favorito da una tassazione ridotta.

    È infinita, la gamma delle sue voci cerca di superare nella varietà minuta la stessa varietà dei rapporti reali: cosicché lo stesso prodotto può trovare spesso non una, ma due o tre voci in cui riposare, ed a libito del Ministero può, passando dall'una all'altra, essere colpito da un dazio maggiore o minore. Per un semplice giochetto di nomi, la tariffa attuale può essere dunque aumentata senza mutamenti: pregio inestimabile.

    È rinforzata, perché ove non spaventi abbastanza le importazioni con l'altezza del dazio, le annichila con la lungaggine delle operazioni necessarie per la sua determinazione: perizie, analisi, calcoli, equivoci, confusioni.

    È previdente, perché protegge non solo i produttori italiani attuali, ma anche quelli futuri, tassando merci che in Italia non si fabbricano e non si sono mai fabbricate.

    È elastica, perché grazie alla riserva sempre pronta del «coefficiente di maggiorazione» si potrà a piacere intensificare quando non basteranno più gli scambietti interni fra voce e voce.





    Se dunque in Italia si è potuto approvare fuori di ogni garanzia costituzionale, una tariffa la quale dà alle industrie protette i più ampi vantaggi, e contemporaneamente la possibilità di assicurarli e di aumentarli; se questa tariffa è stata approvata ed applicata senza sollevare altra opposizione che qualche protesta isolata di piccole aziende importatrici direttamente danneggiate, o di fabbriche lamentanti sperequazioni, ossia, in buone parole, una protezione non abbastanza forte nei loro confronti, si deve concludere che un movimento antiprotezionista valido in Italia non esiste che nelle affermazioni teoriche di alcuni scienziati nobilissimi ma inascoltati, oppure deferentemente approvati… dagli stessi protetti, in sede puramente teorica.

    E si noti che l'aumento della protezione è avvenuto in proporzione fortissima anche per i più importanti prodotti agricoli: animali vivi, carni, brodi, minestre, uova, latte e prodotti di caseificio; zucchero,oli vegetati, semi e frutti oleosi, lana, seta, legname e sughero, ortaggi e frutta partecipano al lauto banchetto.

    La coscienza degli anti protezionisti naturali, tende al conseguimento di una protezione pari a quella ottenuta dai produttori non naturali. Ciò fa dubitare anche della possibilità di una azione degli agricoltori in senso antiprotezionista: a meno che non si pensi un sovvertimento nella attuale distribuzione delle terre, che porti al loro possesso classi diverse ed impregnate di alto spirito.

    Non solo dunque l'Italia è dominata da tariffe protezionistiche esose, il che è troppo noto, ma essa si adagia nel protezionismo, trova in esso la sua soddisfazione, non accenna a concretare un movimento consistente di reazione allo stato di cose dominante: è dormicchiante, indifferente.

    Questo insegna l'ottima pubblicazione del Repaci, la quale ha il gravissimo torto pratico di non poter avere un pubblico: perché essa potrà essere letta ed approvata, nella migliore delle ipotesi, da tanta gente che troverà eccessivo ed iniquo il sistema oggi dominante. Ma questa stessa gente non penserà in quel momento, di vivere appunto e soltanto su quel sistema. Cosicché alla prima occasione pratica, rinnegherà, magari inconsciamente, la sua riprovazione, e con l'uno o con l'altro sofisma, si sentirà di dimostrare che, nel caso suo, la protezione è necessaria, utile ed appena sufficiente.

    Finché insomma il consumatore, espressione teorica senza valore pratico-politico, non lascerà il posto a qualche classe di interessati per i quali il liberismo diventi un elemento essenziale del mito in base al quale agiranno, bisognerà ammettere che, in effetto, il proibizionismo doganale non nuoce a nessuno: perché quelli cui nuoce non lo sanno o meglio non lo sentono politicamente, il che è lo stesso.

    Per intanto sarà bene ricordare che i setaioli non avrebbero bisogno di protezione (dicono) ma che sulla seta il dazio medio è del 20 per cento sul valore della merce, ed il dazio attuale è superiore dell'85 per cento a quello della tariffa 1887.

    Ricordare anche che il dazio sui cereali è rimasto fermo, ma rappresenta pur sempre un altro buon 20 per cento sul valore della merce.

    Ciò ricordato, speriamo pure.

M. B.




Politica estera

    JUV L. LEE - The vacant chair at the council table of the words (Philadelphia, I922).

    Apprezzabile ci sembra l'abitudine americana di redigere opuscoletti politico-economici e diffonderli «per stimolare ulteriori discussioni». Iniziative consimili, tentate presso di noi, riuscirebbero forme di bassa propaganda e di retorica declamazione, testimoniando il difetto di una mentalità politica geniale, di un'educazione pratica e severa.

    Il Lee sostiene la necessità dell'intervento dell'America nella crisi europea, e il suo appello è diretto più particolarmente ai suoi compatrioti che non a noi. L'America - egli osserva - è legata alla prosperità tedesca, è spinta ad aiutare l'Austria onde questi paesi contribuiscano ad assorbire i suoi prodotti. Constata pure la bancarotta della Francia come governo - non come nazione - per il troppo stretto contatto stabilitosi tra la sua politica, i pagamenti della Germania e la sicurezza delle frontiere.

    Circa il problema dei debiti interalleati il Lee non si fa illusioni: salvo l'Inghilterra, nessuno Stato pagherà, e non sarà possibile costringerli a farlo. Ad ovviare alla decadenza dell'Europa l'America dovrà intervenire per portare «non soltanto denaro ma altresì influenza morale».

    Tesi, come si vede, interessante, Ma occorrerebbe conoscere se e quanto sia accettata oltre oceano.


    LEONCE JUGE - Vers l'indépendance politique (Paris, B. Grasset, 1923 - Collection «Politeia»).

    Il piano di equilibrio continentale (proposto dal Juge prima dell'occupazione della Ruhr) si basa sulla seguente affermazione (p. 8): «Il libero sviluppo della potenza francese, nei limiti che le necessità della sua esistenza e del suo compito storico le assegnano, è il mezzo necessario al mantenimento della pace tra i popoli, alla sicurezza della loro indipendenza, e alle realizzazioni materiali che ciascuno di essi, secondo le proprie abitudini e tendenze, può portare per contribuire al progresso umano». Ovvero: il timone alla Francia. Perché? «Grazie a noi, essi [gli altri popoli] hanno potuto vincere; mentre essi pensavano a vivere» (p. 12). Mi pare che il contrario corrisponda alla verità. Ma non è il solo abbaglio. Per esempio (p. 25) l'Italia - secondo il Juge - ha tutti i motivi per desiderare un intimo accordo d'interessi con la Francia, e se ciò non avviene è per colpa di «quelques têtes méridionales (?!) surchauffées».





    Il torto del nostro autore consiste nell’essere un semplicista non soltanto in politica, ma anche in istoria. Eccolo edificare - a sostegno della sua tesi - una teoria che contrappone il genio anglosassone, per sua natura pratico e positivo, a quello idealistico, la cui divulgazione costituisce propriamente la missione della Francia. Chi avrà la pazienza di esaminare (p. 40) le sintesi di storia universale rotanti attorno all'asse francese potrà divertirsi non poco: E invero, questo modo di concepire a masse un problema ci pare singolarmente pregiudizievole alla retta politica intessuta di complicazioni e di distinzioni. Credevamo che la «mission de la France» come «l'imperialismo italiano» avessero fatto il loro tempo, dopo quattro anni di corrosiva esperienza bellica, ed eccoli riapparire, candidi ed immacolati, come se le tremende smentite dei fatti non avessero intaccato il fondo mistico da cui procedono. Quando (p. 45) si richiama - per la soluzione dei problemi europei - il Cyrano di Rostand, si perde quasi il diritto di esser presi sul serio. Se proseguiamo nella recensione è per la speranza di raccogliere qualche sprazzo di luce, come là dove (p. 55) si precisa: direzione politica della guerra: Gran Bretagna; direzione militare, strategica: Francia, oppure (p. 59-60) si annotano le conseguenze del regime repubblicano in rapporto alla democrazia (p. 69).

    Stabilito e storicamente giustificato il compito del suo paese, il Juge passa in un gustoso capitolo (non trovo altro termine per definire il sommario sistema con cui si riducono a una perfetta unità direttive diversissime) a caratterizzare il genio politico anglo-sassone e le sue applicazioni ("conquistatori" i latini, "colonizzatori" gli inglesi, ecc.). Naturalmente, alla vista dell'immaginaria compattezza inglese, il Juge è preso da un vivo desiderio di imitazione, e propone ciò ch'egli chiama «carbonarismo francese». (p. 161): «Preoccupiamoci di edificare una dottrina che sia anzitutto storicamente vera, e che in secondo luogo, ci sia propria; costituiamo in seguito un quadro politico-nazionale unico al quale questa dottrina servirà di base; infine, formiamo un gruppo inferiore capace, indipendentemente da ogni ideologia mistica o confessionale, di adattarsi e di adattare anche gli elementi di divergenza ch'esso racchiuderà, a questa unica ideologia politico-nazionale».





    A simili conclusioni utopistiche (della prima parte: «La missione della Francia e il genio politico anglo-sassone») il Juge è spinto dalla constatazione dei vari elementi (tradizione cattolico-monarchica, relativo gallicanesimo e scacco della Riforma grazie all'editto di Nantes; tradizione pseudo democratica, e rousseauismo; protestantesimo) che compongono il quadro francese, in confronto alla coerenza di quello inglese (che utilizza persino la Massoneria ai fini nazionali). È quasi inutile presentare l'obbiezione capitale: dato e non concesso, perché le generalizzazioni anglo-sassoni dell'autore sono più che discutibili) che il contenuto delle due politiche sia vero, e cioè alla compattezza inglese corrisponda la dispersione francese, è mai possibile che proprio oggi si riesca a creare quella miracolosa unità che duemila anni non sono riusciti a comporre alla vita politica francese? Vediamo, in altri termini, risorgere prepotente il concetto (non mai abbastanza deprecato) di blocco, di cementazione artificiale. Si tentano di storcere le mutevoli correnti della storia (cioè lo spontaneo organizzarsi dei fatti) a beneficio dello sfruttamento della realtà pratica.

    Dimostrata l'infondatezza della prima parte del libro, esaminiamo quanto di accettabile contenga la seconda: «Politica di equilibrio europeo e politica di equilibrio continentale». La tesi del Juge è la seguente (p. 219): «Il sedicente equilibrio europeo era in realtà un equilibrio anglo-europeo fondato sullo squilibrio continentale. L'ultimo conflitto non fu una guerra europea, fu un conflitto anglo-europeo di cui la rovina continentale segna l'esito». La soluzione (pp. 227-229) è in una alleanza anglo-francese. «La Francia sopravvive gloriosamente all'indebolimento materiale del suo impero e il suo genio conduce ancora i popoli verso l'avvenire perché esso non si è fermato alla consacrazione di una supremazia materiale come a uno scopo definitivo»: pertanto, essendo storicamente all'avanguardia dei popoli europei essa può unire «i mezzi di azione morale di cui dispone l'Inghilterra». Insomma, il «blocco anglo-francese basta a far da contrappeso a qualsiasi gruppo continentale».





    Quindi, poiché - nota con la medesima tremenda semplicità il Juge - la Russia si volge all'Oriente, la Germania è avvilita e preoccupata delle proprie condizioni di sussistenza e non può aver interesse a un'alleanza russa (la quale trascina con sé elementi di disorganizzazione), l'Italia è fissa a controbilanciare la Jugoslavia nell'Adriatico, non trovano luogo obbiezioni o motivi d'allarme, e la cosa è fattibile.

    (Incidentalmente, osservo a p. 259 particolari curiosi e nuovi - il Juge visse lungo tempo in Russia - sulla Corte degli Czar e a p. 280 rilevo una singolarissima - e per me inaccettabile - interpretazione dell'intervento russo nella guerra, presentato come mossa affettuosa al seguito della Francia).

    Anche qui gli spropositi del Juge sono enormi. L'occupazione della Ruhr ha palesato anche ai ciechi volontari l'inesorabile dissidio franco-inglese. Occorre - e mi sembra difficile - che la Francia si persuada che nella politica di destra essa è isolata. L'Inghilterra non avrebbe convenienza alcuna ad adottare le ideologie reazionarie correnti in Francia, e tende anzi a una direzione opposta. L'orientamento intellettuale francese (e per riflesso quello politico) non è condiviso che da una minoranza tedesca (di antifrancesi ad oltranza, però!) e, purtroppo, da coloro che reggono il nostro Governo e ispirano la nostra «civiltà» attuale.

    Caratteristica del Juge è la costante astrazione dai fatti: rilevammo or non è molto sulla R. L. come faticosamente si cominciavano in Francia a comprendere le differenze della mentalità e degli interessi inglesi. All'autore di questo libro è mancata completamente questa sensibilità internazionale: prese alcune posizioni rigide (genio individualista della Francia, supremazia universalmente ammessa del pensiero francese, necessità di unificare le tendenze politiche della nazione) corrispondenti a dogmi, egli ha architettato il suo piano, senza tener conto della realtà quotidiana che lo andava logorando punto per punto. Salvo alcuni tratti di limitato interesse, il libro del Juge manca di perspicacia: è notevole soltanto come attestazione dell'infatuazione del pensiero francese.

    Ma è, ripeto, sopraggiunta - a sventare gli artificiosi progetti elaborati a tavolino (ah, diplomatici, perché non cercate di essere un po' giornalisti !) - l'occupazione della Ruhr.

BRIGHTON.